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martedì 24 gennaio 2012

Sul carcere Internazionale Situazionista


In una società in cui i proletari sono criminali, le galere si riempiono di proletari. Ma ormai da tutti i luoghi della segregazione sale una minaccia mortale alla totalità delle condizioni esistenti: lo sanno bene i detenuti di San Vittore e di tutta Italia che hanno scatenato la loro rivolta disperata.
Tutti gli acrobati del pensiero progressista che affermano che "le cause delle colpe degli individui sono da ricercarsi nella Società", omettono sempre di dire di quale società si tratta e quali siano realmente queste colpe di cui si macchiano gli individui. Un giornale riporta: "polemicamente il professor Alberto Dall'Ora avvocato e giurista afferma: 'Anche i detenuti sono uomini. Come noi, niente affatto diversi da noi". Quest' infelice ignora evidentemente la differenza tra un bipede beneficiario dei Diritti dell' Uomo e un uomo che sa che la libertà di ognuno passa per la libertà di tutti.
Non è facile diffondere il pensiero fra il proletariato in circostanze comunque controllate dal potere; ma nel frattempo si può, con pazienza, sterminare a una a una tutte le formiche umanitarie. Tutti gli specialisti del pensiero della separazione che credono di vedere nella rivolta delle carceri "la crisi del sistema carcerario in questa società" ignorano che si tratta invece delle crisi di questa società che si manifestano inizialmente nei settori più separati della sua organizzazione. "Al magistrato Sinagra che si rivolgeva (... ) ai detenuti dicendo: "Io faccio parte di quell' ala della magistratura che si è battuta e si batte ancora per la riforma dei codici", questi rispondevano: "Ormai San Vittore è in mano nostra, non abbiamo più paura della polizia. Voi siete nostri nemici. siete degli sbirri" ( Corriere d'Informazione, 15 aprile). L'ala progressista della magistratura è stata ascoltata con il lancio di "pacchetti maleodoranti".
L'ala esterna della riforma della magistratura, l'ineffabile "opposizione extra-parlamentare", il "movimento studentesco", essendo dello stesso parere, merita la stessa risposta: impotente a giustificare "teoricamente" la sua posizione, e in realtà sconcertato che si tratti dopotutto, di "delinquenti comuni", si astiene dall'intervenire; esso accoglie con gioia il " marxismo" derisorio dei suoi nuovi confessori filomaoisti che non riuscendo a spiegare la rivolta "perché non ne se ne può fare un'analisi di classe", gli forniscono l'alibi preferito per mantenere un'ordine che non ha mai messo in questione. Queste pecore che si credono lupi, e che sono ritenuti tali, non trovano niente di meglio che proporre il sudicio baratto "O dentro Riva o fuori tutti". La risposta delle carceri era chiara: "Dentro Riva e fuori tutti".
Non è un male che tutto l'infame cinismo borghese, privato della maschera di compassione pretesca, venga a galla e quindi, fattosi giustamente apprezzare, possa andare finalmente a fondo. Per i carcerati, quanto a loro, la rassegnazione non è più possibile. Essi hanno fatto ciò che gli studenti non hanno mai concepito, nemmeno quando hanno avuto la forza di occupare l'università. La rivolta dei detenuti è una rivolta contro la società, contro la proprietà del lavoro che è anche proprietà degli uomini. Essi, allo stesso modo delle bande di giovani che ogni settimana a Londra seminano la distruzione nelle stazioni della metropolitana, ma più radicalmente perché al livello più elementare della costrizione, devono esplodere in un furore in cui gustano, precariamente, la libertà. La sua mancanza è assoluta, anche se è una mancanza vile ammantata di "progresso", ma è la coscienza di essa che oggi si fa sentire e brucia di più. "Negli avvenimenti è facile avvertire una nota particolare: l'agganciamento, cioè, ad una spinta diffusa, che quasi si respira nell'aria, verso il disordine, verso la protesta tumultuosa e immancabilmente ricattatoria" (Corriere della sera). In queste dichiarazioni inquiete è facile avvertire una nota particolare: ciò che provoca più di tutto il potere è il fatto che i colpevoli rifiutino l'indegnità essenziale come loro qualità sociale e come condizione separata. I detenuti, i prigionieri più degli altri, i condannati senza compensazioni non si sentono nè colpevoli nè rassegnati. Nella loro rivolta vi è l' affermazione confusa di una libertà totale.
Si tratta, sia pure limitata a un carcere momentaneamente liberato dai secondini e assediato dalla polizia, di una situazione rivoluzionaria che cerca le sue forme: il movimento scatenato dal proletariato lancia il suo richiamo, non lascia fuori di sé e rade al suolo tutte le prigioni. Nel momento in cui i carcerati prendono il potere nel carcere, nel momento in cui possono gridarlo e distruggere le porte delle celle, non esistono più gerarchia nè prigione. Un carcere occupato non è più un carcere, un "luogo di pena". "San Vittore si sta distruggendo" scrive la stampa. Nelle distruzioni con cui i carcerati hanno dichiarato la loro battaglia e la loro festa, le parole d'ordine meschine e riformiste vengono superate dai gesti radicali degni della Comune: l'incendio e la devastazione della chiesa nelle Carceri Nuove di Torino, l' assalto all'infermeria, alla biblioteca e alla cappella di San Vittore difesa dai sacristi a Milano, il rifiuto e il disprezzo di trattare con il prete (chiunque conosca il ruolo compiacente del cappellano in un carcere, il suo ascendente a buon mercato anche sui detenuti non religiosi, non può non valutare la portata di questo dettaglio), la distruzione delle porte di ferro, delle inferriate, dei mobili, degli impianti elettrici e igienici, il saccheggio delle mense, la cattura degli ostaggi, la ferocia negli attacchi alla polizia, il coraggio nella difesa. "Il carcere torinese (…) rivela opere di devastazione, di distruzione e di saccheggio assolutamente impensabili e incredibili". Alle 6 di mattina il terzo raggio di San Vittore "bolliva ancora di rabbia". Il 29 maggio, durante la rivolta nel carcere di Perugia, un tentativo di sortita dei rivoltosi viene bloccato all'ultimo cancello.
Come la sollevazione di Battipaglia, la rivolta delle carceri ha avuto sfumature di festa: saccheggi e trofei a battipaglia; saccheggi e banchetti (con colossali bevute) nelle carceri. "E' stata una notte di canti e di autentiche pazzie". A Battipaglia la gente "normale" compie atti criminosi contro il potere, e nelle carceri i "criminali" si comportano come uomini normali: la libertà è il crimine che contiene tutti i crimini. Ogni gesto di rivolta è una rivolta contro i rapporti sociali esistenti che la suscitano, ma essa deve trovare la via della totalità. E' questa ricerca dei fatti che viene dichiarata dalla profondità critica della insurrezione delle carceri. Solo il rifiuto di tutta la società come totalità può avere unito i detenuti in attesa di processo (che vanno incontro a sicure condanne) ai condannati, in una lotta che suona irresponsabile per il baratto delle condizioni di sopravvivenza.
L'unità del mondo è l'unità della miseria, l'unità del lavoro-merce e della vendita-consumo della vita. Coloro che hanno trasgredito - o preso alla lettera, è lo stesso - le leggi della merce non sono adatti a vivere nella società su cui essa regna. Essi sono i negri della società di classe, gli esclusi dal beneficio di essere sfruttati in vista di una ben più vantaggiosa integrazione. La società dove il lavoro è venduto come merce deve essere fondamentalmente gerarchica, e questa gerarchia classica dell'espropriazione non fa che riprodursi e creare dappertutto i razzismi e le segregazioni. Ma essa è anche la tara originaria della razionalità mercantile, la malattia che essa è costretta ad alimentare e che la mina inesorabilmente. La società della proprietà e della privazione della proprietà, della proprietà di cose attraverso la proprietà di esseri, trova la sua risposta naturale nel furto e nell'omicidio, poiché quella non era affatto proprietà naturale dell' oggetto dei bisogni, ma la legge universale dell' espropriazione individuale, lo schiavismo e la rapina protetti dalla legge. I detenuti sono gli schiavi disubbidienti, i violatori non tollerati che hanno minacciato i rapporti di proprietà, la base di ogni civiltà! A San Vittore la rivolta è scoppiata nel quinto raggio, quello che contiene gli imputati di "delitti contro la proprietà". Se essi non hanno potuto sopprimerla o se nel trasgredirla, spesso l'hanno accettata, nemmeno essa ora può sopprimerli. Ma separandoli da sé non li libera dalle sue leggi, leggi di espiazione e di sacrificio. La riammissione al suo cospetto, la riammissione allo sfruttamento deve avvenire attraverso una prestazione gratuita che la assicuri di essere d'ora in poi rispettata. Ma la distruzione che i carcerati di Torino e di Milano hanno compiuto dei laboratori la deve ora disilludere. I laboratori sono l'espressione della loro indegnità, il prezzo del riscatto - mai ottenuto - da una colpevolezza non accettata. Dopo essere stati respinti, non vogliono più essere reintegrati. Tutte le lagnose lamentele elevate al cielo - che è sempre solidale con le lamentele qualificate - non bastano a coprire la bellezza di questo avvenimento. La furia selvaggia si è abbattuta soprattutto sui 'laboratori' (...). in queste officine i detenuti potevano imparare un mestiere, c'erano maestri e insegnanti a disposizione ogni giorno: le lezioni avrebbero potuto servire per dopo, per quando sarebbero tornati liberi. Si parla spesso di difficile recupero sociale degli ex detenuti: il fatto che si siano accaniti anche e soprattutto contro le attrezzature di questi laboratori può dare un significato alla rivolta" (Corriere d'Informazione, 15-16 aprile. I corsivi sono nostri). Ma questo non "dimostra che si è trattato di una cieca, selvaggia ribellione". Dimostra che i prigionieri ufficiali della società ne portano tutte le contraddizioni, legati ad essa da tutti gli svantaggi particolari ma separati da essa da uno svantaggio generale, assoluto.
La segregazione, la salvaguardia della proprietà, contiene in sé la gelosia invincibile quanto la rivalsa segretamente giurata, la propria sconfitta completa come la propria affermazione totale, l'asservimento come la sua negazione radicale. Rifiutando la qualità sociale e dunque puramente umana, la rivolta è oggi la chiara risposta a questa alternativa. La sua ebbrezza è la prova migliore di ciò che si respira dappertutto: lentamente ma con certezza si cominciano a prendere i propri desideri per della realtà. Allontanati dal lavoro ed esclusi dal consumo, i detenuti ripagano tutto ciò con il rifiuto del lavoro e con la sete spaventosa del consumo assoluto, il bisogno di riprendere tutto. "Donne-comunismo-libertà ". Questi uomini potrebbero saccheggiare per dieci anni e non recuperare la metà di quello che gli viene quotidianamente sottratto. Esclusi dalla sopravvivenza organizzata, chiedono la vita. Essi si battono insieme per la libertà totale, dovunque, o per la disfatta totale. " Siamo pronti a morire. Venite a prenderci! ". L'esasperazione dell'annientamento cosciente passa per la ricerca cosciente dell'autoannientamento. Ma la storia ha prodotto una banda Bonnot che non può più essere distrutta. Nella aperta sfida di morte e nel mettere realmente in gioco la vita, si esprime il disgusto incancellabile di questa sopravvivenza e del suo prezzo. E' nella precarietà di questa rivolta senza riserve (la brava gente diceva: "non hanno ottenuto niente; hanno peggiorato la loro posizione") che essi esprimono disperazione e speranza. Esprimono così una nuova coscienza proletaria nella coscienza di non essere isolati; ma sono anche l'avamposto degli uomini perduti che sanno di esserlo. La feccia della società è così l'avanguardia della rivoluzione, "la parte cattiva che produce il movimento della storia istituendo la lotta" (Miseria della filosofia). Il pensiero dialettico fa saltare tutti i pregiudizi preistorici ed evade da ogni specializzazione. Nella sua forma mistificata, la dialettica è diventata la mistica gioia dei corifei dottrinari di una generazione intellettuale impotente rimasta prigioniera del bene e del male. Ma nella sua forma storica, la dialettica è scandalo e orrore per il pensiero timorato perché nella comprensione delle condizioni esistenti esclude simultaneamente anche quella della loro negazione, perché non si arresta di fronte a nulla ed è critica e rivoluzionaria per essenza. Dialettica della separazione e della totalità e dialettica della negazione. Lasciamo che gli umanisti piangano sul loro laboratorio di fiori di plastica che è stato il primo ad essere devastato a Torino, che i criminologi piangano sui quaranta milioni del loro "centro di osservazione criminologico" che i detenuti di Milano hanno freddamente distrutto. Esso era " il primo passo verso un rammoderoamento generale. Serviva a classificare i detenuti in gruppi omogenei". Lasciamo che i bravi cittadini inorridiscano al solo pensiero del "completo dramma (i detenuti per le vie di Milano)" (Corriere della Sera, 15 aprile). Quando la disprezzata rivolta delle carceri sarà anche, sprezzante, nelle strade, i bastioni dell'alienazione cominceranno ad oscillare paurosamente sulla testa dei loro architetti. Un giornale ha scritto, a tutta pagina: "Il vento della rivolta soffia a Battipaglia". Avanti! Sono sufficienti un colpo di vento e un colpo di mano perché il gioco diventi totale, perché tutto sia rimesso in gioco, perché la violenza distruttrice liberi la sua positività. Se la rivolta avesse bisogno di una estetica ma essa non si cura di trasformare il mondo, questa sarebbe la sua, estetica macabra e affermazione dei veri desideri. Yeah! "Dal piacere di creare al piacere di distruggere non c'è che un'oscillazione che distrugge il potere" (Traité de savoir-vivre à l'usage des jeunes générations). Come le rivolte nelle carceri, tutti questi avvenimenti sconcertano il fragile fronte delle menzogne e delle pose demagogiche della sinistra parlamentare e non, e le fanno perdere il bene dell'intelletto anche solo per il fatto che esse spezzano ghignando, con imperdonabili lazzi sciamannati, le analogie classiche con la vecchia rivoluzione. La rivoluzione moderna non è più la rivoluzione pulita, la rivoluzione sterilizzata, la rivoluzione burocratica ben condotta, la rivoluzione della strategia e dello stato maggiore.
La rivoluzione moderna accumula i suoi elementi pescando nel torbido, avanza per vie traverse e si trova degli alleati in tutti coloro che non hanno nessun potere sulla propria vita e lo sanno. La "rivoluzione " studentesca è stata la rivoluzione bella e disinvolta, la rivoluzione simpatica della discussione generale perché gli antagonismi che erano scoppiati in essa e formavano il suo sostrato avevano raggiunto soltanto l'esistenza vaporosa delle sue parole. La rivoluzione proletaria è la rivoluzione brutta e scomposta, lo rivoluzione torbida, la festa selvaggia, perchè al posto della frase è subentrata la mostruosità della cosa.
Nessun falso sembiante di vita ha mai sprigionato tanta puzza di cadavere quanto l' attuale simulacro del "movimento studentesco" con la sua caricatura delle assemblee proletarie e rivoluzionarie, con le sue stereotipe declamazioni di rivoluzioni immaginarie e il suo rivoltante opportunismo reale, con il suo seguito di galletti avidi di razzolare nel pollaio travestiti da iene antidiluviane, con le sue riunioni spettrali e appartate di politicanti di carriera, con la tara di tutte le specie di militanti incurabili, piccoli filistei ingenui, schiamazzatori e spie, tollerando tutto e con in più la coscienza grottesca della sua fine inevitabile che esso lascia trapelare nella noia mortale che lo accompagna ovunque e non lo abbandona mai.

Milano, 1969

venerdì 20 gennaio 2012

Ratgeb Raoul Vaneigem BANALITA' DI BASE (Salamandrina edizioni)


Ratgeb Raoul Vaneigem
BANALITA' DI BASE
40 pagine - 2,00 euro - formato A5

"Noi rifiutiamo contemporaneamente la concentra-zione di un potere e il diritto di rappresentare, consapevoli di prendere da tale istante il solo atteggiamento pubblico (poichè non possiamo evitare di farci conoscere, fino a un certo punto, nei modi spettacolari) che possa dare a coloro che si scoprono sulle nostre posizioni teoriche e pratiche il potere rivoluzionario, il potere senza mediazione, il potere che contiene in sè l'azione diretta di tutti. L'immagine-guida potrebbe essere la Colonna Durruti che passa di città in villaggio liquidando gli elementi borghesi e lasciando ai lavoratori la cura di organizzarsi"


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http://www.ecn.org/peperonenero/saledit/Banalita.pdf


--SALAMANDRINA Edizioni
Questa piccola casa editrice, nasce dalla necessità di rompere gli schemi prodotti dall'esistente, cercando così di liberarsi dai limiti dettati dagli innumerevoli compromessi che spesso siamo costretti ad accettare per far sopravvivere i nostri sogni.
Utilizziamo l'autoproduzione, come mezzo per mettere in atto una critica alla società tutta, che prima viene mercificata e subito dopo annientata.

Le nostre pubblicazioni non sono dei veri e propri libri stampati e rilegati in tipografia, ma sono dei semplici opuscoli, impaginati in maniera artigianale e rifiniti allo stesso modo, che però non hanno niente da invidiare alle "grandi edizioni", soprattutto per quanto riguarda il contenuto.
Il nostro principale intento è quello di mettere a disposizione a prezzi modestissimi, vecchi testi spesso introvabili e contributi libertari di varia natura, che rappresentano interessantissimi spunti in questo senso. Naturalmente non abbiamo mai avuto grandi pretese!
Abbiamo cercato di fare le cose nel miglior modo possibile, pubblicando ben undici titoli in meno di quattro anni, quindi non ci possiamo lamentare.

Per contatti e richieste copie:
salamandrina.edizioni@gmail.com
C.P. 35 - 10022 Carmagnola [Torino]

http://www.ecn.org/peperonenero/saledit.htm

domenica 15 gennaio 2012

Sobre la miseria en el medio estudiantil (por la IS)


La superación de las luchas parciales de sectores del proletariado que lleve al desencadenamiento de un escenario de enfrentamiento abiertamente revolucionario, será principalmente resultado del propio desarrollo de las dinámicas internas de los mismos conflictos originalmente parcelados, tendiendo a la integralidad y radicalidad de los análisis, propuestas y medios, proceso en el cual las “minorías revolucionarias” habrán aportado con la entrega de elementos teóricos/prácticos que garanticen la autonomía de clase necesaria para una efectiva emancipación humana. De esta manera, en relación al conflicto estudiantil, la actividad revolucionaria no puede centrarse en una mera denuncia de sus límites reformistas, sino en apuntar hacia su potencial autosuperación.
Hay que aclarar, en todo caso, que “no se trata de que creamos que a partir de estas movilizaciones, dotándolas con una correcta orientación o conducción, entremos de lleno a un periodo abiertamente revolucionario, sino que las entendamos como procesos necesarios para la experiencia colectiva de la clase, desde los cuales comienza a abrirse camino hacia su propia liberación” (Acerca de la comprensión comunista/anárquica de las actuales protestas estudiantiles, RAP), puesto que “tenemos claro que la revolución no se trata de la acumulación cuantitativa de experiencias similares a las actuales (muy limitadas en su forma y contenido). No es la suma de parcialidades la que de por sí se torna revolucionaria. Ante todo, se requiere de cambios cualitativos para entrar a una fase de enfrentamiento clasista abierto. Es decir, es la esencia del movimiento la que debe ser distinta. Pero esa esencia, si bien no es consecuencia directa de la mera sumatoria de experiencias aisladas, sí tiene sus raíces en el desarrollo de dichos procesos.” (ib.)
Así y todo, no debe confundirse el hecho de comprenderse parte de las experiencias parciales de la clase, aportando a su superación, con la dilución de las posiciones revolucionarias dentro de los estrechos límites que ciertas luchas reivindicativas conllevan, entregándose al pantano del confusionismo bajo el pretexto de una “inserción” real. Comprender que sólo el proletariado puede liberarse de su condición misma, no equivale en ningún caso a celebrar y promover todo lo que surja desde la clase, haciendo un fetiche de la misma.

http://el-radical-libre.blogspot.com/2011/06/sobre-las-protestas-estudiantiles.html

Es en este sentido -aún más cuando en estos meses presenciamos la confrontación electoral en que se baten varios trozos de la izquierda chilena para acceder a las federaciones de sus respectivas universidades, encandilados con el auge de las protestas estudiantiles del pasado año y desesperados por alcanzar su (supuesta) conducción-, que la fuerza y crudeza de las críticas expresadas en este ya clásico panfleto de laInternacional Situacionista, hace ya más de cuarenta años, nos parecen inmensamente vigentes y necesarias, pues una falsa comprensión y mistificación del medio estudiantil, que deriva en una caricaturización de la juventud, resulta dañina para proyectar luchas más profundas y fecundas.
Difundimos aquí la primera de las tres partes del texto, el que puede encontrarse íntegramente: http://www.sindominio.net/ash/miseria.htm
Sobre la miseria de la vida estudiantil
Internationale Situationniste


I. Hacer la vergüenza aún más vergonzosa, publicándola
Podemos afirmar sin gran riesgo de equivocarnos, que tras el policía y el sacerdote, el estudiante es en Francia el ser más universalmente despreciado. Si las razones por las que se le desprecia son a menudo falsas y revelan la ideología dominante, las razones por las que efectivamente es despreciable y despreciado desde el punto de vista de la critica revolucionaria, son rechazadas e inconfesadas. Sin embargo, los poseedores de la falsa contestación saben reconocerlas y reconocerse. Transforman este verdadero desprecio en una admiración complaciente. De este modo, la impotente intelligentzia de la izquierda (desde Les Temps Modernes a L’Exprés) se queda pasmada ante la pretendida “ascensión de los estudiantes”, y las organizaciones burocráticas declinantes en la práctica (desde el Partido Comunista a la UNEF) se disputan celosamente su apoyo “moral y material”. Mostraremos las razones de este interés por los estudiantes y cómo las ya nombradas organizaciones participan positivamente de la realidad dominante del capitalismo superdesarrollado, y utilizaremos este folleto para denunciarlas una a una: la desalienación no sigue otro camino que el de la alienación.
Todos los análisis y estudios realizados sobre el medio estudiantil, hasta el momento, han olvidado lo esencial. Nunca sobrepasan el punto de vista de las especializaciones universitarias (psicología, sociología, economía), y por consiguiente son fundamentalmente erróneos. Todos ellos cometen lo que Fourier llamaba ya una ligereza metódica ”puesto que regularmente afecta a las cuestiones primordiales”, ignorando el punto de vista total de la sociedad moderna. El fetichismo de los hechos enmascara la categoría esencial, y los detalles hacen olvidar la totalidad. Se dice todo sobre esta sociedad, salvo lo que es en realidad: comerciante y aparatosa. Los sociólogos Bourderon y Passedieu, en su investigación Los Herederos: los estudiantes y la cultura, permanecen desarmados ante algunas verdades parciales que han acabado por apoyar. Y, a pesar de toda su buena voluntad, caen de nuevo en la moral de los profesores, la inevitable ética kantiana de una democratización real por una racionalización real del sistema de enseñanza, es decir de la enseñanza del sistema. Mientras que sus discípulos, los Kravetz [1], se creen millares, compensan su amargura pequeño-burócrata por el confusionismo de una fraseología revolucionaria desacostumbrada.
La puesta en escena [2] de la reificación bajo el capitalismo moderno impone a cada uno un papel en la pasividad generalizada. El estudiante no escapa a esta ley. Se trata de un papel provisional que lo prepara para el papel definitivo que asumirá, como elemento positivo y conservador, en el funcionamiento del sistema mercantil. No es más que una iniciación.
Esta iniciación encuentra de nuevo, mágicamente, todas las características de la iniciación mítica. Permanece totalmente separada de la realidad histórica, individual y social. El estudiante es un ser dividido entre un estatuto presente y un estatuto futuro netamente separados, y cuyo límite va a ser mecánicamente traspasado. Su conciencia esquizofrénica le permite aislarse en una “sociedad de iniciación”, ignora su futuro y se maravilla de la unidad mística que le ofrece un presente al abrigo de la historia. El motivo de cambio de la verdad oficial, es decir, económica, es muy fácil de desenmascarar: resulta duro mirar de frente la realidad estudiantil. En una “sociedad de abundancia”, el status actual del estudiante es la pobreza extrema. Originarios en un 80 % de capas cuya renta es superior a la de un obrero, el 90 % de ellos disponen de una renta inferior a la del más simple asalariado. La miseria del estudiante está más allá de la miseria de la sociedad del espectáculo, de la nueva miseria del nuevo proletariado. En un tiempo en que una parte creciente de la juventud se libera cada vez más de prejuicios morales y de la autoridad familiar para entrar lo antes posible en las relaciones de explotación abierta, el estudiante se mantiene a todos los niveles en una “‘minoría prolongada”, irresponsable y dócil. Si bien su tardía crisis juvenil lo enfrenta un poco a su familia, acepta sin dificultades ser tratado como un niño en las diversas instituciones que rigen su vida cotidiana [3].
La colonización de los diversos sectores de la práctica social no hace más que encontrar en el mundo estudiantil su expresión más injusta. La proyección sobre los estudiantes de toda la mala conciencia social, enmascara la miseria y la servidumbre de todos.
Pero las razones en que se basa nuestro desprecio por el estudiante son de otro tipo. Estas no conciernen solamente a su miseria real sino a su complacencia hacia todas las miserias, su propensión enfermiza a consumir devotamente la alienación, con la esperanza, ante la falta de interés general, de satisfacer su carencia particular. Las exigencias del capitalismo moderno hacen que la mayor parte de los estudiantes sean simplemente cuadros inferiores (es decir, el equivalente de lo que en el siglo XIX era la función del obrero calificados) [4]. Ante el carácter miserable, fácil de presentir, de este futuro más o menos próximo que lo “resarcirá” de la vergonzosa miseria del presente, el estudiante prefiere volverse hacia su presente y decorarlo con encantos ilusorios. La misma compensación es demasiado lamentable como para que atraiga; los días que sigan no serán alegres y, fatalmente, se sumergirán en la mediocridad. Por ello se refugia en un presente vivido irrealmente.
Esclavo estoico, el estudiante se cree tanto más libre cuanto más lo ligan las cadenas de la autoridad. Al igual que su nueva familia, la Universidad, se tiene por el ser social más “autónomo” mientras que representa, directa y conjuntamente los dos sistemas más poderosos de la autoridad social: la familia y el Estado. Él es su hijo sometido y agradecido. Siguiendo la misma lógica del hijo sumiso, participa de todos los valores y mitificaciones del sistema, y los concreta en sí mismo. Lo que eran ilusiones impuestas a los empleados, se convierte en ideología interiorizada y conducida por la masa de futuros pequeños cuadros.
Si la antigua miseria social ha producido los mayores sistemas de compensación de la historia (las religiones), la miseria marginal estudiantil no ha encontrado consuelo más que en las imágenes más desfiguradas de la sociedad dominante, la repetición burlesca de todos sus productos alienados.
El estudiante francés, en su calidad de ser ideológico, llega demasiado tarde a todo. Todos los valores e ilusiones que constituyen el orgullo de su mundo cerrado, están ya condenados en tanto que ilusiones insostenibles, desde hace mucho tiempo ridiculizadas por la historia.
Recogiendo unas migajas de prestigio de la Universidad, el estudiante todavía está contento de ser estudiante. Demasiado tarde. La enseñanza mecánica y especializada que recibe está tan profundamente degradada (en relación al antiguo nivel de la cultura burguesa) [5] como su propio nivel intelectual en el momento en que accede a ella, con la particularidad de que la realidad que domina todo esto, el sistema económico, reclama una fabricación masiva de estudiantes incultos e incapaces de pensar. El estudiante ignora que la Universidad se haya convertido en una organización -institucional- de la ignorancia, que la “alta cultura” se disuelva al ritmo de la producción en serie de los profesores, que todos los profesores sean cretinos, los cuales en su mayoría provocarían el escándalo de los alumnos de cualquier colegio; él continúa escuchando respetuosamente a sus maestros, con la voluntad consciente de perder todo espíritu crítico a fin de comulgar mejor de la ilusión mística de haberse convertido en un “estudiante”, alguien que se ocupa seriamente de adquirir un saber serio, con la esperanza de que eso le confiará las verdades últimas. Es una menopausia del espíritu. Todo lo que sucede hoy en los anfiteatros de las escuelas y facultades será condenado en la futura sociedad revolucionaria como alboroto, socialmente nocivo. En la actualidad, el estudiante hace reír.
El estudiante no se da cuenta de que la historia altera su irrisorio mundo “cerrado”. La famosa “crisis de la Universidad” parte de una crisis más general del capitalismo moderno; sigue siendo el objeto de un diálogo de sordos entre diferentes especialistas. Dicha crisis traduce simplemente las dificultades de un ajuste tardío de este sector especial de la producción a una transformación de conjunto del aparato productivo. Los residuos de la vieja ideología de la Universidad liberal burguesa pierden importancia en el momento en que desaparece su base social. La Universidad ha podido disfrutar de un poder autónomo en la época del capitalismo librecambista y de su Estado liberal, que le dejaba una cierta. libertad marginal. De hecho, dependía estrechamente de las necesidades de este tipo de sociedad: dar a la minoría privilegiada que estudiaba la cultura general adecuada, antes de que alcanzara las filas de la clase dirigente de la que apenas habla salido. De ahí el ridículo de los profesores nostálgicos [6], amargados por haber perdido su antigua función de perros guardianes de los futuros amos por esa otra, mucho menos noble, de perros de pastor, siguiendo las necesidades planificadas del sistema económico, guiando las hornadas de “cuellos blancos” hacia sus fábricas y oficinas respectivas. Son ellos quienes oponen sus arcaísmos a la tecnocratización de la Universidad y continúan suministrando imperturbablemente las sobras de una cultura llamada general a futuros especialistas que no sabrán que hacer con ella.
Más serios, y por consiguiente más peligrosos, son los modernistas de la izquierda y los de la UNEF, dirigidos por los “ultras” de la FGEL, que reivindican una “reforma de estructuras en la Universidad”, una “reinserción de la Universidad en la vida social y económica”, es decir, su adaptación a las necesidades del capitalismo moderno. Las diversas facultades y escuelas, todavía adornadas de ilusiones anacrónicas, son transformadas de dispensadores de la “cultura general” a la medida de las clases dirigentes en fábricas de enseñanza rápida de cuadros inferiores y de cuadros medios. Lejos de oponerse a este proceso histórico que subordina directamente uno de los últimos sectores relativamente autónomos de la vida social a las exigencias del sistema mercantil, nuestros progresistas protestan contra los retrasos y desfallecimientos que sufre su realización. Son los defensores de la futura Universidad cibernetizada que ya se anuncia aquí y allí [7]. El sistema mercantil y sus modernos servidores, he aquí al enemigo.
Pero es normal que todo debate pase por encima de la cabeza del estudiante, en el cielo de sus maestros, y se le escape totalmente: se le escapa el conjunto de su vida, y, a fortiori de la vida.
Debido a su situación económica de extrema pobreza, el estudiante está condenado a un cierto modo de supervivencia muy poco envidiable. Pero, siempre contento con su papel, convierte su trivial miseria en “estilo de vida” original: el miserabilismo y la bohemia. Ahora bien, la “bohemia”, lejos ya de ser una solución original, nunca es vivida auténticamente sin haber roto de forma completa e irreversible con el medio universitario. Sus partidarios entre los estudiantes (y todos se jactan de serlo un poco) no hacen más que aferrarse a una versión artificial y degradada de lo que, en el mejor de los casos, no es más que una mediocre solución individual. Merecen hasta el desprecio de las ancianas del campo. Estos “originales”, treinta años después de W. Reich [8] ese excelente educador de la juventud, continúan teniendo los comportamientos erótico-amorosos más tradicionales, reproduciendo las relaciones generales de la sociedad de clases en sus relaciones intersexuales. La aptitud del estudiante para hacer un militante de cada uno, se ve frustrada por su impotencia para ello. En el margen de libertad individual permitido por el espectáculo totalitario, y a pesar de su utilización más o menos libre del tiempo, el estudiante ignora todavía la aventura y prefiere un espacio-tiempo cotidiano restringido, adaptado a él por las barreras del propio espectáculo.
Sin estar obligado, separa de sí mismo trabajo y ocio, proclamando un hipócrita desprecio por los “empollones” y los “animales de competición”. Aprueba todas las separaciones y, a continuación va a gemir en los diversos “círculos” religiosos, deportivos, políticos o sindicales, sobre la incomunicación. Es tan estúpido y desgraciado que incluso llega a confiarse espontáneamente y en masa al control parapolicial de psiquiatras y psicólogos, colocados donde están por la vanguardia de la opresión moderna, y por consiguiente felicitados por sus “representantes” que, naturalmente, ven en esos “Bureaux d’Aide Psychologique Universitaire” (BAPU) (Centros de ayuda psicológica universitaria), una conquista indispensable y merecida [9].
Pero la miseria real de la vida cotidiana estudiantil, encuentra su compensación inmediata, fantástica, en su principal opio: la mercancía cultural. En el espectáculo cultural, el estudiante encuentra de forma natural su lugar de discípulo respetuoso. Cercano a su lugar de producción sin nunca tener acceso a él -el Santuario le está prohibido- el estudiante descubre la “cultura moderna” como espectador-admirador. En una época en que el arte está muerto, el estudiante continúa asistiendo con fiel asiduidad a los teatros y cine-clubs, y sigue siendo el más ávido consumidor de su cadáver congelado y distribuido bajo celofán en los supermercados, por los guardianes de la abundancia. Participa sin reserva, sin segundas intenciones y sin alejamiento. Es su elemento natural. Si las “casas de cultura” no existieran, el estudiante las habría inventado. Este verifica perfectamente los análisis más banales de la sociología americana del marketing: consumo ostentatorio, establecimiento de una diferenciación publicitaria entre productos idénticos en la nulidad (Pérec o Robbe-Grillet; Godard o Lelouch).
Desde que los “dioses” que producen u organizan su espectáculo cultural se encarnan en escena, él es su principal público, su fiel soñador. De este modo, asiste en masa a sus demostraciones más obscenas; qué otro que no sea él llenaría las salas cuando, por ejemplo, los curas de las diferentes iglesias exponen públicamente sus diálogos sin límites (semanas del pensamiento llamado marxista, reuniones de intelectuales católicos) o cuando las ruinas de la literatura vienen a constatar su impotencia.
Incapaz de pasiones reales, disfruta con polémicas desapasionadas entre las “vedettes” de la Inteligencia, sobre falsos problemas cuya función es enmascarar los verdaderos: Althusser – Garaudy Sartre – Barthes – Picard – Lefebvre – Lévi-Strauss – Halliday – Chatelet – Antoine. Humanismo – Existencialismo – Estructuralismo – Cientifismo – Nuevo Criticismo – Dialéctico-naturalismo – Cibernetismo – Planetismo – Meta-filosofismo.
En su aplicación, ese estúpido se cree vanguardia porque ha visto el último Godard, comprado el último libro argumentista [10]” o participado en el último “happening” de Lapassade. Ese ignorante toma por novedades “revolucionarias”, garantizadas por “label”*, los más pálidos “ersatz” de antiguas investigaciones, efectivamente importantes en su tiempo, edulcorados con la idea de negocio. La cuestión es preservar siempre su standing cultural. El estudiante está orgulloso de comprar, como todo el mundo, las reediciones en libros de bolsillo de una serie de textos importantes y difíciles que la “cultura de masas” difunde a un ritmo acelerado [11]. Solamente que no sabe leer. Se contenta con consumirlos con la mirada.
* label: marca que ponen ciertos sindicatos en los trabajos de sus afiliados.
Su lectura preferida sigue siendo la prensa especializada que orquesta el consumo delirante de los “gadgets” culturales; acepta dócilmente sus ukases* publicitarios y hace la referencia-standard de sus gustos. L’Express y L’Observateur hacen todavía sus delicias, o bien cree que Le Monde, cuyo estilo es ya demasiado difícil para él, es verdaderamente un diario “objetivo” que refleja la actualidad. Para profundizar sus conocimientos generales, se empapa de Planète, la revista mágica que quita las arrugas y puntos negros de las viejas ideas. Con tales guías, cree participar en el mundo moderno e iniciarse en política.
* ucase o ukase: orden gubernativa injusta y tiránica que tiene su origen en el zarismo.
El estudiante, más que en ningún otro estamento, está contento de estar politizado. Sin embargo, ignora que participa a través del mismo espectáculo. De este modo se apropia de los miserables y ridículos restos de una izquierda que fue aniquilada hace más de cuarenta años, por el reformismo “socialista” y por la contra-revolución stalinista. Todo esto todavía lo ignora, mientras que el Poder lo sabe claramente y la clase obrera de un modo confuso. Participa, con una débil arrogancia, en las manifestaciones más irrisorias que no lo atraen más que a él. La falsa conciencia política se encuentra en él en estado puro, y el estudiante constituye la base ideal para las manipulaciones de burócratas fantasmas de organizaciones moribundas (desde el Partido llamado Comunista a la UNEF). Estas programan totalitariamente sus opciones políticas; toda marginación o intento de “independencia” vuelve dócilmente, tras una parodia de resistencia, al orden que ni un solo instante ha sido puesto en cuestión [12]. Cuando cree ir más allá -como esos que, por una verdadera enfermedad de inversión publicitaria se nombran JCR, cuando no son ni jóvenes, ni comunistas, ni revolucionarios-, es para adherirse a palabras de orden pontifical: Paz en Vietnam.
El estudiante está orgulloso de oponerse a los arcaísmos” de un de Gaulle, pero no comprende que lo hace en nombre de errores del pasado, de crímenes ya fríos (como el stalinismo en la época de Togliatti, Garaudy, Kruchtchev, Mao) y que de este modo sujuventud es todavía más arcaica que el poder, que dispone efectivamente de todo lo necesario para administrar una sociedad moderna.
Pero el estudiante no es un arcaísmo cercano. Se cree obligado a tener ideas generales sobre todo, concepciones coherentes del mundo que den un sentido a su necesidad de agitación y promiscuidad asexuada. Burlado por las últimas febrilidades de las iglesias, se arroja sobre la antigüedad de las antiguallas para adorar la hedionda carroña de Dios y acercarse a los restos descompuestos de religiones prehistóricas que cree dignas de él y de su tiempo. Apenas se osa señalarlo pero, el medio estudiantil, junto con el de las ancianas de provincias, es el sector donde se mantiene la mayor dosis de religión profesada, y sigue siendo todavía la mejor “tierra de misión” (mientras que, en todos los otros sectores se ha eliminado o expulsado a los curas), donde los sacerdotes-estudiantes continúan sodomizando, sin esconderse, a millares de estudiantes con sus diarreas espirituales.
Ciertamente, entre los estudiantes, hay algunos con un nivel intelectual suficiente. Estos dominan sin esfuerzo los miserables controles de capacidad previstos por los mediocres, y los dominan perfectamente porque han comprendido el sistema, porque lo desprecian y se saben sus enemigos. Toman del sistema de estudios lo que tiene de mejor: las becas. Aprovechando los fallos del control, cuya propia lógica obliga actualmente y aquí, a resguardar un sector puramente intelectual, la “investigación”, van a llevar tranquilamente la confusión al más alto nivel. Su desprecio manifiesto respecto al sistema va parejo con la lucidez que les permite ser más fuertes que los sirvientes del sistema y, principalmente, en el terreno intelectual. Estos de quienes hablamos, figuran ya entre los teóricos del movimiento revolucionario que se aproxima. No esconden a nadie que lo que toman tan fácilmente del “sistema de estudios” es utilizado para su destrucción. Esto es así ya que, el estudiante no puede rebelarse contra nada sin rebelarse contra susestudios, y la necesidad de esta rebelión se hace sentir menos naturalmente que en el obrero, que se rebela espontáneamente contra su condición. Pero el estudiante es un producto de la sociedad moderna, al mismo nivel que Godard o la Coca-Cola. Su extrema alienación no puede ser negada más que por la negación de toda la sociedad. Esta crítica no puede hacerse, de ningún modo, sobre el terreno estudiantil: el estudiante, como tal, se atribuye un pseudo-valor que le prohíbe tomar conciencia de su desposesión real y, de esta forma, permanece lleno de falsa conciencia. Pero, en todas partes donde la sociedad moderna empieza a ser contestada, se dan rebeliones de la juventud que corresponden a una crítica total del comportamiento estudiantil.
________________________
Notas:
1. Mare Kravetz, conoció una cierta notoriedad en los medios dirigentes de la UNEF; elegante parlamentario, cometió el error de arriesgarse en la “investigación teórica”: en 1964 publica en Les Temps Modernes una apología del sindicalisrno estudiantil que denuncia al año siguiente en el mismo periódico.
2. Ni qué decir tiene que los conceptos espectáculo, papel, etc. los empleamos en el sentido situacionista.
3. Cuando no se le caga en la boca se le mea en el culo.
4. Pero sin la conciencia revolucionaria; el obrero no tenía la ilusión de la promoción.
5. No nos referimos al de la Escuela Normal Superior o al de los sorbonistas, sino al de los enciclopedistas o al de Hegel.
6. No atreviéndose a alienarse con el liberalismo filisteo, se inventan referencias a las inmunes universidades de la edad media, época de la “democracia de la no-libertad”.
7. Cf. Internationale Situationniste, n.º 9. Correspondance avec un cybernéticien, y el opúsculo situacionista La tortue dans la vitrina, contra el neo-profesor A. Moles.
8. Ver La lucha sexual de los jóvenes y La función del orgasmo.
9. Con el resto de la población es necesario emplear la camisa de fuerza para hacerlo comparecer ante el psiquiatra en su acogedora fortaleza. Con el estudiante, es suficiente con hacerle saber que han sido abiertas avanzadas de control en el ghetto: se precipita al lugar donde se distribuyen números de visita.
10. Sobre el “gang” argumentista y la desaparición de su órgano, ver el opúsculo Aux poubelles de I’Histoire, difundido por la Internationale Situationniste en 1963.
11. A este efecto no se puede recomendar demasiado la solución -ya practicada por los más inteligentes- que consiste en robarlos.
12. Cf.: Las últimas aventuras entre la UEC y sus homólogos cristianos con sus respectivas jerarquías,
demuestran que la única unidad entre todos ellos, reside en su sumisión incondicional a sus maestros.

mercoledì 11 gennaio 2012

Sobre la miseria en el medio estudiantil (por la IS)


La superación de las luchas parciales de sectores del proletariado que lleve al desencadenamiento de un escenario de enfrentamiento abiertamente revolucionario, será principalmente resultado del propio desarrollo de las dinámicas internas de los mismos conflictos originalmente parcelados, tendiendo a la integralidad y radicalidad de los análisis, propuestas y medios, proceso en el cual las “minorías revolucionarias” habrán aportado con la entrega de elementos teóricos/prácticos que garanticen la autonomía de clase necesaria para una efectiva emancipación humana. De esta manera, en relación al conflicto estudiantil, la actividad revolucionaria no puede centrarse en una mera denuncia de sus límites reformistas, sino en apuntar hacia su potencial autosuperación.
Hay que aclarar, en todo caso, que “no se trata de que creamos que a partir de estas movilizaciones, dotándolas con una correcta orientación o conducción, entremos de lleno a un periodo abiertamente revolucionario, sino que las entendamos como procesos necesarios para la experiencia colectiva de la clase, desde los cuales comienza a abrirse camino hacia su propia liberación” (Acerca de la comprensión comunista/anárquica de las actuales protestas estudiantiles, RAP), puesto que “tenemos claro que la revolución no se trata de la acumulación cuantitativa de experiencias similares a las actuales (muy limitadas en su forma y contenido). No es la suma de parcialidades la que de por sí se torna revolucionaria. Ante todo, se requiere de cambios cualitativos para entrar a una fase de enfrentamiento clasista abierto. Es decir, es la esencia del movimiento la que debe ser distinta. Pero esa esencia, si bien no es consecuencia directa de la mera sumatoria de experiencias aisladas, sí tiene sus raíces en el desarrollo de dichos procesos.” (ib.)
Así y todo, no debe confundirse el hecho de comprenderse parte de las experiencias parciales de la clase, aportando a su superación, con la dilución de las posiciones revolucionarias dentro de los estrechos límites que ciertas luchas reivindicativas conllevan, entregándose al pantano del confusionismo bajo el pretexto de una “inserción” real. Comprender que sólo el proletariado puede liberarse de su condición misma, no equivale en ningún caso a celebrar y promover todo lo que surja desde la clase, haciendo un fetiche de la misma.
Es en este sentido -aún más cuando en estos meses presenciamos la confrontación electoral en que se baten varios trozos de la izquierda chilena para acceder a las federaciones de sus respectivas universidades, encandilados con el auge de las protestas estudiantiles del pasado año y desesperados por alcanzar su (supuesta) conducción-, que la fuerza y crudeza de las críticas expresadas en este ya clásico panfleto de laInternacional Situacionista, hace ya más de cuarenta años, nos parecen inmensamente vigentes y necesarias, pues una falsa comprensión y mistificación del medio estudiantil, que deriva en una caricaturización de la juventud, resulta dañina para proyectar luchas más profundas y fecundas.


http://el-radical-libre.blogspot.com/2011/06/sobre-las-protestas-estudiantiles.html

http://www.sindominio.net/ash/

Difundimos aquí la primera de las tres partes del texto, el que puede encontrarse íntegramente: http://www.sindominio.net/ash/miseria.htm
Sobre la miseria de la vida estudiantil
Internationale Situationniste

I. Hacer la vergüenza aún más vergonzosa, publicándola
Podemos afirmar sin gran riesgo de equivocarnos, que tras el policía y el sacerdote, el estudiante es en Francia el ser más universalmente despreciado. Si las razones por las que se le desprecia son a menudo falsas y revelan la ideología dominante, las razones por las que efectivamente es despreciable y despreciado desde el punto de vista de la critica revolucionaria, son rechazadas e inconfesadas. Sin embargo, los poseedores de la falsa contestación saben reconocerlas y reconocerse. Transforman este verdadero desprecio en una admiración complaciente. De este modo, la impotente intelligentzia de la izquierda (desde Les Temps Modernes a L’Exprés) se queda pasmada ante la pretendida “ascensión de los estudiantes”, y las organizaciones burocráticas declinantes en la práctica (desde el Partido Comunista a la UNEF) se disputan celosamente su apoyo “moral y material”. Mostraremos las razones de este interés por los estudiantes y cómo las ya nombradas organizaciones participan positivamente de la realidad dominante del capitalismo superdesarrollado, y utilizaremos este folleto para denunciarlas una a una: la desalienación no sigue otro camino que el de la alienación.
Todos los análisis y estudios realizados sobre el medio estudiantil, hasta el momento, han olvidado lo esencial. Nunca sobrepasan el punto de vista de las especializaciones universitarias (psicología, sociología, economía), y por consiguiente son fundamentalmente erróneos. Todos ellos cometen lo que Fourier llamaba ya una ligereza metódica ”puesto que regularmente afecta a las cuestiones primordiales”, ignorando el punto de vista total de la sociedad moderna. El fetichismo de los hechos enmascara la categoría esencial, y los detalles hacen olvidar la totalidad. Se dice todo sobre esta sociedad, salvo lo que es en realidad: comerciante y aparatosa. Los sociólogos Bourderon y Passedieu, en su investigación Los Herederos: los estudiantes y la cultura, permanecen desarmados ante algunas verdades parciales que han acabado por apoyar. Y, a pesar de toda su buena voluntad, caen de nuevo en la moral de los profesores, la inevitable ética kantiana de una democratización real por una racionalización real del sistema de enseñanza, es decir de la enseñanza del sistema. Mientras que sus discípulos, los Kravetz [1], se creen millares, compensan su amargura pequeño-burócrata por el confusionismo de una fraseología revolucionaria desacostumbrada.
La puesta en escena [2] de la reificación bajo el capitalismo moderno impone a cada uno un papel en la pasividad generalizada. El estudiante no escapa a esta ley. Se trata de un papel provisional que lo prepara para el papel definitivo que asumirá, como elemento positivo y conservador, en el funcionamiento del sistema mercantil. No es más que una iniciación.
Esta iniciación encuentra de nuevo, mágicamente, todas las características de la iniciación mítica. Permanece totalmente separada de la realidad histórica, individual y social. El estudiante es un ser dividido entre un estatuto presente y un estatuto futuro netamente separados, y cuyo límite va a ser mecánicamente traspasado. Su conciencia esquizofrénica le permite aislarse en una “sociedad de iniciación”, ignora su futuro y se maravilla de la unidad mística que le ofrece un presente al abrigo de la historia. El motivo de cambio de la verdad oficial, es decir, económica, es muy fácil de desenmascarar: resulta duro mirar de frente la realidad estudiantil. En una “sociedad de abundancia”, el status actual del estudiante es la pobreza extrema. Originarios en un 80 % de capas cuya renta es superior a la de un obrero, el 90 % de ellos disponen de una renta inferior a la del más simple asalariado. La miseria del estudiante está más allá de la miseria de la sociedad del espectáculo, de la nueva miseria del nuevo proletariado. En un tiempo en que una parte creciente de la juventud se libera cada vez más de prejuicios morales y de la autoridad familiar para entrar lo antes posible en las relaciones de explotación abierta, el estudiante se mantiene a todos los niveles en una “‘minoría prolongada”, irresponsable y dócil. Si bien su tardía crisis juvenil lo enfrenta un poco a su familia, acepta sin dificultades ser tratado como un niño en las diversas instituciones que rigen su vida cotidiana [3].
La colonización de los diversos sectores de la práctica social no hace más que encontrar en el mundo estudiantil su expresión más injusta. La proyección sobre los estudiantes de toda la mala conciencia social, enmascara la miseria y la servidumbre de todos.
Pero las razones en que se basa nuestro desprecio por el estudiante son de otro tipo. Estas no conciernen solamente a su miseria real sino a su complacencia hacia todas las miserias, su propensión enfermiza a consumir devotamente la alienación, con la esperanza, ante la falta de interés general, de satisfacer su carencia particular. Las exigencias del capitalismo moderno hacen que la mayor parte de los estudiantes sean simplemente cuadros inferiores (es decir, el equivalente de lo que en el siglo XIX era la función del obrero calificados) [4]. Ante el carácter miserable, fácil de presentir, de este futuro más o menos próximo que lo “resarcirá” de la vergonzosa miseria del presente, el estudiante prefiere volverse hacia su presente y decorarlo con encantos ilusorios. La misma compensación es demasiado lamentable como para que atraiga; los días que sigan no serán alegres y, fatalmente, se sumergirán en la mediocridad. Por ello se refugia en un presente vivido irrealmente.
Esclavo estoico, el estudiante se cree tanto más libre cuanto más lo ligan las cadenas de la autoridad. Al igual que su nueva familia, la Universidad, se tiene por el ser social más “autónomo” mientras que representa, directa y conjuntamente los dos sistemas más poderosos de la autoridad social: la familia y el Estado. Él es su hijo sometido y agradecido. Siguiendo la misma lógica del hijo sumiso, participa de todos los valores y mitificaciones del sistema, y los concreta en sí mismo. Lo que eran ilusiones impuestas a los empleados, se convierte en ideología interiorizada y conducida por la masa de futuros pequeños cuadros.
Si la antigua miseria social ha producido los mayores sistemas de compensación de la historia (las religiones), la miseria marginal estudiantil no ha encontrado consuelo más que en las imágenes más desfiguradas de la sociedad dominante, la repetición burlesca de todos sus productos alienados.
El estudiante francés, en su calidad de ser ideológico, llega demasiado tarde a todo. Todos los valores e ilusiones que constituyen el orgullo de su mundo cerrado, están ya condenados en tanto que ilusiones insostenibles, desde hace mucho tiempo ridiculizadas por la historia.
Recogiendo unas migajas de prestigio de la Universidad, el estudiante todavía está contento de ser estudiante. Demasiado tarde. La enseñanza mecánica y especializada que recibe está tan profundamente degradada (en relación al antiguo nivel de la cultura burguesa) [5] como su propio nivel intelectual en el momento en que accede a ella, con la particularidad de que la realidad que domina todo esto, el sistema económico, reclama una fabricación masiva de estudiantes incultos e incapaces de pensar. El estudiante ignora que la Universidad se haya convertido en una organización -institucional- de la ignorancia, que la “alta cultura” se disuelva al ritmo de la producción en serie de los profesores, que todos los profesores sean cretinos, los cuales en su mayoría provocarían el escándalo de los alumnos de cualquier colegio; él continúa escuchando respetuosamente a sus maestros, con la voluntad consciente de perder todo espíritu crítico a fin de comulgar mejor de la ilusión mística de haberse convertido en un “estudiante”, alguien que se ocupa seriamente de adquirir un saber serio, con la esperanza de que eso le confiará las verdades últimas. Es una menopausia del espíritu. Todo lo que sucede hoy en los anfiteatros de las escuelas y facultades será condenado en la futura sociedad revolucionaria como alboroto, socialmente nocivo. En la actualidad, el estudiante hace reír.
El estudiante no se da cuenta de que la historia altera su irrisorio mundo “cerrado”. La famosa “crisis de la Universidad” parte de una crisis más general del capitalismo moderno; sigue siendo el objeto de un diálogo de sordos entre diferentes especialistas. Dicha crisis traduce simplemente las dificultades de un ajuste tardío de este sector especial de la producción a una transformación de conjunto del aparato productivo. Los residuos de la vieja ideología de la Universidad liberal burguesa pierden importancia en el momento en que desaparece su base social. La Universidad ha podido disfrutar de un poder autónomo en la época del capitalismo librecambista y de su Estado liberal, que le dejaba una cierta. libertad marginal. De hecho, dependía estrechamente de las necesidades de este tipo de sociedad: dar a la minoría privilegiada que estudiaba la cultura general adecuada, antes de que alcanzara las filas de la clase dirigente de la que apenas habla salido. De ahí el ridículo de los profesores nostálgicos [6], amargados por haber perdido su antigua función de perros guardianes de los futuros amos por esa otra, mucho menos noble, de perros de pastor, siguiendo las necesidades planificadas del sistema económico, guiando las hornadas de “cuellos blancos” hacia sus fábricas y oficinas respectivas. Son ellos quienes oponen sus arcaísmos a la tecnocratización de la Universidad y continúan suministrando imperturbablemente las sobras de una cultura llamada general a futuros especialistas que no sabrán que hacer con ella.
Más serios, y por consiguiente más peligrosos, son los modernistas de la izquierda y los de la UNEF, dirigidos por los “ultras” de la FGEL, que reivindican una “reforma de estructuras en la Universidad”, una “reinserción de la Universidad en la vida social y económica”, es decir, su adaptación a las necesidades del capitalismo moderno. Las diversas facultades y escuelas, todavía adornadas de ilusiones anacrónicas, son transformadas de dispensadores de la “cultura general” a la medida de las clases dirigentes en fábricas de enseñanza rápida de cuadros inferiores y de cuadros medios. Lejos de oponerse a este proceso histórico que subordina directamente uno de los últimos sectores relativamente autónomos de la vida social a las exigencias del sistema mercantil, nuestros progresistas protestan contra los retrasos y desfallecimientos que sufre su realización. Son los defensores de la futura Universidad cibernetizada que ya se anuncia aquí y allí [7]. El sistema mercantil y sus modernos servidores, he aquí al enemigo.
Pero es normal que todo debate pase por encima de la cabeza del estudiante, en el cielo de sus maestros, y se le escape totalmente: se le escapa el conjunto de su vida, y, a fortiori de la vida.
Debido a su situación económica de extrema pobreza, el estudiante está condenado a un cierto modo de supervivencia muy poco envidiable. Pero, siempre contento con su papel, convierte su trivial miseria en “estilo de vida” original: el miserabilismo y la bohemia. Ahora bien, la “bohemia”, lejos ya de ser una solución original, nunca es vivida auténticamente sin haber roto de forma completa e irreversible con el medio universitario. Sus partidarios entre los estudiantes (y todos se jactan de serlo un poco) no hacen más que aferrarse a una versión artificial y degradada de lo que, en el mejor de los casos, no es más que una mediocre solución individual. Merecen hasta el desprecio de las ancianas del campo. Estos “originales”, treinta años después de W. Reich [8] ese excelente educador de la juventud, continúan teniendo los comportamientos erótico-amorosos más tradicionales, reproduciendo las relaciones generales de la sociedad de clases en sus relaciones intersexuales. La aptitud del estudiante para hacer un militante de cada uno, se ve frustrada por su impotencia para ello. En el margen de libertad individual permitido por el espectáculo totalitario, y a pesar de su utilización más o menos libre del tiempo, el estudiante ignora todavía la aventura y prefiere un espacio-tiempo cotidiano restringido, adaptado a él por las barreras del propio espectáculo.
Sin estar obligado, separa de sí mismo trabajo y ocio, proclamando un hipócrita desprecio por los “empollones” y los “animales de competición”. Aprueba todas las separaciones y, a continuación va a gemir en los diversos “círculos” religiosos, deportivos, políticos o sindicales, sobre la incomunicación. Es tan estúpido y desgraciado que incluso llega a confiarse espontáneamente y en masa al control parapolicial de psiquiatras y psicólogos, colocados donde están por la vanguardia de la opresión moderna, y por consiguiente felicitados por sus “representantes” que, naturalmente, ven en esos “Bureaux d’Aide Psychologique Universitaire” (BAPU) (Centros de ayuda psicológica universitaria), una conquista indispensable y merecida [9].
Pero la miseria real de la vida cotidiana estudiantil, encuentra su compensación inmediata, fantástica, en su principal opio: la mercancía cultural. En el espectáculo cultural, el estudiante encuentra de forma natural su lugar de discípulo respetuoso. Cercano a su lugar de producción sin nunca tener acceso a él -el Santuario le está prohibido- el estudiante descubre la “cultura moderna” como espectador-admirador. En una época en que el arte está muerto, el estudiante continúa asistiendo con fiel asiduidad a los teatros y cine-clubs, y sigue siendo el más ávido consumidor de su cadáver congelado y distribuido bajo celofán en los supermercados, por los guardianes de la abundancia. Participa sin reserva, sin segundas intenciones y sin alejamiento. Es su elemento natural. Si las “casas de cultura” no existieran, el estudiante las habría inventado. Este verifica perfectamente los análisis más banales de la sociología americana del marketing: consumo ostentatorio, establecimiento de una diferenciación publicitaria entre productos idénticos en la nulidad (Pérec o Robbe-Grillet; Godard o Lelouch).
Desde que los “dioses” que producen u organizan su espectáculo cultural se encarnan en escena, él es su principal público, su fiel soñador. De este modo, asiste en masa a sus demostraciones más obscenas; qué otro que no sea él llenaría las salas cuando, por ejemplo, los curas de las diferentes iglesias exponen públicamente sus diálogos sin límites (semanas del pensamiento llamado marxista, reuniones de intelectuales católicos) o cuando las ruinas de la literatura vienen a constatar su impotencia.
Incapaz de pasiones reales, disfruta con polémicas desapasionadas entre las “vedettes” de la Inteligencia, sobre falsos problemas cuya función es enmascarar los verdaderos: Althusser – Garaudy Sartre – Barthes – Picard – Lefebvre – Lévi-Strauss – Halliday – Chatelet – Antoine. Humanismo – Existencialismo – Estructuralismo – Cientifismo – Nuevo Criticismo – Dialéctico-naturalismo – Cibernetismo – Planetismo – Meta-filosofismo.
En su aplicación, ese estúpido se cree vanguardia porque ha visto el último Godard, comprado el último libro argumentista [10]” o participado en el último “happening” de Lapassade. Ese ignorante toma por novedades “revolucionarias”, garantizadas por “label”*, los más pálidos “ersatz” de antiguas investigaciones, efectivamente importantes en su tiempo, edulcorados con la idea de negocio. La cuestión es preservar siempre su standing cultural. El estudiante está orgulloso de comprar, como todo el mundo, las reediciones en libros de bolsillo de una serie de textos importantes y difíciles que la “cultura de masas” difunde a un ritmo acelerado [11]. Solamente que no sabe leer. Se contenta con consumirlos con la mirada.
* label: marca que ponen ciertos sindicatos en los trabajos de sus afiliados.
Su lectura preferida sigue siendo la prensa especializada que orquesta el consumo delirante de los “gadgets” culturales; acepta dócilmente sus ukases* publicitarios y hace la referencia-standard de sus gustos. L’Express y L’Observateur hacen todavía sus delicias, o bien cree que Le Monde, cuyo estilo es ya demasiado difícil para él, es verdaderamente un diario “objetivo” que refleja la actualidad. Para profundizar sus conocimientos generales, se empapa de Planète, la revista mágica que quita las arrugas y puntos negros de las viejas ideas. Con tales guías, cree participar en el mundo moderno e iniciarse en política.
* ucase o ukase: orden gubernativa injusta y tiránica que tiene su origen en el zarismo.
El estudiante, más que en ningún otro estamento, está contento de estar politizado. Sin embargo, ignora que participa a través del mismo espectáculo. De este modo se apropia de los miserables y ridículos restos de una izquierda que fue aniquilada hace más de cuarenta años, por el reformismo “socialista” y por la contra-revolución stalinista. Todo esto todavía lo ignora, mientras que el Poder lo sabe claramente y la clase obrera de un modo confuso. Participa, con una débil arrogancia, en las manifestaciones más irrisorias que no lo atraen más que a él. La falsa conciencia política se encuentra en él en estado puro, y el estudiante constituye la base ideal para las manipulaciones de burócratas fantasmas de organizaciones moribundas (desde el Partido llamado Comunista a la UNEF). Estas programan totalitariamente sus opciones políticas; toda marginación o intento de “independencia” vuelve dócilmente, tras una parodia de resistencia, al orden que ni un solo instante ha sido puesto en cuestión [12]. Cuando cree ir más allá -como esos que, por una verdadera enfermedad de inversión publicitaria se nombran JCR, cuando no son ni jóvenes, ni comunistas, ni revolucionarios-, es para adherirse a palabras de orden pontifical: Paz en Vietnam.
El estudiante está orgulloso de oponerse a los arcaísmos” de un de Gaulle, pero no comprende que lo hace en nombre de errores del pasado, de crímenes ya fríos (como el stalinismo en la época de Togliatti, Garaudy, Kruchtchev, Mao) y que de este modo sujuventud es todavía más arcaica que el poder, que dispone efectivamente de todo lo necesario para administrar una sociedad moderna.
Pero el estudiante no es un arcaísmo cercano. Se cree obligado a tener ideas generales sobre todo, concepciones coherentes del mundo que den un sentido a su necesidad de agitación y promiscuidad asexuada. Burlado por las últimas febrilidades de las iglesias, se arroja sobre la antigüedad de las antiguallas para adorar la hedionda carroña de Dios y acercarse a los restos descompuestos de religiones prehistóricas que cree dignas de él y de su tiempo. Apenas se osa señalarlo pero, el medio estudiantil, junto con el de las ancianas de provincias, es el sector donde se mantiene la mayor dosis de religión profesada, y sigue siendo todavía la mejor “tierra de misión” (mientras que, en todos los otros sectores se ha eliminado o expulsado a los curas), donde los sacerdotes-estudiantes continúan sodomizando, sin esconderse, a millares de estudiantes con sus diarreas espirituales.
Ciertamente, entre los estudiantes, hay algunos con un nivel intelectual suficiente. Estos dominan sin esfuerzo los miserables controles de capacidad previstos por los mediocres, y los dominan perfectamente porque han comprendido el sistema, porque lo desprecian y se saben sus enemigos. Toman del sistema de estudios lo que tiene de mejor: las becas. Aprovechando los fallos del control, cuya propia lógica obliga actualmente y aquí, a resguardar un sector puramente intelectual, la “investigación”, van a llevar tranquilamente la confusión al más alto nivel. Su desprecio manifiesto respecto al sistema va parejo con la lucidez que les permite ser más fuertes que los sirvientes del sistema y, principalmente, en el terreno intelectual. Estos de quienes hablamos, figuran ya entre los teóricos del movimiento revolucionario que se aproxima. No esconden a nadie que lo que toman tan fácilmente del “sistema de estudios” es utilizado para su destrucción. Esto es así ya que, el estudiante no puede rebelarse contra nada sin rebelarse contra susestudios, y la necesidad de esta rebelión se hace sentir menos naturalmente que en el obrero, que se rebela espontáneamente contra su condición. Pero el estudiante es un producto de la sociedad moderna, al mismo nivel que Godard o la Coca-Cola. Su extrema alienación no puede ser negada más que por la negación de toda la sociedad. Esta crítica no puede hacerse, de ningún modo, sobre el terreno estudiantil: el estudiante, como tal, se atribuye un pseudo-valor que le prohíbe tomar conciencia de su desposesión real y, de esta forma, permanece lleno de falsa conciencia. Pero, en todas partes donde la sociedad moderna empieza a ser contestada, se dan rebeliones de la juventud que corresponden a una crítica total del comportamiento estudiantil.
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Notas:
1. Mare Kravetz, conoció una cierta notoriedad en los medios dirigentes de la UNEF; elegante parlamentario, cometió el error de arriesgarse en la “investigación teórica”: en 1964 publica en Les Temps Modernes una apología del sindicalisrno estudiantil que denuncia al año siguiente en el mismo periódico.
2. Ni qué decir tiene que los conceptos espectáculo, papel, etc. los empleamos en el sentido situacionista.
3. Cuando no se le caga en la boca se le mea en el culo.
4. Pero sin la conciencia revolucionaria; el obrero no tenía la ilusión de la promoción.
5. No nos referimos al de la Escuela Normal Superior o al de los sorbonistas, sino al de los enciclopedistas o al de Hegel.
6. No atreviéndose a alienarse con el liberalismo filisteo, se inventan referencias a las inmunes universidades de la edad media, época de la “democracia de la no-libertad”.
7. Cf. Internationale Situationniste, n.º 9. Correspondance avec un cybernéticien, y el opúsculo situacionista La tortue dans la vitrina, contra el neo-profesor A. Moles.
8. Ver La lucha sexual de los jóvenes y La función del orgasmo.
9. Con el resto de la población es necesario emplear la camisa de fuerza para hacerlo comparecer ante el psiquiatra en su acogedora fortaleza. Con el estudiante, es suficiente con hacerle saber que han sido abiertas avanzadas de control en el ghetto: se precipita al lugar donde se distribuyen números de visita.
10. Sobre el “gang” argumentista y la desaparición de su órgano, ver el opúsculo Aux poubelles de I’Histoire, difundido por la Internationale Situationniste en 1963.
11. A este efecto no se puede recomendar demasiado la solución -ya practicada por los más inteligentes- que consiste en robarlos.
12. Cf.: Las últimas aventuras entre la UEC y sus homólogos cristianos con sus respectivas jerarquías,
demuestran que la única unidad entre todos ellos, reside en su sumisión incondicional a sus maestros.

martedì 10 gennaio 2012

Bookmark and Share Elogio de la lucha, elogio de la pereza



“La vida pasa”, canción compuesta por Raoul Vaneigem antes de formar parte de la Internacional Situacionista:

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http://www.youtube.com/watch?v=sGVy08T_pOM&feature=player_embedded

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http://www.comunizacion.org/La%20vida%20pasa.avi


Fragmentos del “Elogio de la pereza refinada”, publicado por Vaneigem en 1996:
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“En una sociedad, ay, en la que sin descanso se nos arranca de nosotros mismos, ¿cómo llegar hasta uno mismo sin tropiezos? ¿Cómo instalarse sin esfuerzo en ese estado de gracia en el que no reina sino la indolencia del deseo? ¿No funciona todo para turbar, gracias a las buenos motivos del deber y de la culpabilidad, el recreo sereno de estar en paz en compañía de uno mismo?
Uno no rompe sin dificultad con un ritmo que te propulsa de la fábrica a la oficina, de la oficina a la Bolsa y de la conferencia-almuerzo al almuerzo-conferencia. El tiempo, repentinamente vaciado de su contabilidad dineraria, se vuelve tiempo muerto; apenas existe. Es preciso haber perdido, más que el sentido de la moral, el sentido de la rentabilidad para pretender penetrar en él e instalarse allí sin vergüenza.
Hay que rendirse a la evidencia: en un mundo en el que nada se obtiene sin el trabajo de la fuerza y de la astucia, la pereza es una debilidad, una estupidez, una falta, un error de cálculo. No se accede a ella más que cambiando de universo; es decir, de existencia. Son cosas que pasan.
Seguramente hay malicia en hacer lo menos posible para el patrón, en parar de trabajar desde el momento en que vuelve la espalda, en sabotear las cadencias y las máquinas, en practicar el arte de la ausencia justificada. La pereza, en este caso, salvaguarda la salud y presta a la subversión un carácter agradablemente roborativo. Rompe el tedio de la servidumbre, quiebra la palabra de mando, recupera la calderilla de ese tiempo que os arrebata ocho horas de vida y que ningún salario os permitirá recuperar. Dobla, con un ensañamiento salvaje, los minutos robados a la máquina de fichar, cuyo recuento de la jornada aumenta el beneficio del patrón.
El privilegio de los proletarios al emanciparse tanto del trabajo que los convierte en asalariados como de aquellos que extraen de él la plusvalía consistía precisamente en acceder al goce de ellos mismos y del mundo. El goce y su consciencia, agudizada al perfeccionarlo, poseen suficientemente la ciencia de liberarse de aquello que los entorpece o los corrompe. ¡Preguntádselo a los que aprenden a amarse!
Qué mejor ocasión que las huelgas para suspender ese tiempo en el que todo el mundo corre para no atraparse jamás, se desloma por ser lo que le repugna y por no ser lo que habría deseado, y cuenta con la jubilación, la enfermedad y la muerte para poner fin a su fatiga.
Al contrario que el místico, exiliado de sus sentidos mediante el desprecio de sí mismo, el ocioso restituye la materialidad de la vida –la única que hay- al universo del que procede: el aire, el fuego, la tierra, el mineral, el vegetal, el animal y el ser humano, que de todos ellos ha heredado su especificidad creativa.
La pereza es goce de uno mismo o no es nada. No esperéis que os sea concedida por vuestros amos o vuestros dioses. A ella se llega por una natural inclinación a buscar el placer y evitar su contrario. Una simpleza que la edad adulta se empeña en complicar.
La inteligencia de uno mismo que la pereza exige no es otra cosa que la inteligencia de los deseos de la que el microcosmos corporal necesita para liberarse del trabajo que le pone trabas desde hace siglos.
Los placeres, en lo que tienen de auténticos, no son ni el fruto de un capricho del azar o de los dioses, ni la recompensa de un trabajo del que no serían más que la respiración jadeante. Se dan tal como los cogemos. La alegría de la que nos llenan es la alegría con la que los abordamos.
Cuando la pereza no alimente más que el deseo de satisfacerse, entraremos en una civilización en la que el hombre ya no sea el producto de un trabajo que produce lo inhumano.”

Descargar texto completo del “Elogio de la pereza refinada” (Pdf)
http://www.comunizacion.org/Elogio%20de%20la%20pereza%20refinada%20-%20Raoul%20Vaneigem.pdf

lunedì 2 gennaio 2012

Elogio de la pereza refinada por Raoul Vaneigem


Europa conoce hoy en día una clase burocrática que rasca el fondo de las arcas del capital con el fin de hacerlo fructificar en un circuito cerrado, sin invertir en nuevos modos de producción. Y los proletarios, a quienes se ha enseñado que el proletariado ya no existe, alegan excepciones por su disminución de poder adquisitivo en la esperanza de que un gran movimiento caritativo suplirá la supresión de sus derechos sociales, la reducción de los salarios, la rarefacción del trabajo útil y el desmantelamiento de la enseñanza, de los transportes, de los servicios sanitarios, de la agricultura de calidad y de todo aquello que no aumenta con una rentabilidad inmediata la masa financiera puesta al servicio de la especulación internacional.


En la opinión que se ha ido forjando al respecto, la pereza se ha beneficiado mucho del creciente descrédito que pesa sobre el trabajo. Antaño erigido en virtud por la burguesía, que extraía su beneficio de él, y por las burocracias sindicales, a las cuales aseguraba la plusvalía de su poder, el embrutecimiento de la faena cotidiana ahora se reconoce como lo que es: una alquimia involutiva que transforma en un saber de plomo el oro de la riqueza existencial. Sin embargo y a pesar de la estima de que disfruta, la pereza continúa sufriendo igualmente por la relación de pareja que, en la tonta asimilación de las bestias a lo que los humanos poseen de más despreciable, persiste en reunir a la cigala y la hormiga. Querámoslo o no, la pereza sigue atrapada en la trampa del trabajo que rechaza mientras canta. Cuando se trata de no hacer nada, ¿la primera idea que se nos viene a la cabeza no es que la cosa cae por su propio peso? En una sociedad en la que sin descanso se nos arranca de nosotros mismos, ¿cómo llegar hasta uno mismo sin tropiezos? ¿Cómo instalarse sin esfuerzo en ese estado de gracia en el que no reina sino la indolencia del deseo?. ¿No funciona todo para turbar, gracias a las buenos motivos del deber y de la culpabilidad, el recreo sereno de estar en paz en compañía de uno mismo? Georg Groddeck percibía con justeza en el arte de no hacer nada el signo de una conciencia verdaderamente liberada de las múltiples obligaciones que, desde el nacimiento a la muerte, hacen de la vida una frenética producción de nada. Estamos tan inflados de paradojas que la pereza no es un asunto sobre el que uno pueda extenderse sencillamente, como nos invitaría a hacer la naturaleza si, en efecto, la naturaleza pudiese abordarse sin rodeos.



El trabajo ha desnaturalizado la pereza. La ha convertido en su puta, del mismo modo en que el poder patriarcal veía en la mujer al reposo del guerrero. La ha revestido con sus falsos pretextos, en el mismo momento en que la altivez de las clases sociales explotadoras identificaba la actividad laboriosa únicamente con la producción manual. ¿Qué eran aquellos poderosos, aquellos soberanos, aquellos aristócratas, aquellos altos dignatarios más que trabajadores intelectuales, trabajadores encargados de hacer trabajar a quienes habían convertido en sus esclavos? . Esa ociosidad de la que los ricos se vanagloriaban y que, secularmente, alimentaba el resentimiento de los oprimidos, se me antoja muy alejada del estado de pereza en lo que éste tiene de idílico. El hermoso apoltronamiento que se conceden los fatuos de nobleza al acecho de las menores carencias, puntillosos con las prelaciones, alerta de unos criados que ocultan bajo la máscara del servilismo su rencor y su desprecio, cuando no se trata de dar a probar previamente los platos sazonados con los maleficios de la envidia y de la venganza… ¡Qué fatiga produce tal pereza! ¡Y qué servidumbre en la satisfacción constante de la complacencia del mando!. ¿Se dirá del déspota que, al menos, se arroga el placer de ser obedecido? ¡Pobre placer es éste que, beneficiándose del displacer de los otros, se engulle con la acidez que suscita! Se convendrá conmigo en que mantenerse de tal suerte por encima de las tareas innobles no es, en modo alguno, reposo y que apenas facilita el feliz estado de no hacer nada. Sin duda que el hombre de negocios, el patrón, el burócrata no se comprometen, aparte de sus ocupaciones, en un régimen de domesticidad que es más inoportuno que confortable. No sé si buscan la soledad del subprefecto en los campos, pero todo indica, en su caso, una propensión más al divertimento que a la ociosidad. Uno no rompe sin dificultad con un ritmo que te propulsa de la fábrica a la oficina, de la oficina a la Bolsa y de la conferencia-almuerzo al almuerzo-conferencia. El tiempo, repentinamente vaciado de su contabilidad dineraria, se vuelve tiempo muerto; apenas existe. Es preciso haber perdido, más que el sentido de la moral, el sentido de la rentabilidad para pretender penetrar en él e instalarse allí sin vergüenza.

Pase con el descanso nocturno, auténtica prescripción médica para quien se lanza cada día a una carrera contra el reloj. Pero ¿quién osará, en una guerra en la que uno está en todo instante expuesto al fuego intenso de la competencia, levantar la bandera blanca de un momento de ociosidad? Demasiado nos han remachado el desastroso ejemplo de las "delicias de Capua", en las que Aníbal, cediendo no se sabe a qué hechizo de los sentidos, pierde tanto Roma como el beneficio de sus conquistas. Hay que rendirse a la evidencia: en un mundo en el que nada se obtiene sin el trabajo de la fuerza y de la astucia, la pereza es una debilidad, una estupidez, una falta, un error de cálculo. No se accede a ella más que cambiando de universo; es decir, de existencia. Son cosas que pasan.
Un director de banco –me aseguran- se encontró arruinado, abandonado por todos, cubierto de oprobio. Un rinconcito en el campo lo acoge; planta algunas viñas. Un huerto, unos pocos pollos y la amistad de los vecinos cubren sus necesidades. Hace descubrimientos asombrosos: una puesta de sol, el centelleo de la luz en el sotobosque, los olores silvestres, el sabor del pan que él mismo ha amasado y cocido, el canto de las alondras, la turbadora configuración de la orquídea, las ensoñaciones de la tierra a la hora del rocío o de la serena. El hastío de una existencia que había pasado ignorándose le había dado un lugar en el universo. Aún quedaba saber ocuparlo. El camino no es tan fácil, pues la exclusión de un mundo que te excluye de ti mismo basta para que vuelvas a encontrarte en él. Si no fuese así, no habría un parado que no se hubiese convertido en poeta de los tiempos futuros. Lo habitual es que el parado no se pertenezca a sí mismo, sino que continúe perteneciendo al trabajo. Lo que lo destruía en la alienación de la fábrica y de la oficina persiste en corroerlo fuera de ellas como el dolor de un miembro fantasma. Como el explotador, el explotado apenas tiene la oportunidad de consagrarse sin reservas a las delicias de la pereza.

Seguramente hay malicia en hacer lo menos posible para el patrón, en parar de trabajar desde el momento en que vuelve la espalda, en sabotear las cadencias y las máquinas, en practicar el arte de la ausencia justificada. La pereza, en este caso, salvaguarda la salud y presta a la subversión un carácter agradablemente roborativo. Rompe el tedio de la servidumbre, quiebra la palabra de mando, recupera la calderilla de ese tiempo que os arrebata ocho horas de vida y que ningún salario os permitirá recuperar. Dobla, con un ensañamiento salvaje, los minutos robados a la máquina de fichar, cuyo recuento de la jornada aumenta el beneficio del patrón. De acuerdo. Pero la pregunta sigue en pie: ¿qué placer puede uno obtener sin reservas si implica antes que nada arruinar el placer del otro? ¿Quieres que te obedezcan? Pues nada de eso. Ofrezco una prueba viva hurtándome a tu poder, rompiendo ese poder que te parece, sino eterno, sí al menos adquirido para un largo tiempo. Noble tarea es, sin duda, la subversión del trabajo innoble, pero no te libra de trabajar. Hete aquí, como el amo al acecho del criado que le roba, holgazaneando con el ojo puesto en el amo para robarle mejor. No puede entenderse la pereza de forma tan furtiva. Se necesita desahogo, como en el amor. Quien está pendiente del "¿quién vive?" no vive en absoluto, o lo hace mediocremente. ¡Qué rencor, por otro lado, al no poder arruinar tan retorcidamente como uno desearía el hedonismo de los explotadores, por mediocre que éste sea! ‘Mientras nosotros curramos, ellos se llenan la panza , dice la canción. Pero, de la misma manera que aquellos curas rijosos a los que el viejo anticlericalismo puritano reprochaba el lanzarse a los excesos, ¿no habría sido el hedonismo lo mejor que los explotadores alcanzasen en toda su existencia si el terror a los explotados no los hubiera condenado a secretas y precipitadas compulsiones? El privilegio de los proletarios al emanciparse tanto del trabajo que los convierte en asalariados como de aquellos que extraen de él la plusvalía consistía precisamente en acceder al goce de ellos mismos y del mundo. El goce y su consciencia, agudizada al perfeccionarlo, poseen suficientemente la ciencia de liberarse de aquello que los entorpece o los corrompe. ¡Preguntádselo a los que aprenden a
amarse!

Lo que es verdad para el amor es verdad para la pereza y su disfrute. A menudo estamos lejos de la realidad. Un reportaje sobre los campesinos brasileños, privados de la tierra mientras grandes extensiones permanecen baldías en manos de unos propietarios preocupados tan sólo por mantener su propiedad, los exhibía en una larga marcha de la miseria, blandiendo cruces, con curas a la cabeza, pues la Iglesia los provee cotidianamente de un guiso de arroz y judías. En interés de la objetividad mediática, se insertaba, conforme a las leyes del montaje, un banquete en el que los propietarios rurales se servían salchichas y costillas de cordero en abundancia, argumentando sobre su justo derecho y protestando contra los ataques de los que se consideraban víctimas.
Entre la miseria de los notables amedrentados y la compasión por los desposeídos, uno daba en pensar que los primeros no tienen el disfrute de sus tierras porque no poseen más que su propiedad y que los segundos, a quienes correspondería tal disfrute, apenas están en disposición de disfrutar de nada.
La situación es menos arcaica de lo que parece. Europa conoce hoy en día una clase burocrática que rasca el fondo de las arcas del capital con el fin de hacerlo fructificar en un circuito cerrado, sin invertir en nuevos modos de producción. Y los proletarios, a quienes se ha enseñado que el proletariado ya no existe, alegan excepciones por su disminución de poder adquisitivo en la esperanza de que un gran movimiento caritativo suplirá la supresión de sus derechos sociales, la reducción de los salarios, la rarefacción del trabajo útil y el desmantelamiento de la enseñanza, de los transportes, de los servicios sanitarios, de la agricultura de calidad y de todo aquello que no aumenta con una rentabilidad inmediata la masa financiera puesta al servicio de la especulación internacional.

La única utilidad que se le reconoce ahora al trabajo se limita a garantizar un salario a la mayoría y una plusvalía a la oligarquía burocrática internacional. El primero se gasta en bienes de consumo y en servicios de una mediocridad creciente; la segunda se invierte en especulaciones bursátiles que, cada vez más, prestan a la economía un carácter parasitario. Se ha implantado tan bien el hábito de aceptar no importa qué trabajo y de consumir lo que sea para equilibrar esa balanza mercantil que reina sobre los destinos como la vieja y fantasmal providencia divina que, quedarse en casa en lugar de participar en el frenesí que destruye el universo, pasa extrañamente por algo escandaloso. Uno de esos ministros cuya máquina administrativa devora millones a la manera de un gigantesco aparato que parasita la producción de bienes prioritarios no tuvo empacho en denunciar, con la aprobación de los gestores de la información, a los beneficiarios de subsidios, a los ferroviarios jubilados, a los usuarios de los servicios de salud, en pocas palabras, a las gentes que obtienen placer de su reposo mientras otros duermen para un patrón cuyo dinero no deja de trabajar. Que se hayan encontrado proletarios –subsidiados en potencia, sin embargo- que consienten en la refundición semántica de las palabras compradas por el poder no es el simple efecto de la imbecilidad gregaria. Planea sobre la pereza tal sentimiento de culpa que pocos se atreven a reivindicarla como una parada saludable que permite reconquistarse y no ir más allá en el camino por el que el viejo mundo se desliza.


¿Quién, entre los subsidiados, proclamará que descubre en la existencia riquezas que la mayoría busca donde no están? No encuentran placer en no hacer nada, no piensan en inventar, en crear, en soñar, en imaginar. En la mayoría de las ocasiones sienten vergüenza por estar privados de un embrutecimiento asalariado que les privaba de una paz de la que ahora disponen sin osar instalarse en ella. La culpabilidad degrada y pervierte a la pereza, prohíbe su estado de gracia, la despoja de su inteligencia. Qué mejor ocasión que las huelgas para suspender ese tiempo en el que todo el mundo corre para no atraparse jamás, se desloma por ser lo que le repugna y por no ser lo que habría deseado, y cuenta con la jubilación, la enfermedad y la muerte para poner fin a su fatiga.
Una parada en el trabajo debería propagar la buena conciencia de la pereza, alentar ese saludable reposo que ahorraría no pocos gastos en sanidad. No hace falta más que ponerle un poco de imaginación. Nos cruzamos de brazos, dirían los ferroviarios, instauramos la gratuidad del tiempo y del espacio y, para vuestro esparcimiento, nos relevaremos para hacer que los trenes circulen y permitiros recorrer Francia entera sin ningún desembolso por vuestra parte. ¿Seguirías asistiendo a fábricas y oficinas?. ¡Vosotros sabréis! Tal vez se les ocurriese a algunos que la pereza es más creativa que el trabajo.

¡Pero no! Declarar que la huelga es una fiesta es un insulto para quienes persisten en encontrar dignidad en la esclavitud del trabajo. Es necesario, dentro del orden de cosas que nos gobierna, que la huelga sea una maldición, igual que la pereza. Respiramos con pesar un poco de aire fresco antes de retomar valientemente el camino de la corrupción y de la polución. Bien que nos merecemos la jubilación, suspiran los trabajadores. Pero, conforme a la lógica de la rentabilidad, lo que uno merece ya lo ha pagado no una vez, sino diez. Que no se diga, pues, que la jubilación ofrece al fin un refugio a esa ociosidad que, decididamente, es la cosa peor repartida del mundo. ¿Confundiréis pereza y fatiga? Yo ni siquiera hablo del fin de esa existencia llamada cínicamente activa sobre el cual cuarenta años de desriñone cotidiano continúan imprimiendo su cadencia, mientras la vida se escapa por todos lados y los días se transforman en adelantos en la contabilidad de la muerte.

La pereza en la que desborda de repente toda la carga de los deseos, prohibidos por cuarenta horas semanales de presencia obligatoria en la fábrica o en la oficina, no es más que una gris liberación, la aceleración de un retraso que hay que superar, la compulsión del perro al que repentinamente se le desata la correa. La pereza, en suma, nunca fue en el pasado mejor tratada que la mujer, y sabemos demasiado bien cómo nuestro presente está marcado en sus nueve décimas partes por lo que fue. Cuando el poder del macho veía en la mujer al reposo del trabajador en armas, de cuello blanco o de cuello azul, ¿no es cierto que la identificaba con la ociosidad?. Hablando para no decir nada, atareada para no hacer nada, la mujer derivaba su inferioridad de su ausencia de la economía y estaba excluida de la alquimia lucrativa y saludable reservada a la fuerza viril, con la única excepción del tiempo destinado a la maternidad y a producir hijos para la fábrica y la gloria militar.


Ociosa y vana, a la mujer era imprescindible mantenerla "ocupada", del mismo modo que el trabajo viola a la pereza. Exiliada, como el parado, de la máquina de excretar rentabilidad, no obtenía del ocio más que la sombra de su maldición. Ni derecho ni goce, sólo remordimientos y pecado. ¿Cómo encontrar reposo en una ociosidad que es, en el peor de los casos, una bajeza y, en el mejor, una excusa? Pues si el trabajo se identificaba con la fuerza, la pereza quedaba rebajada a la condición de una debilidad mórbida. Por una inversión de sentido que es propia del viejo mundo, el desriñone laborioso se transformaba en signo de salud, mientras el dulce farniente se revelaba como un síntoma enfermizo. Tal es el peso del ajetreo sobre una vida que en realidad no exigía tanto, que, despojada del frenesí de una acción empeñada en el logro de fines útiles e inútiles, se diría que nada queda en un mundo de repente despoblado. La pereza es una nada; inclinarse sobre ella es contemplar un abismo y el abismo, afirmaba Nietzsche, también mira dentro de ti. Entra, desde luego, en la lógica de las cosas que, después de haber demostrado que la pereza carecía de existencia fuera del trabajo, de la opresión, de la subversión, de la culpabilidad, del desahogo, de la debilidad constitutiva, se llegará a la conclusión de que no era nada.

Albert Cossery hizo una sabrosa descripción de esa nada. En Los haraganes del valle fértil nos introduce furtivamente en una casa de pueblo en la que cada uno de sus habitantes rivaliza en ingenio para dormir el mayor tiempo posible. Hay que desbaratar las conjuras del mundo exterior, valerse de la astucia frente a la perversa atracción que el trabajo ejerce en ocasiones sobre aquellos que han tenido la fortuna de no saber nunca de él. Que la atmósfera no es de júbilo, ni siquiera de entusiasmo, es lo menos que puede decirse. Un sombrío ardor preside la rigurosa disposición del silencio. La angustia merodea entre los ronquidos. Aunque acaso sea menos el producto de una posible ruptura del delicado equilibrio de la nada que de la lasitud de la holganza. Pues aquí la pereza no es más que la vanidad de un dormir sin sueños. Es una venganza contra la vida ausente, un arreglo de cuentas existencial que raposea con la muerte. Se reivindica el derecho a no ser nada en un universo que ya te ha condenado a la nulidad. Es demasiado o no es suficiente. Seguramente puede encontrarse cierto placer en no estar para nadie, en quererse de una absoluta nulidad lucrativa, en dar testimonio de la propia inutilidad social en un mundo en el que se obtiene un resultado idéntico mediante una actividad muy a menudo frenética. Pero eso no impide que el contenido mismo de la pereza deje que desear. Su inconsistencia la predispone a los manejos de quien quiere sacarle partido. Hay tanta pereza como debilidad en dejarse gobernar, señalaba La Bruyère.


Hay en los letárgicos una propensión a preferir la injusticia al desorden. ¿Los cuidados que requieren los privilegios de la somnolencia mental y de la ociosidad no implican acaso una perfecta obediencia al orden de las cosas? Pagar el descanso con la servidumbre es, sin duda, un trabajo innoble. Hay demasiada belleza en la pereza como para convertirla en la prebenda de los clientelismos. Al paso de una manifestación contra la mafia en Palermo, un joven se indignaba: "¡Están locos! Sin la mafia, ¿quién nos ayudaría?". El integrismo islámico no reacciona de manera distinta. Ser una larva bajo la mirada de Alá y en la miseria del mundo sirve al poder de los negocios. Si la pereza se acomoda a la apatía, a la servidumbre, al oscurantismo, no tardará en entrar en los programas de un Estado, que, previendo la liquidación de los derechos sociales, pone en marcha organismos caritativos privados con el fin de suplirlos: es decir, un sistema de mendicidad del que desaparecerán reivindicaciones que, bien es verdad, emprenden dócilmente ese mismo camino a juzgar por las últimas súplicas públicas, que tienen como leitmotiv: "¡Dadnos dinero!". El mercantilismo de tipo mafioso en el que se transforma la economía en declive no podría coexistir más que con una ociosidad vaciada de toda significación humana. Pues tal vez sea tiempo de darse cuenta de que la pereza es la peor o la mejor de las cosas dependiendo de que se incluya en un mundo en el que el hombre no es nada o bien en una perspectiva en la que quiere serlo todo. No es poco reconocer que la pereza no ha conocido más que una existencia alienada, envilecida, sometida a intereses sin relación deseable con las esperanzas que habría sido natural poner en ella.

¿Cómo sorprenderse de algo así, si lo mismo ocurre con el ser que se dice a sí mismo humano y pasa lo mejor de su vida demostrando que lo es bien poco? Tal cosa no impide, sin embargo, ni las aspiraciones ni el poder del imaginario por medio del cual la historia no hace más que suplir sus crueles realidades, ni que se bosquejen esos cambios que tantos deseos secretos reclaman. Es entonces cuando la pereza revela su riqueza. ¿Acaso no ha elaborado ella un universo, fundado una civilización? Feliz país el de Jauja5, en el que, sin el menor esfuerzo, los platos más apetitosos adornan las mesas, en el que las bebidas fluyen a raudales en una extravagante diversidad, y en el que, con el favor de una naturaleza ubérrima, los embelesos del amor se ofrecen en el recodo de cualquier bosquecillo. Entre las poblaciones más pacíficas del globo reina una encantadora indolencia. Basta con tender la mano o con abrir la boca para satisfacer las exigencias del gusto o del goce.

En el país de Jauja la abundancia es natural, la bondad nativa, la armonía universal. Nada, desde el mito de la Edad de Oro a Fourier, ha exaltado mejor las ensoñaciones del cuerpo y de la tierra, las sinfonías secretas y jubilosas que componía una razón cuidadosamente prevenida contra la racionalidad del tumulto laborioso, de la miseria activa y del fanatismo competitivo. ¿Es preciso revelar el recuerdo resurgente de una época lejana y anterior a nuestra civilización agraria, que fertiliza la tierra con sudor y sangre antes de esterilizarla para sacarle más dinero? Las cadenas del trabajo y de la competencia guerrera, que marcan el ritmo de la danza macabra de la civilización mercantil, idealizaron sin esfuerzo a las sociedades que se sustraían a tan temibles privilegios. Sin duda, pero la visión idílica responde bastante bien, a juzgar por el estudio de los emplazamientos magadalenianos, a colectividades en las que la recolección de plantas, la pesca y una caza complementaria tejían entre los hombres, las mujeres, los animales, la fecundidad vegetal y la tierra vínculos menos apremiantes, más igualitarios y tranquilizadores que la apropiación agraria, cuya explotación de la naturaleza acarreará la explotación del hombre por el hombre.

Reconozcamos, sin embargo, que cada vez que se ha descubierto al buen salvaje ha sido preciso bajar una tercera la melodía de las alabanzas. En materia de comportamientos ejemplares, la variedad ,Jívaro, o, Dayak, se imponía muy frecuentemente al tipo "Trobiandés". Y cuando el modelo alegraba nuestros corazones, ¿qué nos aportaba sino un poco más de nostalgia? No hay vuelta al pasado, a no ser en la irritante esterilidad de la añoranza.
El sueño de Jauja carece de esa languidez retrógrada. Gracias a una escandalosa improbabilidad, puede integrarse tanto mejor en el campo de los posibles.

En Jauja presentimos que la exuberancia de la naturaleza se ofrece a quien la solicita sin querer saquearla o violarla. Por ella pasa, como venido de lo más profundo de la historia y del individuo, el aliento de un deseo inextinguible; el deseo de una armonía con los seres y las cosas, presente con tanta sencillez en el aire de todas las épocas. El tiempo en el que las bestias hablaban, en el que los árboles eran pródigos en sabios consejos, en el que los objetos mismos se animaban se mantiene en el corazón de lo real en los niños. El perezoso descubre su fascinación enclavada en una indolencia que evoca en él confusamente la existencia prenatal, momento en el que el universo matricial, el vientre de la madre, dispensa amor, alimento y ternura. "¿Qué funestas condiciones –se pregunta- nos impiden otorgar a la naturaleza su vocación de madre abastecedora?".

Por mucho que la racionalidad lucrativa del trabajo considere la cuestión nula y sin valor, el perezoso sabe que en la feliz disposición que lo protege del mundo de la especulación y la tarea, tal fantasía no está desprovista de sentido y poder. Entre el medio ambiente y él, la despreocupación contemplativa basta para tejer una red de sutiles afinidades. Percibe mil presencias en la hierba, en las hojas, en una nube, un perfume, un muro, un mueble o una piedra. De repente le asalta un sentimiento de estar vinculado a la tierra por las nervaduras íntimas de la vida. Se encuentra en unidad con lo vivo, en una religio de la cual la religión, que encadena la tierra al cielo y el cuerpo a los mandamientos divinos, no es más que una inversión. Al contrario que el místico, exiliado de sus sentidos mediante el desprecio de sí mismo, el ocioso restituye la materialidad de la vida –la única que hay- al universo del que procede: el aire, el fuego, la tierra, el mineral, el vegetal, el animal y el ser humano, que de todos ellos ha heredado su especificidad creativa.

Bajo la aparente languidez del sueño se despierta una conciencia a la que el martilleo cotidiano del trabajo excluye de su realidad rentable. Dicha languidez nada tiene que ver con el animismo, afectación religiosa en la que el espíritu trata de apropiarse de los elementos de la tierra como si éstos no se bastasen a sí mismos. Sencillamente, emana de una vitalidad que el cuerpo en reposo se reapropia. Para que la pereza acceda a su especifidad, no basta con que rehúse a la voluntad omnipresente del trabajo; es necesario que sea por y para sí misma. Es necesario que el cuerpo, del que constituye uno de los privilegios, se reconquiste como territorio de los deseos, a la manera en que los amantes lo perciben en el momento del amor. Lugar y momento de los deseos, así se reivindica esta pereza según el corazón, tan opuesta al la pereza del corazón, a la cual amenaza con reducirla el mercadeo social ordinario. La suavidad de los prados, la serenidad del lecho se pueblan de una multitud de anhelos concebidos por la felicidad, y que las obligaciones rechazaban, deformaban, diezmaban, travestían de significaciones mortíferas.

El país de Jauja se erige en proyecto en la intención: todo se pone al alcance de la mano de quien aprende a desear sin fin. "Haz lo que quieras" es una planta ética que no pide más que crecer y embellecerse. La crueldad de condiciones insoportables y que, sin embargo, toleramos prescribe que la abandonemos como si nos requiriese la urgencia de no ser nosotros mismos, de no pertenecernos jamás. La pereza es goce de uno mismo o no es nada. No esperéis que os sea concedida por vuestros amos o vuestros dioses. A ella se llega por una natural inclinación a buscar el placer y evitar su contrario. Una simpleza que la edad adulta se empeña en complicar. Acabemos, pues, con la confusión que asocia a la pereza con ese reblandecimiento mental que llaman pereza de espíritu, como si el espíritu no fuese la forma alienada de la conciencia del cuerpo. La inteligencia de uno mismo que la pereza exige no es otra cosa que la inteligencia de los deseos de la que el microcosmos corporal necesita para liberarse del trabajo que le pone trabas desde hace siglos. ¡A saber lo que se desliza a
través de la multitud de anhelos y deseos que invaden al perezoso finalmente decidido a no ser más que para sí mismo!

Tal es la fuerza de los deseos cuando se encuentran –por decirlo así- en estado de libertad que les vence la ilusión de poder cambiar el mundo a su favor y sobre el terreno. La vieja magia se aparece más de lo que creemos en los repliegues de la conciencia. "Es una creencia muy antigua –escribe Campbell Bonner- que una persona, instruida en los medios de obrar, pueda poner en marcha fuerzas misteriosas, capaces de influir en la voluntad del otro y de someter sus emociones a los deseos del operador. Tales fuerzas pueden ser activadas mediante palabras, mediante ceremonias realizadas conforme a las reglas o bien mediante objetos investidos de un poder reconocido como mágico". Y Jacob Böhme, más sutilmente: "La magia es la madre del ser de todos los seres puesto que se hace a sí misma y puesto que consiste en el deseo. La auténtica magia no es un ser; es el deseo, el espíritu del ser". (Erklärung von sechs Punkten).

El siglo XIII conservó el trazo de esta "pereza que mueve molinos" y que evoca Georges Schéhadé . En esa época hay, en efecto, una secta que sostiene: "No es necesario trabajar jamás con las propias manos, sino rezar sin cesar; y si los hombres rezan de tal suerte, la tierra proveerá sin cultivo más frutos que si hubiese sido cultivada" (Citado por H. Grundmann, Religiöse Bewegungen in Mittelalter,Hildesheim, 1961). Y si la operación no dejó en la historia una prueba tangible de su eficacia, es conveniente no incriminar tanto la incompetencia del Dios al cual los orantes se dirigían o cierto modo vicioso de proceder cuanto el recurso a la oración, pues hacerse dependientes de los otros para acceder a una independencia ardientemente deseada es ir contra la propia voluntad y tener en poca consideración las propias aspiraciones. El universo abunda en trampas de este género. Se mezclan en él demasiadas sujeciones, interdictos, represiones y automatismos, como para dispensarnos de la mayor vigilancia.

Es conocido el apólogo indio. Un hombre se había acostado a la sombra de un árbol famoso por su poder mágico. El suelo se le antojaba poco mullido, deseaba tenderse más voluptuosamente, y una suntuosa cama se le apareció. Enseguida le entraron ganas de un copioso almuerzo, y surgió una mesa equipada con los platos más exquisitos. "Mi felicidad sería completa –soñaba- si tuviese a mi lado a un joven graciosa y lista para colmar mis deseos". De improviso llegó la joven y dio respuesta a su amor. Poco habituado, sin embargo, a semejante constancia en la felicidad, no pudo evitar un miedo infundado. Temeroso de perder en un instante una fortuna tan perfecta, imaginó que un tigre salía del bosque. Brotó el tigre y le partió la nuca. Un deseo puede contener otro de sentido contrario. Es asunto de la pereza aprender que no debe temer nada, sobre todo de ella misma. Cuántos esfuerzos para pertenecerse sin reservas. Y no es que sean precisos grandes rodeos para ello, sino que lo más sencillo no se entrega dócilmente a los espíritus atormentados. La infancia del arte no se alcanza más que a través del arte de convertirse en infante.

La desnaturalización ha hecho grandes progresos, decía un perezoso saboreando Le lézard, la canción de Bruant, y su inmortal "No puedo trabajar, nunca
aprendí". Y añadía: se nos ha puesto en tal disposición para trabajar, que no hacer nada exige hoy en día todo un aprendizaje. En una época en la que crece el desempleo, la enseñanza de la pereza resultaría seductora si no fuera porque es cosa de cada uno cultivar sin la asistencia de los otros una ciencia así de delicada, particular y personal. Nadie puede asegurarse su felicidad (y aún más fácilmente, su desgracia), salvo uno mismo. Pasa con los deseos como con la materia prima de la que el alquimista trata de extraer la piedra filosofal. Constituyen su propio fondo y no se puede extraer de ellos más que lo que allí se encuentra. En consecuencia, todo es cuestión de refinamiento. La pereza en estado bruto es como una nuez que nos comiésemos sin pelar. Por más que la hayamos escogido libre de las corrupciones ordinarias del trabajo, de la culpabilidad, de la liberación y de la servidumbre, aún falta degustarla para obtener todo el placer: devolverla al movimiento natural que la hará ser lo que es, un momento del goce de uno mismo, una creación, en suma. El hábito de los placeres laboriosos, sombreados –más que subrayados- por lo efímero y hurtados a toda prisa, nos ha despojado de la experiencia del esfuerzo y de la gracia. Los placeres, en lo que tienen de auténticos, no son ni el fruto de un capricho del azar o de los dioses, ni la recompensa de un trabajo del que no serían más que la respiración jadeante. Se dan tal como los cogemos. La alegría de la que nos llenan es la alegría con la que los abordamos.

Tal vez sea ésta la Gran Obra cuya búsqueda paciente y apasionada el alquimista emprendía cada día: una obstinación del deseo en despojarse de lo que lo corrompe, en refinarse sin cesar hasta alcanzar esa gracia que transmuta en oro vivificante el plomo de la miseria, de la muerte y del tedio. Cuando la pereza no alimente más que el deseo de satisfacerse, entraremos en una civilización en la que el hombre ya no sea el producto de un trabajo que produce lo inhumano.