Definizione della storia
Qui
ed ora comincia la storia. Lo spontaneo, l’immediato, il presente sono
l’inizio della storia. Il passato è una introduzione che, come tutte le
introduzioni, è scritta a cose fatte, nell’avvenire, nella riflessione,
nella mediazione. Il presente comincia la storia, e il passato concede
tempo a questo inizio.
È
questo il movimento che determina la storia: il passato è una
proiezione del presente, il passato comincia nel suo avvenire, nel
presente, e non l’inverso. La storia è una progressione verso l’origine.
Questa concezione dialettica della storia non è nuova, dal momento che
Schiller ed Hegel l’insegnavano correntemente. Ma il positivismo
materialista ha da allora imposto un’altra prospettiva della storia e
del tempo: l’inizio della storia vi si trova in basso e indietro; il
presente è il punto più elevato e più avanzato; e l’avvenire è il
seguito, come tra le righe, di questa scala regolare, infinita e
immutabile. In questa progressione per gradi si disegna la sintesi
vettoriale della visione del tempo veicolata dalle religioni cristiana e
musulmana: mentre per i cristiani il passato è dietro e l’avvenire
davanti, per i musulmani la progressione del tempo è verticale, il
passato è sotto e l’avvenire è sopra. Così, la trionfale scalata del
positivismo economico soddisfa contemporaneamente queste due visioni nei
momenti senza storia, così come le delude nei momenti in cui,
improvvisamente, gli esseri umani la fanno.
L’inizio
della storia, il presente, è dunque sempre lo stesso e sempre mutevole.
Ogni nuovo inizio della storia corregge in apparenza poiché trasforma
in realtà tutto il tempo conosciuto. La notte dei tempi, l’origine del
tempo, è da realizzare. Il presente sta cioè per produrre questo inizio
al suo termine. In questo avvenire dove il presente, l’inizio della
storia, conterrà tutto il passato, esso conterrà tutto l’avvenire. La
fine della storia come fine del tempo è logica a condizione che la
storia cominci qui ed ora. La storia tuttavia non è, come fa supporre il
suo inizio, una successione di inizi ognuno dei quali annulla il
precedente. Al contrario, dato che ogni particolare inizio storico, ogni
attualità della storia, contraddice la precedente totalità, è anch’esso
contraddetto dalla totalità, questa generalità di cui la storia è il
movimento delle determinazioni. Nello stesso tempo in cui tale divisione
rivela la novità, il nuovo inizio della storia è a tal punto impregnato
del passato da sembrarne il risultato. Quando la novità che rivela
questa brutale divisione nel tempo trasforma tutto il passato, l’unità
del particolare inizio storico con la precedente totalità non si
realizza nel loro superamento, come determinazione della totalità
derivata dalla sua divisione. Qui ed ora, questo movimento non si
realizza mai in questa semplicità astratta e teorica. Giacché, in
realtà, qui ed ora è innanzitutto la negazione di un movimento astratto
che sarebbe infinito. Tutto nella storia è singolare. La storia può
anche essere considerata, da chi intende coglierla nel momento in cui
appare, come la singolarità della singolarità.
Quindi,
la negazione dell’eternità è la prima negazione che proviene dal
presente come inizio e fine della storia. La storia è disputa, qui ed
ora, non felicità. I periodi di felicità vi compaiono come pagine
bianche, se per felicità s’intende la felicità religiosa, la felicità
positivista, la felicità economicistica, la concordia sbarazzata della
discordia. La storia è conflitto. È un conflitto sul suo stesso
obiettivo e, conseguentemente, nei suoi intervalli, sui mezzi per
pervenirvi. Per cui, qui ed ora diventa innanzitutto negazione dei
principali presupposti concernenti la storia.
Sarebbe
possibile rilasciare qui ed ora una definizione della storia. Ma
risulterebbe l’esatto opposto del suo concetto, che è la rivelazione
negativa di ciò che se ne dice, di ciò che se ne crede, di ciò che ne è
alienato. Una definizione affermativa coabiterebbe tranquillamente fra
le altre, quali che siano la sua negatività, la sua giustezza, il suo
vigore. La situazione storica oggi impone di unificare l’affermazione
della storia nella negazione delle sue affermazioni separate.
La storia è una
Questa
esigenza ha come conseguenza immediata una prima affermazione talmente
inusitata per la nostra epoca da non poter apparire che estremamente
ridicola o esageratamente rigorosa. Si tratta precisamente
dell’affermazione dell’unità della storia contro la moltitudine di
affermazioni opposte: non c’è che una storia. In genere viene sostenuta
sia questa banalità che il suo contrario, ovviamente anche dalle
medesime persone. Di fronte alla crescente confusione sui concetti, oggi
è primordiale sostenere con la più inflessibile intransigenza
l’affermazione della storia in quanto totalità. La storia è unica. Ci
sono forse diverse umanità?
Concretamente,
ciò significa che c’è già falsificazione nel parlare della storia del
XVIII secolo, della storia di Parigi, della storia del corpo umano,
della storia del mio vicino, della storia di un tavolo o della storia
della libertà. Raccontare una storia è un abuso di linguaggio, una
deviazione pauperistica, uno dei cui sensi secondari confessa questa
impresa: significa dire una menzogna. Certo, tra una storia e la storia,
si tratta più di omonimia che di sinonimia. E se tutti ne fossero
consapevoli e distinguessero senza esitare tra una storia separata e la
storia, che sopprime la separazione e che contiene tutte le storie
separate in quanto separate, non dovrei dilungarmi oltre. Ma gli storici
di professione, che è il caso di definire nemici della storia, non
contenti di applaudire ogni storia separata, sono giunti a ideologizzare
le separazioni nella storia a seconda delle proprie specializzazioni.
Essi definiscono pluralità della storia questa giustificazione della
loro abdicazione. La pluralità è una scorciatoia per parlare di
democrazia con i servitori della democrazia detta occidentale. La
pluralità è diventata uno slogan, uno slogan morale, come ad esempio la
tolleranza, che contiene un anatema: chi obietta a questa o a quella
pluralità è un totalitario, sostenitore di una tirannia, nemico di
qualsiasi democrazia. Questi Tersite intellettuali sono così poco
contraddetti, sia per disprezzo, sia per apatia, sia per ignoranza, che
le loro concezioni contro la storia si sono oggi quasi del tutto
insinuate. Ma ciò che meglio sostiene il miserabile commercio di questi
liquidatori di pezzi smontati, è che da ogni storia separata — che sia
per addormentare i bambini, per istruire gli adolescenti, per fuorviare i
loro genitori o per provocare i vecchi — trapela la storia attuale, sia
sotto forma di traccia d’un passaggio fugace, sia nell’organizzazione
della sua assenza. In effetti, la determinazione più paradossale della
storia è che l’assenza di storia è storia. Così, tutto è storia. Ma i
nemici della storia sono dunque quelli che alimentano l’amalgama tra
l’altero concetto intero e il suo contrario, qualunque sia. Per loro,
qualunque cosa è storia. A questo punto, tra assenza di storia e storia
non c’è più differenza. In realtà, l’assenza di storia è una semplice
determinazione della storia, come la loro unità, che costituisce la loro
verità. Ma le determinazioni dell’assenza di storia non sono
determinazioni della storia. Ora queste determinazioni dell’assenza di
storia, innalzate nella separazione e nell’indifferenza al rango di
determinazioni della storia, non solo dai valletti della corporazione
degli autonominati storici ma dai valletti di tutte le altre
corporazioni autorizzati dall’esempio, finiscono per nascondere
l’unicità della storia in questo abbandono, in questa prostituzione.
Il
miglior esempio di un conflitto pratico tra gli esseri umani
indirettamente storico è la guerra del 1939-1945. Questa guerra, detta
mondiale, non è che una conseguenza della disputa storica del
1917- 1921, la lontana repressione del partito sconfitto in quella
discussione, che ha avuto tanta più importanza in quanto lontana. Ma è
proprio nel 1917-1921 che è avvenuta una discussione sull’umanità, non
nel 1939-45, quando c’è stata solo un’esecuzione delle conseguenze, vale
a dire una discussione interna al partito che aveva vinto. Da allora
questo partito ha cercato di sostituire le proprie dispute alle dispute
che ci sono nel mondo, la propria storia particolare alla storia
generale dell’umanità. Una falsificazione aggravata nell’esempio del
1939-45 dall’amalgama che consiste nel far credere che l’avvenimento che
produce una maggiore impressione sia quello più importante. Dopo la
guerra del 1939-45, che è rimasta quindi l’avvenimento più importante
del secolo per la schiacciante maggioranza di coloro che stanno per
venirne a capo, questa tecnica generalizzata è stata uno dei più potenti
separatori della storia nell’intelligenza del partito sconfitto nel
1921 e dissanguato nel 1945.
La
storia in quanto totalità viene generalmente percepita come un mito. La
piccolezza contemporanea ha praticamente abdicato davanti alla
grandezza dell’oggetto, di modo che, così come confonde il proprio
inizio e la propria origine, essa ribassa miseramente la storia come
unità delle storie separate facendola cominciare... con una s maiuscola.
Per di più è un’autentica alienazione della logica ad appiattire questa
storia «universale» in storia particolare: oggi è unicamente dal
particolare che si astrae il generale e non è affatto dal generale che
si determina il particolare; è dall’avvenimento che si deducono la
storia e la misura della sua s e non è dalla storia che si deducono le
esigenze e gli imperativi che fanno sì che un avvenimento la riveli
oppure no. La storia reale è un tutto la cui ricchezza e il significato
non stanno nella quantità delle determinazioni, ma nel loro rapporto col
tutto, e che per la brevità e straordinarietà delle sue manifestazioni
ne esclude quasi tutti gli individui, e gli altri quasi sempre. Essa ha
un inizio e una fine e un contenuto in movimento: esiste o non esiste
storia nella libertà, in un tavolo, dal mio vicino; esiste o non esiste
storia nel corpo umano, a Parigi o nel XVIII secolo.
Tuttavia,
l’inizio della storia intesa come totalità, che ci può essere o non
essere in ogni momento, è innanzitutto ogni novità, indeterminata, per
l’umanità. Ma la novità è ciò che si oppone alla totalità esistente, che
la rivoluziona. Ora, di recente, è la deduzione ad essere necessaria
per determinare la totalità. È così che dalla totalità recentemente
concepita si deduce come determinazione della storia la novità che, nel
corso dell’operazione, cessa d’essere tale. Ma non c’è nulla di più
ingannevole di una novità che subito scompare! Nulla di più comune
dell’ignoranza, che proibisce così spesso di scoprire ciò che è nuovo
tanto da consentirle di reputare nuovo ciò che non lo è! Infine, nulla
di più limitato in genere della coscienza individuale, che rifiuta quasi
sempre di concepire la totalità mutata persino quando ciò che la fonda
si mostra rovesciato! Tanto più se la coscienza individuale non
interpreta il movimento storico come novità, è il movimento storico a
interpretare gli individui, come vecchiume senza coscienza. Giacché ogni
momento storico è ora dibattito tra novità e totalità in cui coloro che
tacciono e coloro che sono in ritardo sono esposti ad ogni disprezzo,
ad ogni severità.
La storia è una attività
Siccome
la storia è il dibattito sulla novità, la prima novità che la storia
rivela è la novità del dibattito. Ai tempi di Erodoto e di Tacito,
l’indagine sugli avvenimenti sembrava essere la base necessaria di
questo dibattito. Tra coloro che conducevano tale indagine, definiti
perciò storici, e coloro che ne apprendevano lo svolgimento, figuravano
coloro che conducevano questo dibattito universale. I loro scritti, che
costituivano la memoria degli avvenimenti passati e la legge degli
avvenimenti futuri, erano rispettati come lo stesso dibattito, che
precede o conclude l’azione. Disgraziatamente l’umanità, sia essa a
conoscenza o meno delle indagini del passato, non ne ha mai tenuto conto
dato che l’azione supera il verbo nei momenti decisivi di una disputa.
In genere questo disprezzo è rivolto alle passioni che suscitano
discussioni alquanto furibonde tra gli uomini. La contraddizione tra
l’emozione vissuta e l’emozione descritta e giudicata ha escluso gli
antichi storici dal dibattito di cui hanno riprodotto il riflesso.
Perché già il verbo non è più il predicato del dibattito. Perché già lo
spirito regna sulla coscienza e non la coscienza sullo spirito. Perché
già diventa palesemente falso affermare che la storia inizia con la
scrittura.
Nelle
sue Lezioni sulla filosofia della storia, Hegel concede un bizzarro
compromesso: la storia sarebbe fatta sia da chi la racconta che da chi
la fa. Essendo la storia il movimento dello spirito, coloro che ne
trasmettono coscientemente le determinazioni, gli storici,
contribuirebbero alla storia tanto quanto i conquistatori e i fondatori,
che ne forniscono, in certo qual modo, la sostanza. Ciò che è
rimarchevole non è tanto l’imbarazzo di dover giustificare il ruolo
determinante di chi racconta la storia quanto la constatazione, già
tanto lontana dagli antichi, che la storia, il dibattito spirituale
dell’umanità possa essere condotto non solo da chi lo redige. Il mondo
di Hegel è già un mondo di dispute, dove la parola, anche quella che
utilizza Hegel, è riconosciuta un mero strumento del dibattito.
Oggi,
la prima novità del dibattito, le cui conseguenze sono però
incalcolabili, conferma il movimento che si trova indicato all’epoca di
Hegel: il dibattito è pratico e soltanto pratico. Effettivamente gli
uomini non discutono più a parole. L’ancestrale costume di sanzionare
una disputa con una parola, di dichiarare una guerra o di stabilire un
trattato di pace, è scomparso. Gli uni utilizzano le parole come armi
assai particolari, per paralizzare o disorientare; gli altri, la
maggioranza, incapaci di servirsi delle parole senza impantanarvisi o
inciamparvi, diventano sempre più estranei. Perfino presso i banditi e
gli analfabeti, il rispetto per la parola viene meno. Così una nuova
espressione, nuove espressioni, già si esprimono. Beninteso, qui la
novità non è che la storia sia pratica e soltanto pratica e che il fatto
di raccontarla, commentarla, analizzarla non è la storia — bensì una
pratica di collegamento, subordinata alle altre così come lo
stato-maggiore è subordinato al generalissimo — ma che già ai tempi di
Hegel, di Tacito, di Erodoto costituiva la stessa cosa. Fare la storia è
il modo migliore di raccontarla.
Contrariamente
a ciò che la pratica della storia rivela, i deliri degli storici
odierni: per loro, solo gli storici fanno la storia. La storia è
diventata una materia. E questa materia è scolastica. La storia è una
scienza sociale, vale a dire un certo numero di specialisti salariati
che ritagliano dal passato per un certo numero di studenti. Nell’attuale
disputa dell’umanità, quelli che si definiscono storici non hanno
nemmeno la funzione di stato-maggiore al servizio di uno dei due
partiti, bensì quella di un’arma paragonabile sì e no a quella della
seppia: schizzano inchiostro per disturbare la visibilità. Ecco qualche
opinione di uno dei rinnovatori più ammirati di questa setta d’insetti,
Fernand Braudel: «Per me, la storia è la somma di tutte le storie
possibili — una collezione di mestieri e di punti di vista, di ieri, di
oggi, di domani». Tutto ciò che chiunque definisce storia può
aggiungersi alla storia; la storia è un lavoro di specialisti, non è
l’attività di tutta l’umanità; qualsiasi collezione di punti di vista vi
si incolli, si è persino invitati a dar credito all’avvenire, cosa non
certo più rischiosa del dar credito a Braudel: «Siamo contrari
all’orgogliosa parola unilaterale di Treitschke: “Gli uomini fanno la
storia”. No, al contrario la storia fa gli uomini e forgia il loro
destino». Per rispondere alla prima metà di questa inversione retorica
per studenti, se non sono gli uomini a fare la storia, di chi si tratta?
E per rispondere alla seconda, mi spiace solo che, se è vero che la
storia fa gli uomini, nel passare essa abbia disgraziatamente mancato
Braudel. Infine, cos’è cambiato tra il 1930 e il 1950 nel Bordello
intellettuale a cui la storia è stata in questo caso ridotta?
«...l’eccezionale opera di Ernest Labrousse, il più nuovo contributo
alla storia degli ultimi vent’anni». Stronzate come la Comune di
Barcellona e la doppia insurrezione di Varsavia, per non citare che
queste in un periodo brutto quanto Labrousse. Non stupisce che chi fa la
storia, chi la pratica, come attività generica degli uomini, non si
curi minimamente di appropriarsi del titolo, divenuto ripugnante, di
storico! Così, i nemici della storia, che pretendono di congelarla in
una specialità “scientica”, adempiono alla propria funzione, di cui non
hanno più coscienza, nel dibattito odierno: separare la storia come
attività, ed anche per quanto è possibile, dalle coscienze dei suoi
protagonisti, persino potenziali.
La storia è una attività attuale
Dopo
aver propagato l’iniziale opinione che la storia non è un’attività e
non è alla portata di tutti, lo storico di professione ne veicola
un’altra: la storia è il passato. Sebbene abbastanza poco radicata in
quanto vaga e generale, quest’idea, la più diffusa tra i poveri,
contribuisce fortemente ad affogarli nella rassegnazione. Proprio lo
storico, nella sua polverosa erudizione o nel suo sapere separato, nelle
sue fissazioni libidiche che stupiscono senza attrarre e raccontano
senza comprendere, e nel suo recente esibizionismo che esalta la sua
ripugnante vecchiaia, si inserisce tra i poveri e la storia come un
decadimento temporale: lui stesso raffigura il passato.
È
importante parlare qui dello storico un po’ più di quanto non meriti,
perché, volenti o nolenti, è diventato l’autorità intellettuale che
garantisce la perdita della coscienza storica. Oggi lo storico è
spostato dalla storia attuale proporzionalmente al suo spostamento dal
terreno del dibattito attuale. In realtà, capita che alcuni storici
affrontino «soggetti d’attualità», ma allora è come se fossero tra
soggetti appartenenti a un passato che loro hanno raffreddato. Così come
contribuiscono a raffreddare l’attualità. Queste sterili comunelle col
presente funzionano, secondo un luogo comune, da eccezioni, alquanto
rare, che confermano la regola: la storia è il passato.
Lavorando
sul passato, gli storici non tentano mai di servirsene per trasformare
il presente. Anzi la storia, essendo esclusivamente il passato, conferma
il presente. Dato che il primo risultato della storia esclusivamente
passata è di non essere presente, viene esclusa dal presente. Dopo aver
informato con la propria attività che la storia non è un’attività, gli
storici informano col proprio ritardo che la storia è ritardo. Questo
risultato è rafforzato da un fatto inespresso: evidentemente ogni
povero, incluso ogni storico, sa bene che oggi c’è storia, a prescindere
dalla professione; ma questa è la teoria! Nella sua pratica il povero,
incluso lo storico, verifica quotidianamente il contrario, e l’afferma
pure: non c’è più storia. Senza riuscire ad esprimerla, questo povero ha
la vaga sensazione di essere nel contempo al di qua e al di là della
storia, nell’infinito. Rinunciando a cambiare il mondo, crede che il
mondo non cambi, non cambierà più.
Così,
gli è molto difficile identificarsi con i protagonisti della storia
passata. Gli storici, a seconda della loro parrocchia, impongono uno dei
modelli che ha l’effetto di giustificare il povero nella tetraggine
senza progetto della propria sottomissione: che gli vengano mostrati
celebri personaggi nel loro quotidiano e nella loro miseria in modo che
il nostro spettatore si convinca che i protagonisti della storia sono
poveri come lui, la qual cosa lo blandisce, o che sia talmente ricco da
non aver nulla da fare, o che, fin dal passato più remoto, fossero già i
concetti astratti a far girare il mondo; qualunque cosa facciano gli
uomini, è inutile darsi da fare; o magari erano già i poveri, nella loro
vita quotidiana e nel loro lavoro, nella loro «sessualità» e nella loro
«cultura», a fare, pur senza saperlo, la storia; quindi, è inutile
cambiare. In ogni caso, niente di eccitante, niente di grande, niente di
bello: niente da prendere, nemmeno in mano. Il passato non è che un
tempo imperfetto, in rapporto al presente. Di conseguenza, è meglio
esistere oggi che nella storia. Nel passato, trattato com’è, il povero
moderno, trattato com’è, scopre soltanto di avere interesse a separare
l’oggi e la storia.
In 1984,
Orwell critica violentemente la riscrittura permanente del passato. A
questa pratica stalinista si contrappone il credo dell’attuale ideologia
dominante, il principio di una storia oggettiva, di un passato di cui
sarebbe possibile in qualche misura fissare i termini in maniera
definitiva. Anzi, il passato non è solo ripensato, ma si scopre, e di
conseguenza si modifica alla luce del presente. Il dibattito
sull’umanità cambia continuamente argomenti, parola, campo di battaglia,
armi, protagonisti e prospettive, ovvero metodi e strumenti per
osservare oltre che per esprimere il passato, tutti necessariamente
soggettivi. Ciò che differenzia questa riscrittura del passato da quella
criticata in 1984 è che quest’ultima è sbirresca. Essa distrugge
ed esclude quelle che l’hanno preceduta, cosa che Orwell denuncia per
l’appunto come eccesso di menzogna, come un annichilimento della storia;
mentre la riscrittura della storia passata, necessaria al partito che
fa la storia, è il confronto costante di tutte le contraddizioni della
propria operazione, del passato col presente, della conoscenza con
l’ignoranza, dell’attualità col suo superamento.
Che
sia reazione alla trasformazione della storia in passato, o volontà di
riportare il paradiso sulla terra, dopo Marx la teoria più radicale
sostiene l’idea secondo cui saremmo ancora nella preistoria. La storia
sarebbe l’avvenire, unicamente l’avvenire. Facciamola finita con la
preistoria qui ed ora. La preistoria è una invenzione degli storici per
mostrare la differenza qualitativa da un’epoca in cui non c’erano ancora
storici, spostata da Marx per mostrare la differenza qualitativa tra la
società comunista realizzata e la nostra. In entrambi i casi la
preistoria è il periodo anteriore al dominio del dibattito dell’umanità
sull’umanità. Poiché la nostra epoca rivela che la scrittura non è la
condizione indispensabile di questo dibattito, nulla dimostra ancora che
sia mai esistita un’epoca senza dibattito sull’umanità; mentre tutto
lascia supporre che il momento del dominio di questo dibattito sarà il
suo silenzio finale. Per cui il dibattito imperfetto e indistinto che ha
luogo qui ed ora è proprio tutta la storia. Trasporla nell’avvenire
diffonde la medesima concezione del confinarla nel passato: la fede in
un tempo eterno. Nel primo caso non c’è più storia, il presente è
eterno, nel secondo non c’è ancora storia, l’avvenire è eterno. In
entrambi i casi, il tempo eterno è la felicità, è là che si realizza
l’uomo totale. Per parte mia, non sono credente. La storia ha una fine,
l’umanità pure, e non ci sarà mai eternità.
La storia è un gioco
La
storia è il momento più breve che si possa immaginare, adesso. E la
storia è tutto il tempo misurabile dell’umanità. Questa distesa
impressionante, che appare infinitamente grande, non esiste che in
questo istante che appare infinitamente piccolo. Da queste due
dimensioni contraddittorie, la storia trae la propria gravità e
l’inesauribile ricchezza del mondo, uno scoppio di risa in mezzo a una
sequela di miserie.
La
fine della storia, la realizzazione dell’umanità è il fine della
storia. La realizzazione della vita individuale non è differente dalla
realizzazione della storia: per cui nessuna vita individuale è ancora
realizzata. Solo il bisogno di questa realizzazione simultanea
dell’individuo e del genere contiene la soddisfazione definitiva
chiamata felicità. Ma la felicità è tutt’al più una idea non verificata,
uno scopo indeterminato. Pure è questo scopo a rendere identica ogni
grandezza alla vita, che attira gli esseri umani come un amante che, per
il momento, è ancora al di là della loro vita. Il loro fine è l’unico
autentico bisogno che li fa vivere. Si tratta di un bisogno fatto
precisamente del contrario del bisogno. Ad ogni modo la realizzazione
della storia è nel contempo necessità dell’individuo e dell’umanità. È
il bisogno a contenere e fondare tutti gli altri. La gloria è l’impronta
con cui la storia segna chi se ne impadronisce. Nella nostra epoca, la
scarsa stima per la gloria, la stessa poca gloria, misurano la vastità
della rassegnazione dell’umanità a realizzarsi.
Coloro
che hanno ambizioni di gloria, che possono o vogliono far la storia,
sanno che la storia è un gioco. Per gli altri, che ne sono le pedine, la
storia è una successione di catastrofi: la storia è il dibattito di cui
essi sono il bavaglio, la disputa di cui sono il tampone, la guerra di
cui sono i cadaveri, l’abbraccio di cui sono il divieto. I giocatori che
conoscono questo gioco estremo che va al di là della loro vita sanno
che proprio loro devono andare al di là di se stessi; e forse questo non
sarà sufficiente. Lungi dallo scoraggiare, questa smisurata esigenza
attrae. Non enumererò le qualità che occorrono per vincere, perché
servono tutte. Voglio soltanto dimostrare che il fine è la vittoria: che
la storia sia corta!
I
nemici della storia affermano: che la storia sia lunga; e anche: che la
storia si fermi! Così, questo gioco assoluto è il gioco per la
dominanza della totalità, che appartiene all’umanità intera, ma anche il
conflitto dell’umanità divisa. In effetti, ciò che rende assoluto
questo gioco è che non ha altre regole oltre a quelle, sempre e tutte
effimere, stabilite dai partecipanti. Il sacro è una regola del gioco
profano, l’infinito è il labirinto dell’illusione nella storia,
l’assoluto stesso non è che la regola implicita di stabilire regole
esplicite.
Infine,
la storia è rispetto alla vita ciò che il quotidiano è rispetto alla
sopravvivenza, la misura del suo tempo. Il gioco è l’attività generica
dell’uomo, dove l’intelligenza è l’unità del cuore col cervello. Nel suo
bisogno di praticare il gioco, la storia, l’essere umano incontra la
necessità come miseria, come incidente, come alienazione della propria
intelligenza. La nostra epoca completa il mondo mostrando il lavoro
opposto al gioco, la necessità opposta alla vita, il quotidiano opposto
alla ricchezza. La ricchezza non è mai necessaria. L’umanità può
sopravvivere senza storia. Gli smarrimenti del cuore e dello spirito
possono andare fino all’oblio del cuore e dello spirito, fino alla
rassegnazione. L’amore e il genio non criticati si sono rarefatti
nell’inflazione dei loro surrogati dallo stesso nome. Nel gioco, non ci
sono lezioni da ricavare più che leggi rispettabili. La ricchezza
pratica, la storia, ha come sola esigenza, limite e principio, la
volontà degli esseri umani — che costituisce il loro gusto per il gioco —
di farla finita.
In definitiva
La storia è il gioco dell’umanità intera e divisa, qui ed ora. Ha per fine la dominanza e la fine dell’umanità e del tempo.
[Diavolo in corpo, n. 3, novembre 2000]
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