venerdì 6 aprile 2012

Dieci pugnalate alla politica


La politica è l’arte della separazione. Dove la vita
ha perso la sua pienezza, dove il pensiero e l’azione
dei singoli sono stati sezionati, catalogati e rinchiusi
in sfere staccate — lì comincia la politica.
Avendo allontanato alcune attività degli individui
(la discussione, il conflitto, la decisione in comune,
l’accordo) in una zona a sé che pretende di governare
— forte della sua indipendenza — tutte le
altre, la politica è allo stesso tempo separazione
tra le separazioni e gestione gerarchica della separatezza.
Così essa si rivela come specialismo,
costretta a trasformare il problema irrisolto della
propria funzione nel presupposto necessario per
risolvere tutti i problemi. Proprio per questo il ruolo
dei professionisti in politica è indiscutibile — e tutto
ciò che si può fare è sostituirli di tanto in tanto.
Tutte le volte che i sovversivi accettano di separare
i vari momenti della vita e di cambiare — partendo
da questa separazione — le condizioni date, diventano
i migliori alleasti dell’ordine del mondo. Proprio
mentre aspira ad essere una sorta di pre-condizione
della vita stessa, la politica soffia ovunque
il proprio alito mortifero.
La politica è l’arte della rappresentanza. Per governare
le mutilazioni inflitte alla vita, essa costringe
gli individui alla passività, alla contemplazione
dello spettacolo allestito sulla propria impossibilità
di agire, sulla delega irresponsabile delle proprie
decisioni. Allora, mentre l’abdicazione alla volontà
di determinare se stessi trasforma i singoli in appendici
della macchina statale, la politica ricompone in
una falsa unità la totalità dei frammenti. Potere e
ideologia celebrano così le proprie nozze funeste.
Se la rappresentanza è ciò che toglie agli individui
la capacità di agire, fornendo loro come contropartita
l’illusione di essere partecipanti e non spettatori,
questa dimensione del politico riappare sempre
là dove una qualsiasi organizzazione soppianta i
singoli e un qualsiasi programma li mantiene nella
passività. Riappare sempre là dove un’ideologia
unisce ciò che nella vita è separato.
La politica è l’arte della mediazione. Tra la presunta
totalità e i singoli, e tra individuo e individuo.

Come la volontà divina ha bisogno dei propri interpreti
terreni, così la Collettività ha bisogno dei
propri delegati. Come nella religione non esistono
rapporti tra uomini ma solo tra credenti, così nella
politica a incontrarsi non sono gli individui, bensì
i cittadini. I legami di appartenenza impediscono
l’unione perché solo nella differenza la separazione
scompare. La politica ci rende tutti uguali poiché
nella schiavitù non ci sono diversità — uguaglianza
davanti a Dio, uguaglianza davanti alla legge. Per
questo al dialogo reale, che nega la mediazione,
la politica sostituisce la sua ideologia. Il razzismo
è l’appartenenza che impedisce i rapporti diretti tra
i singoli. Ogni politica è simulazione partecipativa.
Ogni politica è razzista. Solo demolendo nella rivolta
le sue barriere si possono incontrare gli altri nella
loro singolarità. Mi rivolto, dunque siamo. Ma se noi
siamo, addio rivolta.
La politica è l’arte dell’impersonalità. Ogni azione
è come l’istante di una scintilla che sfugge all’ordine
della genericità. La politica è l’amministrazione
di quell’ordine. «Cosa vuoi che sia un’azione
di fronte alla complessità del mondo?» Così argomentano
gli addormentati nella duplice sonnolenza
di un Si che è nessuno e di un Più tardi che
è mai. La burocrazia, fedele ancella della politica,
è il niente amministrato affinché Nessuno possa
agire. Affinché ciascuno non riconosca le proprie
responsabilità nell’irresponsabilità generalizzata. Il
poter non dice più che tutto è sotto controllo, dice
al contrario: «non ci riesco nemmeno io a trovare
i rimedi, figuriamoci qualcun altro». La politica
democratica ormai si fonda sull’ideologia catastrofica
dell’emergenza («o noi o il fascismo, o noi o
il terrorismo, o noi l’ignoto»). La genericità, anche
quella antagonista, è sempre avvenimento che non
avviene mai e che cancella tutto ciò che avviene.
La politica invita tutti a partecipare allo spettacolo
di questi movimenti da fermo.
La politica è l’arte del rinvio. Il suo tempo è il futuro,
proprio per questo imprigiona tutti in un miserabile
presente. Tutti insieme, ma domani. Chiunque
dice «io e adesso» rovina, con quell’impazienza

che è esuberanza di desiderio, l’ordine dell’attesa.
Attesa di un obiettivo che esca dalla maledizione
del particolare. Attesa di una crescita quantitativa
adeguata. Attesa di risultati misurabili. Attesa della
morte. La politica è il tentativo costante di trasformare
l’avventura in avvenire. Ma solo se «io e
adesso» decido ci può essere un noi che non sia lo
spazio di una reciproca rinuncia, la menzogna che
ci rende l’uno il controllore dell’altro. Chi vuole agire
subito è guardato sempre con sospetto. Se non
è un provocatore, si dice, di certo ne fa i servizi. Ma
è l’istante di un’azione e di una gioia senza domani
che ci porta al mattino dopo. Senza lo sguardo fisso
alle lancette.
La politica è l’arte dell’accomodamento. Attendendo
sempre che le condizioni siano mature, si finisce
prima o poi con l’allearsi ai padroni dell’attesa.
In fondo la ragione, che è l’organo della dilazione
e del rinvio, offre sempre qualche buon motivo per
accordarsi, per limitare i danni, per salvare qualche
dettaglio di un tutto che si disprezza. La ragione
politica ha occhi aguzzi per scovare le alleanze.
Non tutto è uguale, ci dice. Rifondazione Comunista
non è certo come questa destra rampante e
pericolosa. (Alle elezioni non la si vota — siamo
astensionisti, noi — ma i comitati cittadini, le iniziative
in piazza sono un’altra cosa). La sanità pubblica
è pur sempre meglio dell’assistenza privata.
Un salario minimo garantito è pur sempre preferibile
alla disoccupazione. La politica è il mondo del
meno peggio. E rassegnandosi al male minore, si
accette passo per passo quel tutto al cui interno
soltanto sono concesse le preferenze. Chi invece
di questo meno peggio non ne vuole sapere è un
avventuriero. O un aristocratico.
La politica è l’arte del calcolo. Affinché le alleanze
siano proficue, degli alleati bisogna apprendere
i segreti. Il calcolo politico è il primo segreto. Occorre
sapere dove si mettono i piedi. Occorre redigere
dettagliati elenchi degli sforzi e dei risultati.
E a forza di misurare ciò che si ha, si finisce col
guadagnare tutto, tranne la voglia di giocarselo e
di perderlo. Così si è sempre presso di sé, attenti e

pronti a chiedere il conto. Con l’occhio fermo su ciò
che ci circonda, non ci si dimentica mai di se stessi.
Vigili come i carabinieri. Quando l’amore di sé
diventa eccessivo, chiede di donarsi. E questa sovrabbondanza
di vita ci fa dimenticare di noi stessi,
ci fa perdere, nella tensione dello slancio, il conto.
Ma la dimenticanza di sé è il desiderio di un mondo
in cui valga la pena perdersi, di un mondo che
meriti il nostro oblio. Ed è per questo che il mondo
così com’è, amministrato da carcerieri e da contabili,
va distrutto — per fare spazio al dispendio
di noi stessi. Qui comincia l’insurrezione. Superare
il calcolo, ma non per difetto, come raccomanda
quell’umanitarismo che, chiotto chiotto, alla fine si
allea sempre con il boia, bensì per eccesso. Qui
finisce la politica.
La politica è l’arte del controllo. Che l’attività umana
non si liberi dalle pastoie dell’obbligo e del lavoro
per rivelarsi in tutta la sua potenza. Che gli operai
non si incontrino in quanto individui e non cessino
di farsi sfruttare. Che gli studenti non decidano di
distruggere le scuole per scegliere come, quando
e cosa imparare. Che i famigliari non si innamorino
e non smettano di essere piccoli servitori di un
piccolo Stato. Che i bambini non siano qualcosa di
diverso dalla copia imperfetta degli adulti. Che non
si liquidi la distinzione tra (anarchici) buoni e (anarchici)
cattivi. Che non siano gli individui ad avere
rapporti, bensì le merci. Che non si disobbedisca
all’autorità. Che se qualcuno attacca le strutture
dello sfruttamento dello Stato ci si affretti a dire che
«non è opera di compagni». Che le banche, i tribunali,
le caserme non saltino in aria. Insomma, che
la vita non si manifesti.
La politica è l’arte del ricupero. Il modo più efficace
per scoraggiare ogni ribellione, ogni desiderio di
cambiamento reale, è presentare un uomo di Stato
come sovversivo, oppure — meglio ancora — trasformare
un sovversivo in un uomo di Stato. Non
tutti gli uomini di Stato sono pagati dal governo. Ci
sono funzionari che non si trovano in parlamento e
nemmeno nelle stanze adiacenti; anzi, frequentano

i centri sociali e conoscono discretamente le principali
tesi rivoluzionarie. Discettano sulle potenzialità
liberatorie della tecnologia, teorizzano di sfere pubbliche
non statali e di oltrepassamento del soggetto.
La realtà — lo sanno bene — è sempre più complessa
di qualsiasi azione. Così, se auspicano una
teoria totale è solo per poterla, nella vita quotidiana,
dimenticare totalmente. Il potere ha bisogno di loro
perché — come loro stessi ci insegnano — quando
nessuno lo critica il potere si critica da sé.
La politica è l’arte della repressione. Di chiunque
non separa i vari momenti della propria vita e vuole
cambiare le condizioni date a partire dalla totalità
dei propri desideri. Di chiunque vuole bruciare la
passività, la contemplazione e la delega. Di chiunque
non si lascia soppiantare da alcuna organizzazione
né immobilizzare da alcun programma. Di
chiunque vuole avere rapporti diretti tra individui e
fa della differenza lo spazio stesso dell’uguaglianza.
Di chiunque non ha alcun noi su cui giurare.
Di chiunque disturba l’ordine dell’attesa perché
vuole insorgere subito, non domani o dopodomani.
Di chiunque si dona senza contropartita e se ne
dimentica per eccesso. Di chiunque difende i propri
compagni con amore e risolutezza. Di chiunque
offre ai ricuperatori una sola possibilità: quella di
scomparire. Di chiunque rifiuta di prendere posto
nell’innumere schiera dei furbi e degli addormentati.
Di chiunque non vuole né governare né controllare.
Di chiunque vuole trasformare l’avvenire in
una affascinante avventura.


[Da Il pugnale, numero unico del maggio 1996]


--PDF
http://www.finimondo.org/sites/default/files/Pugnalate_0.pdf

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