di Antonio Mazzeo
Dopo tredici anni di amministrazione militare del Kosovo e la spesa
di ingenti risorse finanziarie, la NATO riconosce di non essere più in
grado, con le forze attuali, di evitare la degenerazione del conflitto
tra la maggioranza albanese e la minoranza serba. Così, alla vigilia
delle prossime elezioni politiche in Serbia, il comando generale
dell’Alleanza atlantica annuncia che dal primo maggio verrà rafforzato
il dispositivo di uomini e mezzi che presidiano strade e villaggi del
Kosovo (KFOR – Kosovo FORce). Secondo Bruxelles, saranno quasi
700 gli uomini dei corpi di pronto intervento di Germania e Austria che
raggiungeranno la mini-repubblica balcanica dichiaratasi indipendente
dalla Serbia nel 2008.
“Nel valutare la situazione odierna, la NATO e l’Unione Europea si
sono rese conto che le forze KFOR sul campo potrebbero non essere
sufficienti per rispondere in modo appropriato a eventuali incidenti e
scontri in Kosovo, legati alle elezioni in Serbia”, ha ammesso il
portavoce del Comando centrale militare tedesco, Hauke Bunks.
Il dispositivo KFOR prevede dal 1° marzo 2011 due Multinational Battle Groups,
di cui uno a conduzione italiana. Attualmente, la missione vede
schierati 31 paesi con 5.500 uomini. La Germania è il paese impegnato
con il maggior numero di militari, 1.300, più altri 550 che giungeranno
nei Balcani tra meno di una settimana. Seguono poi l’Italia con meno di
1.000 uomini e gli Stati Uniti con 800. Alla forza d’intervento NATO si
aggiungono poi i 3.200 uomini della missione EULEX dell’Unione europea (European Union Rule of Law Mission in Kosovo),
con il compito di “monitorare e guidare le nascenti istituzioni del
Kosovo nei campi della Polizia, della Giustizia e della Dogana”. La
missione europea ha preso il via il 4 febbraio 2008 (tredici giorni
prima, cioè, della dichiarazione unilaterale d’indipendenza) ed opera,
sostanzialmente, sotto il comando e la direzione della NATO.
Inizialmente a capo di EULEX venne chiamato il generale francese Yves de
Kermabon, dal 2004 al 2005 Comandante dell’operazione KFOR. L’odierno
responsabile EULEX è il connazionale gen. Xavier Bout de Marnhac, capo
KFOR nel biennio 2007-2008.
Nel caso di un inasprimento del conflitto tra le comunità albanesi e
serbe, l’Alleanza Atlantica potrebbe chiamare all’Italia un maggiore
impegno in Kosovo per i prossimi 5-6 mesi. Le forze armate italiane sono
di base a Pec-Peja, nella parte occidentale della repubblica. Personale
dell’Aeronautica militare della cosiddetta Task Force “Air”
opera invece nell’aeroporto AMIKo di Djakovica in supporto e assistenza
ai velivoli dei partner NATO. Nello scalo di Djakovica è presente
anche il Gruppo elicotteri dell’Aviazione dell’Esercito denominato Task Force “Ercole”.
Gli altri centri operativi delle forze KFOR sorgono a Lipljan, Novo
Selo, Prizren e Urosevac. Sotto il comando e la direzione dell’US Army Corps of Engineers,
sono stati completati di recente i lavori di costruzione della più
grande e moderna installazione militare NATO in tutta l’area balcanica:
si tratta di “Camp Bondsteel”, nella regione meridionale del Kosovo,
quasi alla frontiera con la Macedonia. La struttura si estende in
un’area di 955 acri (poco meno 4.900.000 metri quadri) ed è in grado di
ospitare sino a 5.000 uomini tra militari, civili e contractors. Nuova
sede del comando generale di KFOR, “Camp Bondsteel” è una vera e propria
cittadella autosufficiente: ospita numerosi magazzini e depositi di
armi e munizioni, caserme e aree residenziali per i familiari dei
militari, scuole, centri sportivi e commerciali e un grande ed
attrezzato ospedale militare.
La nuova base kosovara avrà il compito di proiettare le forze
terrestri e aeree USA e NATO in un’area compresa tra l’Adriatico e il
Caucaso. Come evidenziato da alcuni analisti, la sua localizzazione
consente di porre sotto controllo due corridoi terrestri ed energetici
di importanza strategica per l’Occidente: quello progettato dalle
imprese tedesche (e lautamente finanziato dall’Agenzia europea per la
ricostruzione) che congiunge, via Belgrado, il porto rumeno di Costanza
ad Amburgo, e quello “statunitense” (con fondi USAID) sulla rotta
Bulgaria-Macedonia-Albania.
Le azioni di guerra alleate in Kosovo si svilupparono nel corso della
primavera 1999. Secondo il Comando supremo dell’Alleanza, in 78 giorni
furono lanciate più di 38.000 sortite aeree; 900 i velivoli NATO
impegnati, 600 dei quali di pertinenza delle forze armate USA. Buona
parte degli strikes partirono da basi aeree italiane (Aviano,
Gioia del Colle e Sigonella in primis) e da unità navali dislocate
nell’Adriatico. A dirigere le operazioni, il Combined Allied Operations Center
installato ad hoc all’interno dell’aeroporto “Dal Molin” di Vicenza,
oggi al centro dei lavori di trasformazione nella base-comando della
173^ brigata aviotrasportata dell’esercito USA e delle forze terrestri
di USAFRICOM destinate al continente africano.
Alla guerra parteciparono per la prima volta i cacciabombardieri stealth
B-2, fatti decollare dalla base aerea di Whiteman (Missouri) e
riforniti in volo da aerei cisterna USA e NATO provenienti da basi
italiane. Battesimo di fuoco anche per i giganteschi aerei cargo C-17 Globemasters
, che trasportarono in Albania e Macedonia gli oltre 5.000 militari e
gli elicotteri d’assalto poi utilizzati per l’invasione e l’occupazione
del Kosovo. Ad oggi è ancora ignoto il numero dei civili che furono
uccisi durante le operazioni aeree alleate in Serbia e Kosovo. Secondo
l’organizzazione non governativa statunitense Human Rights Watch
le vittime dei caccia NATO sarebbero state tra 489 e 528. Anonimi
“effetti collaterali” di un conflitto-pantano insensato, la cui
risoluzione manu militari appare sempre più lontana.
http://romperelerighe.noblogs.org/post/2012/05/09/in-kosovo-ce-sempre-piu-nato/#more-952
mercoledì 9 maggio 2012
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