trad. ParoleArmate
L’essenza e il potere di un -e solo di uno- rifiuto in un mondo pieno di convenzioni.
Negli ultimi anni sono dozzine i combattenti della
comunità anarchica/rivoluzionaria ad essere stati incarcerati nelle
prigioni della democrazia greca.
Prigionieri dello stato per aver cercato di
intensificare la guerra sociale civile (che ognuno di noi a proprio modo
ha osato tentare), combattiamo la condizione di isolamento e le
convenzioni che questa condizione produce.
Dimoriamo nelle prigioni dentro speciali gabbiette,
dove non possiamo stare in piedi, viviamo nello spazio vitale minimo che
ci viene dato, rispondiamo come tutti i prigionieri ai comandi di un
altoparlante (per le visite, per il cibo, per l’avvocato), sentiamo la
campana e entriamo nelle nostre celle per la conta, andiamo in cortile
per le ore che ci vengono concesse.
In breve, le convenzioni
che abbiamo in prigione sono molto soffocanti e sono diventate parte di
un quotidiano ripetuto e controllato al quale ci siamo uniformati per
sopravvivere, per riunire le forze (di norma) per i rifiuti e i momenti
di lotta che inneschiamo. Perché come all’esterno, un conflitto costante
dentro un ambiente completamente alieno, se non ostile, non è
possibile, visto che non finisce solo in stallo ma è anche
autodistruttivo.
Ma contro un disfattismo attivo o passivo che vuole
le cose stabili e soprattutto stabili e schiavizzate, scopriamo e
cerchiamo di diffondere che qui c’è una piccola differenza -con
contrasti qualitativi netti- tra una condizione di schiavitù e una di
prigionia:
a) riconoscere la temporaneità della nostra
permanenza in prigione e allo stesso tempo non accettarla come qualcosa
che dobbiamo scontare con le teste chinate aspettando il momento del
nostro rilascio.
b) sentire il bisogno urgente (basato su
un’espressione simultanea di consapevolezza e istinto) di lottare e
liberarci – anche per un momento in ogni modo possibile.
c) sperimentare le possibilità e sentire il
potenziale della costruzione anche di piccole comunità di
autoeducazione/conversazione/lotta contro le tattiche di “dividi e
impera” promosse dal “servizio correzionale” che mira alle divisioni
religiose, razziali ed economiche tra prigionieri.
d) sviluppare una prospettiva che cerchi e causi
fratture dentro lo spazio confinato e il tempo condensato nel quale
sopravviviamo.
Ciò ci fa resistere, cercando soprattutto di rimanere
vivi e forti in reattività costante oltre che di tener viva la
scommessa della nostra lotta in queste fogne.
Cosi, ogni individuo (o gruppo), secondo il corso
delle proprie basi e valori teorici, ma anche attraverso la prospettiva
reale che da alla lotta stessa negli spazi di questa “punizione” e
“isolamento”, continua a difendere la propria esistenza e la lotta fuori
le mura, e spesso la esprime adattata alle condizioni di “qui”, in modo
individuale o in relazione agli altri prigionieri (anarchici o no).
Perché oltre ai “doveri” che definiscono in parte la
nostra esistenza in prigione, alcuni possono attuare momenti di rifiuto e
azioni individuali o collettive, dentro il terreno nemico ma anche
giornalmente una invisibile piccola o grande preparazione di quelle
azioni cosi come delle relazioni che possono nascere.
Le relazioni tra prigionieri di guerra, ma anche
quelle tra prigionieri di guerra e altri prigionieri che rifiutano di
vendersi al sistema correzionale, che rifiutano l’incubo delle droghe,
che rifiutano di diventare spie, che non vogliono diventare parte della
gerarchia carceraria (sia come capi che come seguaci, che vogliono
distaccarsi dall’individualismo e della criminalità cannibale (che è
rivolta verso chiunque) che li ha condotti in prigione, che non vogliono
scontare la loro pena a testa bassa, e tramite le condizioni stesse che
hanno vissuto (prigionia e divisione) vogliono costruire una nuova
identità basata sulla solidarietà e sulla sete di libertà.
Cosi, una delle scelte che facciamo in prigione a
livello personale, è quella di rifiutare di denudarci durante le
perquisizioni corporali che i nuovi arrivati devono fare. Procedura
durante la quale oltre a spogliarsi, secondo la disposizione carceraria
come preferiscono chiamarla, il prigioniero deve “accovacciarsi”,
chinarsi davanti alla guardia e tossire, dando poi un campione di urina.
Forse questo rifiuto nelle prigioni greche viene da
gente che è anarchica o no, che non abbiamo avuto l’onore di incontrare,
ma abbiamo sentito di questa condotta da un compagno che ha iniziato a
praticarla quando è entrato in prigione nel 2009.
Con velocità, proveniente dalla nostra inclinazione a
continuare la lotta sotto le nuove condizioni in cui ci troviamo,
abbiamo deciso di familiarizzare con questa pratica, cosi come altri
prigionieri anarchici negli ultimi 3 anni.
La reazione del “sistema correzionale”, eccetto la
sorpresa nell’iniziale reazione della maggioranza delle guardie (che
sfortunatamente sono incaricate di agire che lo vogliano o meno) è
diversa da prigione a prigione. Varia dall’uso di mezzi moderati (metal
detector perché ovviamente non cercano droga) fino all’isolamento e alle
sanzioni o ai trasferimenti disciplinari, o alla denudazione violenta
da parte delle guardie.
Il processo di correzione funziona come un meccanismo
che vuole distruggere i fuorilegge e i prigionieri indisciplinati e
mira a guidarli al loro addomesticamento tramite soluzioni individuali e
comportamenti sottomessi che permetteranno loro un miglior trattamento
nella vita quotidiana in cella o in aula. In questo modo viene
assicurata la normalità della prigione, con droghe che vengono
apertamente distribuite per rinforzare questa condizione.
La perquisizione corporale è un elemento basilare di
questo processo. Durante essa, il prigioniero per la prima volta entra
in contatto con le guardie e accetta i loro primi comandi.
E’ in questo momento che il prigioniero cosi come le
guardie si definiscono e stabiliscono a grandi linee il trattamento
reciproco per quando si troveranno da entrambi i lati del cortile.
Quindi, come risultato dei nostri desideri, di non
giacere in silenzio crediamo che il rifiuto di spogliarsi possa essere
un piccolo rifiuto tra le dozzine di convenzioni quotidiane con il mondo
della prigione, che almeno ostacola l’invasione sferrata dalle guardie
alle nostre vite e ai nostri corpi.
Perché cosi, nonostante le conseguenze che possiamo
subire, agiamo contro il “servizio correzionale” ricordandogli quanto
sia fragile e temporaneo il loro tentativo di controllare le nostre
mosse, mentre allo stesso tempo ci riprendiamo – anche se per poco e
parzialmente – il controllo dei nostri corpi non permettendogli di
guardarci con il loro sadismo o la loro perversione.
Quindi, rifiutando di sottometterci al controllo più
umiliante, gli facciamo capire che non saremo sottomessi su base
definitiva agli ordini che ci danno, eseguendoli. Cosi, vengono
tracciati i primi confini, i primi bilanci in una relazione autoritaria
tra guardia e prigioniero.
Se un prigioniero ha qualcosa da guadagnare in questo
modo, è che non verrà poi trattato in modo offensivo, non vedrà
ignorate le richieste, non affronterà il dover far favori in cambio di
qualcosa, cose che avvengono non raramente.
Quindi, questo rifiuto è per noi di grande importanza
e la sua essenza sta nella sua stessa espressione in questo particolare
spazio e tempo.
Ovviamente ciascuno definisce le priorità dei rifiuti
e i momenti di lotta (quantomeno se c’è una simile inclinazione), cosi
senza alcuna condizione pensiamo che tutti i prigionieri o anche quelli
anarchici che non reagiscono a queste misure hanno qualcosa di meno
-qualunque possa essere- rispetto a quelli che reagiscono. Per qualcuno
può essere più importante resistere e preparare un rifiuto, quando e
dove qualcun altro firma una convenzione o viceversa. Qui, nessuno è
“pulito” al 100%, anche se noi tutti probabilmente vediamo le
convenzioni degli altri come contrappeso a come ci fanno sentire le
nostre convenzioni.
Comunque, c’è il bisogno di gestire i rifiuti e le
isolate e decentrate azioni da individuo a individuo e da prigione a
prigione, c’è il bisogno di UNITA’ e la CONVERGENZA DELLE LOTTE E DELLE
PROSPETTIVE tra prigionieri di guerra e verso questa direzione noi tutti
dobbiamo muoverci dal momento che ci prefiggiamo come priorità la
RIVOLUZIONE ANARCHICA, di progettualità di SOLIDARIETA’, ORGANIZZAZIONE
ANTIGERARCHICA, di DISTRUZIONE DELLA SOCIETA’ AUTORITARIA E CAPITALISTA E
DELLE SUE PRIGIONI.
Concludendo..
Dal momento che anche in maniera confusa riconosciamo
l’esistenza di una comunità di lotta, dal momento che veniamo colpiti
quando i nostri compagni fuori le mura vengono colpiti, dal momento che
abbiamo riconosciuto che la solidarietà ai prigionieri anarchici che
rifiutano di spogliarsi è sostanziale, sentiamo di avere una posizione
onesta e ovviamente soggettiva riguardo a ciò al fine di comunicarne
l’importanza a chiunque mostri o no interesse per il caso di Rami o di
qualunque altro caso simile.
Allontanandoci da un riferimento semplice e
inequivocabile alla dignità (termine ambiguo in uno o nell’altro modo) e
rifiutando di trasformare in commemorazioni i momenti e le scelte di
lotta creando immagini e riproducendo spettacoli, guardiamo avanti e
offriamo linfa alla motivazione dei compagni fuori le mura che secondo
noi deve avere come priorità il fatto che un prigioniero anarchico è da
50 giorni in isolamento.
Cercando ancora modi più dinamici d’azione che
aumentino le relazioni e i preparativi che abbiamo citato nel nostro
testo, iniziamo lo sciopero del carrello dal 16 maggio, come iniziativa
solidale al compagno anarchico Rami Syrianos che chiede l’immediato
trasferimento e che è in sciopero della fame dal 15 maggio.
SOLIDARIETA’ ALL’ANARCHICO RAMI SYRIANOS CHE E’ IN ISOLAMENTO DAL 26 MARZO E IN SCIOPERO DELLA FAME DAL 15 MAGGIO
RABBIA E CONSAPEVOLEZZA
I prigionieri di guerra anarchici
Giannis Skouloudis
Sokratis Tzifkas
Dimitris Dimtsiadis
Mpampis Tsilianidis
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