venerdì 6 aprile 2012

Università, guerra e dintorni.



La lettura dell’opuscolo “L’università in guerra” redatto dai compagni di Rovereto, ha stimolato in noi la necessità di analizzare i rapporti di convivenza e cooperazione, sempre più stretti e frequenti, tra gli apparati militari e la società civile. È ormai fatto accertato che la presenza dei militari non interessa solo paesi occupati o in via di occupazione, ma anche la quotidianità di diverse città italiane. Da qualche anno a questa parte, infatti, pattuglie di militari sono state affiancate a polizia e carabinieri per il controllo dell’ordine pubblico. Questa “strategia” ha un duplice obiettivo: da un lato serve al governo a rispondere alla crescente domanda di sicurezza, indotta da anni di terrorismo psicologico, proveniente dalla società; dall’altro serve ad abituare le persone alla presenza quotidiana delle mimetiche in strada.
È così che nascono progetti di mini naia, ovvero brevi periodi di addestramento militare dedicati a ragazzi e ragazze delle scuole secondarie superiori, per rendere possibile il confronto con il bellissimo mondo dell’esercito.
Sia sul fronte esterno che quello interno la migliore situazione possibile per l’espletarsi del ruolo dei militari è che tra questi e i civili si instauri un rapporto di pacifica convivenza o meglio di assoluta fiducia. È da questa esigenza che le azioni di guerra diventano missioni di pace, che le occupazioni militari di altri stati diventano missioni umanitarie, che le stragi di civili vengano definite danni collaterali, che gli interessi coloniali diventano esportazione di democrazia.
Il processo educativo che trasforma un assassino in un benefattore passa necessariamente attraverso i due canali maggiormente preposti a plasmare le menti delle persone: i mass-media e le scuole. È così che le nostre vite vengono invase da messaggi che ci vogliono convincere di quanto siano crudeli i barbari stranieri che riducono le donne in schiavitù imponendo loro di indossare il velo, che credono in un dio violento e sanguinario che li costringe a farsi esplodere in mezzo a persone innocenti e di quanta democrazia essi necessitano. D’altro canto diffondono la disperazione per un nostro bravo ragazzo ucciso, elogiandone la purezza d’animo e la semplicità che non gli avrebbe fatto torcere un capello ad un bambino se non fosse stato strettamente necessario, che altro non faceva se non regalare cioccolata alla popolazione e difendere gli interessi dell’ENI a Nassiriya, ad esempio.
Un aspetto importante e poco conosciuto nel processo di assuefazione delle masse è quello che da qualche tempo sta coinvolgendo le università anche di alcune città italiane.
Dall’ opuscolo dei compagni vengono alla luce i progetti e le collaborazioni, molto intime, tra ambienti accademici, ambienti militari e aziende che operano nel settore della difesa e della sicurezza.
Grazie alle leggi riguardanti il tema dei finanziamenti privati alle università, in ultimo il decreto Gelmini, è possibile per aziende e fondazioni finanziare direttamente le ricerche e conseguentemente indirizzarle nella direzione più conveniente per loro. Questa soluzione sembra particolarmente apprezzata dall’industria bellica per la ricerca tecnologica su nuovi materiali, armi altamente sofisticate, nuovi strumenti per l’identificazione personale, nanotecnologie da usare contro terroristi, radar e sistemi di telecomunicazioni per la corretta ed efficiente sorveglianza dei confini o dei check point.
Il livello di penetrazione della guerra nell’università non si sviluppa soltanto con finanziamenti alla ricerca ma anche in specifici corsi dedicati con tanto di masters o progetti in collaborazione con gli eserciti stessi. Ad esempio l’esercitazione multi nazionale Clever Ferret condotta dagli alpini italiani della brigata Julia, contingenti ungheresi e sloveni affiancati da sei studenti di Scienze Internazionali e Diplomatiche dell’Università di Trieste a cui sono state affidate le analisi degli aspetti politici e legali in vista dell’impiego dei suddetti contingenti in Afghanistan.
Ciò chiarisce come nel momento storico in cui le guerre non si combattono più tra eserciti regolari, ma sotto forma di guerriglia asimmetrica con le popolazioni da sottomettere, il ruolo delle scienze sociali sia indispensabile per gli eserciti nell’atto dell’occupazione militare. A tale proposito oggi si vanno esasperando i concetti di peacekeeping e peacebuilding che sono i neologismi con cui il potere maschera le sue guerre. Venendo a mancare lo scontro diretto tra gli eserciti ed essendo le popolazioni civili sempre più coinvolte nelle operazioni militari, diviene necessario l’utilizzo delle conoscenze umanistiche per aggirare i problemi tecnico legali che tali tipi di conflitti possono comportare.
Il modello israeliano, da sempre all’avanguardia in questo tipo di infamie, prevede l’esistenza di una “divisione di diritto internazionale” dell’esercito il cui ramo operativo ha escogitato delle tattiche che consentono ai militari sul campo di applicare quelle che vengono definite“tecnologie dell’avvertimento”, in questo seguendo le linee guida del primo protocollo aggiuntivo del 1977 alla Convenzione di Ginevra del 1949 che invita a “un’efficace avvertimento prima degli attacchi che possono colpire la popolazione civile”. La funzione legale di questi avvertimenti è quella di considerare coloro che non evacuano da un edificio o un territorio al pari di individui che prendono parte alle ostilità, quindi “scudi umani volontari”. Questa categoria di persone non viene più presa in considerazione come “civile” e può essere colpita come “bersaglio legittimo”.
Abbiamo riportato questo esempio che riguarda l’esercito israeliano anche per illustrare i rapporti collaborativi che in tal senso legano l’università italiana a quella israeliana.
L’università di Trento e quella di Haifa collaborano nei settori delle nuove tecnologie e dell’intelligenza artificiale nell’ambito militare e tale attività si concentra su ricerca e applicazioni il cui obbiettivo è “avanzamento tecnologico per lo sviluppo umano, inteso come un’area che comprende tecnologia avanzata per l’educazione, l’intrattenimento, l’accesso e la presentazione dell’informazione”.
Ricordiamo che le università di Trento e Napoli sono state le prime ad aver inserito nell’offerta formativa il corso di studi in “scienze internazionali e diplomatiche”. Quindi riteniamo plausibile un coinvolgimento sempre maggiore dell’ateneo cittadino nelle attività di supporto all’apparato militare.
Ci sentiamo di poter affermare che nel prossimo futuro questi rapporti collaborativi diventeranno sempre più frequenti e sempre più studenti saranno coinvolti in queste immonde attività. La linea di demarcazione tra militari e civili sempre più sottile tenderà a scomparire finché la società sarà completamente militarizzata.
Questo scenario può e deve essere evitato attraverso un’opposizione realmente radicale che colpisca gli interessi e gli interessati che spingono verso la totale militarizzazione della società.

(estratto dal Giornale Anarchico “LA MICCIA” n.58, dicembre 2011)

Nessun commento:

Posta un commento