domenica 30 ottobre 2011

Uno scritto di Michele Pontolillo dal carcere di Bologna


Tératos
Chissà perché mi ero convinto che alla fine di un sofferto pellegrinaggio carcerario mi avrebbe atte-so un lungo periodo di meritato riposo e con ciò non intendo il "dolce far niente" dei poeti ma più prosaicamente la possibilità di condividere quello spazio sociale comune a milioni di esseri umani lantana da galere, tribunali e questure.
Avrei dovuto quanto meno sospettare che qualcuno non avrebbe gradito vedermi circolare libera-mente per le strade, respirare l'aria del mondo o farmi riscaldare dal sole dei vivi. Perché, si sa, u-n'altra aria si respira in carcere ed un altro sole declina sui prigionieri.
Avrei dovuto prevedere che la polizia politica ovvero quel settore della polizia che si dedica alla persecuzione delle idee politiche – e di chi le professa – contrarie ed opposte a quelle che governa-no, avrebbe impiegato tempo e risorse per controllare e all'occorrenza rispedire in carcere una cana-glia come me.
Ignorare la loro presenza è sempre stato il mio modo di manifestare il disprezzo che si guadagnano giorno per giorno.
Con la distanza e il distacco della realtà che l'isolamento può favorire ho cercato di ricostruire i fatti che si sono conclusi con la mia attuale carcerazione, di collegare tutti gli elementi che appaiono prima facie disconnessi e in definitiva di acquisire una visione completa e generale dell'accaduto per avere a disposizione un oggetto facilmente riconoscibile e osservabile teoreticamente.
Senza avere la pretesa di seguire un rigoroso ordine riflessivo la prima considerazione su cui ragio-nare deriva dalla perfetta convergenza, unilateralità e univocità di attuazione della polizia, magistra-tura e mezzi di formazione del consenso e dell'indifferenza di massa,
Quando un vicecommissario della DIGOS, emule del reprobo Joe Petrosino, il più sbirro degli sbirri che la storia ricordi, stringeva intorno ai miei polsi le gelide manette già sapeva, deus ex machina, cosa sarebbe accaduto da quel momento in poi e cioè la certa condanna, la severità del giudice for-mulata in sentenza, il sorprendente interesse della stampa per una non-notizia e il duro trattamento penitenziario che mi attendeva con immediate classificazione in regime EIV (Elevato Indice di Vi-gilanza).
E' difficile allontanarsi dalla convinzione che Ia sceneggiatura fosse già stata scritta a tavolino, che la storia fosse già stata narrata ancor prima che la sequenza dei fatti si dipanasse nella realtà effet-tuale.
Che poteri di diverse natura convergano o si combinino tra loro per dare vita a corporazioni dotate di maggiori attribuzioni e capacità operative non è un fenomeno nuovo o inedito.
La novità risiede nella costituzione di una esclusiva struttura di governo la cui sostanza viene repli-cata nelle diverse forme che la contengono. Si pensi ad esempio all’imperium di cui è investito il Comitato Provinciale per l'Ordine e Sicurezza e al ruolo che svolge nel governo della città e dei cit-tadini.
E' pur vero che questa neocorporazione di poteri pubblici e soggetti istituzionali (Prefetto, Sindaco, Questore, Procuratore della Repubblica, rappresentanti delle associazioni commerciali e imprendi-toriali. ecc.) non ama le apparenze o le esibizioni plateali; rifugge le forme e le denominazioni con-fezionate all'uopo. Preferisce la penombra dei corridoi dei palazzi del potere o la riservatezza degli uffici privati nei quali si stabiliscono le linee di attuazione politica e si prendono le decisioni relati-ve l'applicazione delle distinte fasi programmate.
Se fino a ieri la polizia e la magistratura erano forze organizzate dallo stato e dai privati per tutelare il dominio politico ed economico delle classi dirigenti, oggi si sono convertiti essi stessi in agenti politici che informano e organizzano la società secondo le coordinate ricavate dalla particolare vi-sione del mondo che promuovono.
Forse può sembrare ozioso indicare l'origine etimologico della parola "p o l i z i a". Curiosamente è identico a quello di "p o l i t i c a" dal latino politia e dal greco politeia e cioè le tecniche del gover-nare. Solo con la rivoluzione francese il termine "polizia" viene utilizzato per definire quella autori-tà il cui ambito è costituito dal mantenimento dell'ordine pubblico.
A quanto pare la polizia, oltre a conservare le competenze specifiche attribuitegli dalla modernità avrebbe anche recuperato quelle originarie funzioni di esercizio dei pubblici poteri al fine di fondare un ordine lineare e perpetuo.
L'accentramento e la fusione di poteri è una necessità inderogabile che risponde alle esigenze detta-te dai momenti di crisi strutturale ed egemonica. Questa crisi è facilmente riscontrabile nel deterio-ramento e impoverimento delle condizioni di vita di fasce sempre più vaste della popolazione sul fronte interno, e dal lodo afghano e irakeno che mette in evidenza la sconfitta strategico-politico-militare delle forze imperialiste di occupazione occidentali su quello internazionale.
Quando la classe dirigente non riesce ad assolvere gli impegni presi i governati perdono la fiducia e incominciano a disertare le istituzioni.
La risposta alla crisi di egemonia è data dall'implementazione di un nuovo centro di potere che pone se stesso come un organismo in continuo movimento capace di assorbire e legare a se tutta la socie-tà assimilandola ai suoi modelli e al suo linguaggio. Ciò può accadere – e accade – nel momento in cui la classe politica in quanto tale è più occupata a difendere e tutelare i suoi privilegi di casta che a praticare le virtù pubbliche orfana com'è di nobili ideali e grandi obiettivi che pongono al centro di interesse l'uomo, il suo benessere e la sua felicità. L'attività politica si riduce ad una mera ammini-strazione del presente come se della gestione di un condominio si trattasse.
Ecco che il vuoto lasciato dalla defezione della politica dalla società civile viene occupato prepoten-temente da questo ibrido organo di governo i cui poteri sono devoluti prevalentemente a magistrati e poliziotti i quali godono di ampie prerogative discrezionali e decisionali, dispongono di un preciso progetto politico fondato sulla legge e l'ordine, aderiscono a una visione del mondo manicheista e naturalmente intervengono politicamente nella vita pubblica con gli strumenti che gli sono propri vale a dire i manganelli, le pistole d'ordinanza, il codice penale e la produzione giurisprudenziale.
Di fronte a questo trasferimento di competenze i residui della politica tradizionale non possono non prendere atto delle mutate condizioni e adeguarsi. La comparsa sulla scena politica della figura del sindaco-sceriffo – la città di Bologna vanta un ignobile pioniere – è il risultato teratogeno di questa nuova condensazione di poteri con compiti di governo.
La costituzione di oligarchie corporativiste in tutti i campi delle faccende umane dimostrano quanto il fascismo non sia stato una tappa storica accidentale ma, invero, una necessità riproponibile ogni qualvolta le crisi strutturali lo richiedano.
Più in generale stiamo assistendo ad una riorganizzazione del potere che coinvolge sia gli stati na-zionali sia le strutture sovranazionali e lambisce tutti gli ambiti del dominio sociale, politico, eco-nomico con la formazione di corporazioni che si costituiscono fuori e al di sopra di qualsiasi pro-cesso democratico. Si schiudono cosi le porte a un totalitarismo di nuovo conio.

Habeas Corpus?
Considerazioni di tutt'altro genere prendono spunto dalla asseverata istituzionalizzazione della tor-tura che ha riacquistato, o forse non ha mai abbandonato, una esiziale centralità nell'azione repres-siva.
La trattazione di tale argomento non ha valore di denuncia che, detto sia al margine, non servirebbe a nulla, ma si propone di mettere in evidenza che cosa accade quando il principe veste la divisa del-lo sbirro e indossa la toga del giudice.
Senza scomodare le numerose testimonianze di coloro che il supplizio della tortura lo hanno soffer-to sulla propria carne lacerata dai brutali metodi e strumenti di tormento, vorrei soffermarmi su un aspetto quotidiano dell'azione di polizia noto a tutti e facilmente verificabile da chiunque: il fermo di polizia.
Quando la polizia detiene un individuo per un motivo qualsiasi questi viene rinchiuso nelle camere di sicurezza di una questura, caserma o commissariato che sia. L'impatto che produce sull'arrestato il contatto con queste camere di sicurezza è delle più violente e angosciose. Squallide, luride, op-primenti, fredde, illuminate ininterrottamente da una potente quanto irritante luce artificiale; le pare-ti macchiate da indecifrabili geroglifici disegnati con sangue umano, una sdrucita e maleodorante coperta gettata al suolo, la mancata somministrazione di alimenti sono i segni tangibili dell'oltraggio ripetuto alla persona umana, sono il monumento che celebra 365 giorni l'anno i diritti umani.
Questa situazione può prolungarsi fino a 48 ore trascorse le quali si è messi a disposizione dell'auto-rità giudiziaria. Non occorre descrivere in quali condizioni psicofisiche l'arrestato giunge davanti al giudice.
A prima vista il fine perseguito dovrebbe essere quello di annullare la volontà e di vincere la resi-stenza dell'accusato per impedirgli di esercitare pienamente il diritto alla difesa secondo il suo ra-gionato giudizio a tutela dei propri interessi. Ma il riconoscimento giuridico della facoltà di non ri-spondere mette al riparo da uno strumentale uso illegittimo della propria parola annichilendo la mo-tivazione iniziale. Sembra piuttosto che l'unico effetto cercato e desiderato sia quello di infliggere sofferenze e disagi a titolo gratuito.
Vi sono due principi fondamentali di cui si avvalgono polizia e magistratura per convertire l'abuso, la tortura, la vessazione in prassi consolidata e abituale. Il primo è un significante che ho mutuato dalla lingua spagnola "indefensiòn" tradotto come "indifensione'' poiché esprime in maniera com-piuta il concetto che qui si vuole significare. II secondo è l'impunità.
L'indifensione non è caratterizzata solo dall'inefficacia degli istituti giuridici disposti per la difesa dell'imputato dall'azione penale dello stato ma e anche la negazione di verità inoppugnabili. Come si ottiene questo risultato?
In Spagna, per esempio, la tortura è un fenomeno ormai consuetudinario nelle "comisarias, cuarteles
y carceles". I tribunali sono tempestati da continue denunce depositate dalle numerose vittime di trattamenti degradanti e offensivi della dignità umana ampiamente documentate da referti medici, fotografie, testimonianze dirette ed altro. I giudici di cognizione, per togliersi dall'imbarazzo, com-piono un inverosimile gioco di prestidigitazione; stabiliscono in sentenza che nella "una, grande
e indivisibile Spagna" la tortura non esiste e non può esistere perché la legge (sic!) non la prevede respingendo così al mittente le denunce formulate insinuando inoltre, quale danno che si aggiunge alla beffa, che il vero motivo non dichiarato di coloro che denunciano gli abusi sofferti è quello di infangare il buon nome della nazione. Ecco un chiaro esempio di manipolazione della realtà e di negazione della verità.
Un caro amico ucciso dal carcere, uno dei più spietati luoghi di tortura e di morte, osservava con in-variabile lucidità come le mura del carcere non servissero per separare dalla società chi vi è recluso ma per impedire che la società vedesse quello che accade al suo interno.
In Italia si va oltre. La magistratura italiana è un clan i cui membri sono vincolati dal principio di mutua assistenza e dal principio di omertà. I giudici sanno in virtù di quello che vedono; tacciono a cagione di quello che sentono. Vedono in quali pietose condizioni vengono condotti gli arrestati al loro cospetto; odono i lamenti di coloro ai quali "il demiurgo dal lungo mantello nero" dispenserà giustizia e se ne compiacciono. II loro complice silenzio è tanto criminale quanto i brutali metodi della polizia.
Il giudice italiano è un abile mistificatore. Nella fase di ricostruzione dei fatti processati egli li fa apparire sulla scena in una sequenza che scaturisce dalla sua personalissima immaginazione ma non per questo priva di suggestione e coerenza; assegna una maschera ad ogni personaggio e ne tira fuo-ri un racconto, a volte avvincente, che tutto rispecchia tranne la realtà dei fatti. Per raggiungere l'ef-fetto desiderato si avvale di eleganti eufemismi che ne arricchiscono 1a prosa. L'esercizio della tor-tura praticata dai funzionari di pubblica sicurezza lo chiama: "...eccessivo zelo nello svolgimento delle proprie funzioni; l'uccisione di persone inermi e indifese a mano delle forze dell'ordine le giu-stifica come: "...colpo accidentale esploso dall'arma in dotazione con ferita provocata da fatale de-viazione di traiettoria dell'ogiva"; quando un individuo viene segnalato dallo stato come nemico ir-riducibile da eliminare ad ogni costo, gli si inchioda sulla fronte il cartello di: "... soggetto social-mente pericoloso'' e così via. Tutto questa prende il nome di stato di diritto.
L'altro aspetto considerato è l'impunità. In effetti non esiste nessun dispositivo né civile né penale che sanzioni il cattivo procedere di un magistrato. Egli può violare norme, codici, procedure; può adulterare la verità, inventarsi prove ex nihilo, dare copertura legale alla tortura, condannare inno-centi senza che ne derivi la minima conseguenza. Tutto gli è consentito perché egli non solo è inter-prete della legge ma all'occorrenza è anche legislatore.
L'attività principale dei magistrati e della polizia é quella di coprirsi le spalle a vicenda per poter continuare a commettere ogni classe di nefandezza impunemente. Con perfida circospezione inter-rano le loro malefatte prima che il fetore diventi nauseabondo.
L'aspetto allarmante della tortura istituzionalizzata consiste nel fatto che se un tempo era finalizzata all'ottenimento della madre di tutte le prove e cioè la confessione e l'ammissione di colpa dell'accu-sato adesso si applica per puro sadismo senza altra fine se non quello di infliggere dolore e soffe-renza in chi la subisce.

Sicofanti
Negli ultimi anni si sono verificate numerose operazioni repressive che hanno coinvolto decine di anarchici e anarchiche fatti oggetto delle più svariate accuse molte delle quali con l'aggravante di terrorismo ed eversione dell'ordinamento democratico. Queste operazioni, tuttavia, non hanno una ragione persecutoria e punitiva come potrebbe sembrare a prima vista ma principalmente investiga-tiva.
Ad un sommario esame delle attuazioni condotte dalla polizia politica italiana ai danni di soggettivi-tà e gruppi di movimento ci si accorge immediatamente della povertà degli impianti accusatori ai quali manca l'elemento fondamentale: 1a prova certa della responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio. In altri casi si è verificata una sproporzione esagerata tra i fatti incriminati e l'azione penale applicata, cagionando aberrazioni giuridiche che farebbero impallidire il più forcaiolo giustizialista.
Lo scopo è quello di diffondere rabbia e indignazione tra quei gruppi e individualità che, con gli ar-restati, condividono e partecipano dello stesso spazio politico, aggregativo e affettivo al fine di pro-vocare reazioni, ragionate o inconsulte che siano, le quali verranno immediatamente captate dall'at-tività di monitoraggio della polizia; saranno registrati i movimenti, le pulsazioni, gli sbalzi di tem-peratura.
Ne1 2005, trovandomi recluso nel carcere "Le Sughere" di Livorno, vennero a farmi visita due fun-zionari dell'antiterrorismo, i cui nomi per il momento non voglio ricordare, autorizzati dal decreto dell'allora ministro degli interni Pisanu. Questi "colloqui investigativi" con prigionieri presuntamen-te vincolati a gruppi o movimenti che esercitano violenza politica, perseguivano l'obiettivo di otte-nere qualche informazione utile allo svolgimento delle indagini in corso relative ai gruppi di prove-nienza e magari, perché no, incoraggiare una ignominiosa collaborazione.
Si sa che la condizione di ostaggio conferisce al sequestratore – lo stato – il diritto di proprietà sul prigioniero spogliandolo degli attributi umani e convertendolo in oggetto. Concluso il processo di cosificazione il sequestrato può essere impiegato secondo le esigenze richieste: come merce di scambio, come mezzo di ricatto, per alimentare o sollevare un allarme sociale fittizio, per incremen-tare le statistiche sui suicidi in carcere a quant'altro. Può anche accadere, dunque, di ritrovarsi seduti di fronte a due procuratori di infamie.
Ma Caserio fa il fornaio e non la spia. Questa è la nostra grandezza. La nostra dignità, la nostra one-stà, il nostro orgoglio non si trovano sul mercato.
Tuttavia questa disperata ricerca di informatori, e collaboratori, confidenti denota l'incapacità degli esperti investigatori italiani di procedere alla risoluzione di fatti criminosi attraverso quelle tecniche genuinamente scientifiche di cui avrebbero dovuto sviluppare competenze specialistiche inegua-gliabili.
Se c'e qualcosa che dimostrano i numerosi fatti di cronaca con cui gli avvoltoi dell'informazione confezionano servizi giornalistici carichi di finzione narrativa da dare in pasta al popolo affamato di circo è precisamente questa incapacità che spesso sconfina nell'inettitudine e nel ridicolo.
D'altra parte l'alta percentuale di delitti che rimangono insoluti rappresenta il dato più esplicito.
Unico strumento che si adegua alla professionalità degli inquirenti italiani è il pentitismo nutrito da una abbondante normativa che lo disciplina e lo incoraggia.
La legge sui collaboratori di giustizia abolisce il rapporto delitto-pena premiando con l'impunità i delatori e castigando duramente la coerenza di chi rimane fedele a se stesso. Le procure italiane u-sano e manipolano a piacere i pentiti per costruite la prova di colpevolezza (spesso l'unica) attraver-so le dichiarazioni che nella maggioranza dei casi si rivelano inattendibili e invalidate dalla loro stessa contraddittorietà e falsità.
II fenomeno del pentitismo deriva dallo sviluppo storico della lotta di classe. Non potendo risolvere il conflitto di classe senza sovvertire il proprio ordine democratico, lo stato tenta di incorporare in sé quelle soggettività aderenti ad organizzazioni o gruppi altamente dissolventi e ostili offrendogli vantaggiose e confortevoli condizioni di vita alle quali è difficile resistere se si è sprovvisti di una solida e matura formazione culturale o ideologica. Nei rapporti di forza questo transfughismo, que-sta transazione dal fuori-legge alla legalità dello stato potenzia le classi dirigenti e indebolisce quel-le subalterne affermando in questo modo la supremazia dei governanti e l'assoggettamento dei go-vernati. Ma nella situazione attuale in cui la forza della classe dominante è infinitamente superiore a quella delle classi antagoniste, la guerra che un tempo si proponeva come di classe oggi si presenta come un vero e proprio gioco al massacro dove i ricchi sparano e i poveri accolgono nei loro petti nudi l'acciaio delle pallottole.
In seguito all'esecuzione di stato di un presunto esponente della mafia siciliana il Ministro degli In-terni Giuliano Amato in una dichiarazione rilasciata alla stampa si congratulava con gli assassini di quest'uomo argomentando che "da adesso c'e un mafioso in meno in circolazione'' (La Repubblica, 4/12/07). Mi domando se nella terra dei papi, della proclamazione urbi et orbi della sacralità della vita, della condanna dell'eutanasia, delle crociate contro l'aborto, della moratoria universale sulla pena di morte, un fango come Giuliano Amato può permettersi di applaudire e celebrare la morte violenta di un essere umano. Naturalmente questo è solo un esecrabile aneddoto che esemplifica il grado di ipocrisia che ottunde il sentimento e la ragione di questa società.
Può succedere che canaglie come me, per assecondare l'insopprimibile necessità, per difendere la propria libertà o la vita da attacchi esterni o magari in preda alle effervescenze della follia causiamo dei danni, a volte anche irreversibili, a cose e persone che si pongono sul nostro cammino ma chi arresta, perquisisce, tortura, incarcera, assassina e minaccia la comunità di applicare identico tratta-mento a qualsiasi condotta disubbidiente fa del terrorismo; vero e proprio terrorismo.

Con le armi in pugno
Gli anni trascorsi nel ventre della bestia mi hanno messo nella condizione – mio malgrado – di co-noscere a fondo la repressione; le questioni processuali e quelle penitenziarie, il diritto e l'abuso, il buon senso e la legalità, la banale reiterazione dell'atto burocratico e l'arbitrarietà delle regole.
Non potevo immaginare, invece, come fosse cambiata la vita sulla superficie del mondo. Nuovi bi-sogni, nuovi consumi, antiche abitudini e rinnovate preoccupazioni formano una composizione di-scrasica che rende la società irriconoscibile per chi, come me, ne è stato allontanato per lungo tem-po.
Ben presto quello che nell'immaginario si era delineato in modo confuso e disconnesso veniva as-sumendo ai miei occhi contorni sempre più chiari e nitidi rivelando la portata e la consistenza delle trasmutazioni avvenute nel consorzio umano.
La cosa che più mi ha colpito è stato prendere atto della quantità di gente che lotta per la sopravvi-venza. Senza dubbio i modi di vivere e i comportamenti delle persone si sono dovuti adeguare alla precarizzazione del lavoro e ai disastrosi effetti a esso connessi, primo fra tutti la perdita di un sala-rio garantito che fa registrare repentini sbalzi del reddito individuale o familiare con frequenti oscil-lazioni determinati dallo stato del mercato occupazionale.
Questo adeguamento comporta anche un cambio di percezione che si ha della vita stessa.
Insicurezza, disperazione, solitudine, paura sono le costanti che scandiscono la quotidianità.
II progressive processo di pauperizzazione che riguarda segmenti sempre più ampi della popolazio-ne esclusi dal consumo di massa o il cui accesso è consentito solo attraverso l'artificio del credito con la risultanza di un indebitamento sempre maggiore che agisce come un cappio intorno al collo mette in evidenza il declino di questa società ormai incapace di gestire le crisi che la attraversano. Mi domando se sarà sostenibile ancora per molto una situazione del genere.
Negli anni '70 i proletari impugnavano le armi per molto meno. Interpellare con insistenza quella generazione che per ultima, in ordine cronologico, prese d'assalto il cielo; lasciarmi istruire dalla letteratura partigiana e dalla resistenza antifascista o ancora interrogare la feconda esperienza tra-smessaci in legato dai movimenti operai e rivoluzionari che nel corso del XIX c XX secolo fecero vibrare la terra sono le cattive abitudini che distinguono una canaglia come me. E' come se volessi penetrare lo spirito di ogni epoca storica, cogliere I'essenza, il ritmo nascosto della ragione della passione dell'utopia.
Ciò che la nostra capacità sensitiva suggerisce sotto forma di allucinazione, di timore o di speranza è che qualcosa di importante stia per accadere; che ci si avvicini a passi inesorabili verso grandi tra-volgimenti sociali; che fattori imponderabili faranno virare il corso delle cose in modo inatteso e imprevedibile. Non sappiamo se come rivoluzione a come reazione, l'unica cosa certa e che il ma-lessere è diventato intollerabile e non si vede in questa società nessuna forza che sia capace di miti-garlo.
La storia si è sempre mostrata fedele al ciclo oppressione-ribellione-cambiamento e allo stato non vi è nulla che ne faccia intendere una inattesa interruzione.
L'attuale crisi è permanente, cioè a prospettiva catastrofica. Ce ne accorgiamo da come lo stato tenta di gestirla: smarrimento, confusione, provvedimenti d'urgenza revocati il giorno dopo l'entrata in vigore e soprattutto il parossistico inseguimento di misure repressive come se queste potessero im-pedire la decomposizione della civiltà votata alla morte, ne sono il segno inequivocabile.
Esiste un perfido rapporto tra il deterioramento della qualità della vita e l'aumento della repressione.
E' utile osservare come lavoro e repressione si avviluppano in modo da non poterli più distinguere né differenziare. Non fu la repressione a vincere la resistenza degli operai inglesi all'introduzione delle macchine a vapore nelle fabbriche? Non fu il taylorismo una scientifica combinazione di lavo-ro automatizzato e repressione programmata degli operai al fine di ridurli all'addomesticamento produttivo? Non è sempre la repressione che ha consentito il passaggio dal lavoro garantito al pre-cariato? E ancora oggi sono sempre i manganelli e le pistole d'ordinanza insieme alle galere, ai CPT e ai pacchetti sicurezza gli strumenti utili da un lato per costringere i lavoratori a conformarsi al nuovo tipo di lavoro e di processo produttivo alle condizioni economiche imposte dal padrone e dal-l'altro per annientare quella parte della classe lavoratrice in esubero, che costituisce l'eccedenza di forza-lavoro e che quindi non può essere assimilata in nessun modo. Sembrano trovare compimento le parole di Antonio Gramsci secondo le quali: "avverrà ineluttabilmente una selezione forzata, una parte della classe lavoratrice verrà spietatamente eliminata dal mondo del lavoro e forse dal mondo tout court".
Naturalmente il mio interesse si concentra sulle possibilità reali di attuazione che l'ipotesi rivoluzio-naria conserva nella fase storica attuale.
Quando le cose non vanno bene c'è sempre voglia di cambiamento. II desiderio di azzerare la storia e ricominciare coincide con l'attesa quasi escatologica di quella forza necessaria che sappia condur-ci al punto di inizio di una storia che non era e che non è ancora. "L'idea che la storia ricominci im-provvisamente dal principio, che stia per svolgersi una storia interamente nuova, mai vissuta né nar-rata finora'' (Hannah Arendt) esercita il suo poderoso fascino dal quale è difficile sottrarsi.

Paradossalmente oggi ci sano più motivi per ricorrere e riproporre la lotta armata rivoluzionaria che non nel recente passato. Ma se esistono le condizioni oggettive mancano in assoluto quelle sogget-tive. Non c'é più una classe operaia illustrata; manca il movimento organico permanente, il soggetto collettivo critico che riesca a elaborare la coscienza storico-sociale e sappia risolvere i problemi es-senziali dell'epoca.
Sarebbe oltremodo irresponsabile ignorare come alle spinte rivoluzionarie della decade '60-'70 sia seguita una feroce controrivoluzione che non ha mai conosciuto un riflusso ma, al contrario, si è convertita in irrevocabile e senza soluzione di continuità.
Il presupposto del fatto rivoluzionario radica sull'irreversibilità del processo che ha innescato. Si può parlare di rivoluzione solo quando si giunge al punto di non ritorno – hic rhodus, hic salta – e ci si può arrivare solo moltitudinariamente e cioè attraverso la forza del consensus. Il precipitare degli eventi favorevoli alla rivoluzione è sempre l'effetto di una superiorità fisica, materiale, anzi, ne è la innegabile constatazione.
Ma quale può essere il polo di attrazione, il centro di coesione capace di concentrare e coordinare le forze? Alcune organizzazioni armate attive nelle nostre latitudini sostengono che solo la lotta arma-ta può svolgere il compito di galvanizzare le forze e dirigerle politicamente verso obiettivi di alto valore strategico. L'analisi muove dalla consapevolezza della mancanza di spazi di agibilità politica occupati da questo nuovo Tératos che conferisce poteri illimitati a magistrati e poliziotti impedendo lo sviluppo di istanze politiche anticapitaliste in condizioni pacifiche. La violenza diventa, quindi, il veicolo mediante il quale si esprime la frustrazione di non poter agire diversamente.
Ma all'attenta analisi politica si deve accompagnare anche l'esperienza accumulata fino al momento storico attuale. Se la società è pervasa dallo spirito della repressione come è possibile avviare un processo di accumulazione di forze senza che questo spirito stronchi sul nascere qualsiasi tentativo di azione rivoluzionaria? I fatti dimostrano come queste organizzazioni siano state ridotte ad una logorante lotta per l'autoconservazione che le rende innocue e impotenti sul piano politico.
Allora è ancora il lavoro della talpa verrebbe da dire. Quella che tesse la trama nel sotterraneo, in modo clandestino e che emerge in superficie solo quando ha la forza di misurarsi sul terreno dello scontro. E' il partito o il sindacato che cresce e si sviluppa nella clandestinità in attesa di convertirsi in forza irresistibile capace di avvolgere la società in un abbraccio totalizzante. "One big union" gridavano gli Industrial Workers of the World. Sarebbe così se ancora esistesse una classe omoge-nea con interessi uniformi, problematiche condivise e procedure unanimi.
Il potere dominante, però, non è rimasto con le mani in mano ad osservare immobile come si anda-vano amalgamando le forze sociali che avrebbero significato la sua negazione ma è intervenuto e-nergicamente frazionando in unità infinitesimali le necessità e gli interessi del proletariato e li ha contrapposti scatenando una lotta fraticida. Alla ormai "storica'' guerra dei ricchi contro i poveri bi-sogna aggiungere quella che oppone il povero al povero.
Bandite le utopie, seppellita la cultura di classe, l'aspirazione alla felicità, alla libertà pubblica, il mondo si è convertito in un crogiuolo di dolore e sofferenza fisica e psichica. L'ambivalenza tra re-altà dolorosa e desiderio di fuga e di rimozione delle cause che la presiedono pone al centro di inte-resse la necessità di dare una definizione all'indeterminatezza dei percorsi di liberazione.
Se il fuori da sé dell'uomo è invaso dal vigile controllo della repressione allora la forza di radunare la moltitudine e mobilitarla rivoluzionariamente dovrà essere cercata per forza di cose in sé.
Rousseau indicò due forze che caratterizzano la natura umana: la passione cioè la capacità di soffri-re e la compassione cioè la capacità di soffrire con gli altri. La capacità di comunicare la propria sofferenza e di comprendere quella degli altri attinge direttamente dalla sfera dei sentimenti, delle emozioni ovvero dalla sublimazione dell'interiorità dell'uomo.
Il grado di empatia stabilisce e rafforza il legame naturale tra gli uomini.
Quando la sofferenza agisce si trasforma in rabbia, la compassione in solidarietà. E la sofferenza, una volta trasformata in rabbia può scatenare forze travolgenti. Invero, non è la compassione che si lancia nell'azione per cambiare le condizioni del mondo al fine di alleviare le sofferenze umane "ma se lo fa respinge i processi della legge e della politica e presta la sua voce agli stessi uomini che sof-frono e che devono pretendere un'azione veloce e diretta ossia l'azione per mezzo della violenza'' (Arendt).
Si pensi all'esordio della rivoluzione francese. L'azione iniziale dei rivoluzionari parigini non si concentrò sui granai, la proprietà dei mezzi di produzione o le lussuose dimore dei nobili ma fecero irruzione nel recinto del carcere della città con il proposito di raderlo al suolo. La Bastiglia non era solo il simbolo dell'oppressione ma era il luogo fisico, concreto, tangibile dove nell'infinito tempo carcerario si consumava e riproduceva l'afflizione degli esseri umani. Ad un certo punto le grosse mura del carcere non furono più in grado di contenere le sofferenze del popolo francese. Ecco per-ché quando il re Luigi XVI esclamo: "ma questa è una rivolta!'' il suo segretario gli rispose "no Sire, è una rivoluzione''. Questa violenza, dicevamo, che esplode e rapidamente raggiunge l'obiettivo fi-nale è l'unica che può essere qualificata come autenticamente rivoluzionaria.
Che vengano dunque le manganellate, le torture, i fine-pena-mai, i CPT, gli infortuni e le morti sul lavoro, sulle strade, tra le pareti domestiche della psicotica quotidianità. Quando toccherà a noi spazzeremo via tutto ciò che causa inutile sofferenza e ne cancelleremo il vile ricordo.

Mediterraneo
In una occasione mi trovavo allo stadio per assistere ad un torneo di calcio quando la curva, in coro, incominciò ad intonare 1o slogan: "NOI NON SIAMO POLlZIOTTI". Chiunque e in grado di co-gliere il significato e le implicazioni che contiene questa frase. Noi non siamo poliziotti non ha sol-tanto un significato negativo e cioé non vuol dire solamente noi non spiamo la vita della gente, noi non commettiamo abusi e prevaricazioni forti della superiorità numerica, noi non facciamo del so-spetto e della delazione le nostre regole di vita, ma e anche un grido di delegittimazione dell'autorità costituita.
La ripresa della crisi del principio di autorità in fase di acutizzazione conduce inevitabilmente al momento in cui la moltitudine, simultaneamente e unanimamente, decide di non ubbidire più. II processo delegittimante restituisce il potere originario all'individuo ceduto coattivamente al principe e lo mette nella condizione di agire illimitatamente. Questa illimitatezza, però, non è data dalla sin-gola potenza ma da quello spazio pubblico dove gli uomini si riuniscono e si legano tra loro con promesse, accordi e impegni reciproci.
Quando si parla di rivoluzione qualsiasi argomento risulta insufficiente, inadeguato. E' un concetto straordinariamente ampio, è un'ipotesi che non può essere definita teoricamente una volta per tutte, refrattaria com’è alle rigide regole della logica. Indeterminatezza, imprevedibilità, varianti scono-sciute, potenza misteriosa e incontrollabile sono gli unici sostantivi applicabili alla rivoluzione. No-nostante tutti gli sforzi per tradurre l'immaginazione in prassi, non è mai possibile scongiurare il ri-schio di "inseguire un fantasma e abbracciare una delusione" (Mumford Jones).
Realtà o delirio? Possibile o improbabile? Adesso o mai più?
La consapevolezza di tale ineffabile grandezza non liquida in assoluto la questione. Numerosi sono i problemi teorici e pratici che reclamano soluzioni convincenti. Anche se la passione e la compas-sione fossero in grado, esse sole, di costituire il soggetto rivoluzionario questi non potrebbe agire senza aver elaborato previamente un progetto compatibile con la fallibilità e la fragilità umana e cioè privo di irreversibilità ma mutevole e perfettibile sotto il costante impulso dei tempi e delle cir-costanze. E poi ancora il superamento della rappresentanza, le modalità di partecipazione diretta al-la vita pubblica, 1'abolizione dello sfruttamento, l'applicazione di nuovi modi di produzione e ripro-duzione della vita ed altra ancora.
Se ne può parlare adesso o sono temi da rimandare inevitabilmente ad un tempo e uno spazio inde-finito? A mio modesto parere la parola deve essere restituita alla collettività umana ricucita dagli strappi che la mantengono disgregata che nel suo stare insieme, nel suo ininterrotto discutere, con-frontarsi, sperimentare individua e riconosce i problemi e convoca tutti a risolverli.

La rivoluzione ha bisogno di consenso. Le faziosità, i particolarismi settari del gruppo autoreferen-ziale sono utili solo ad allontanare ancora di più il pericolo rivoluzionario.
Il mio invito rivolto a tutti indistintamente si limita ad una semplice, chiara esortazione: incomin-ciamo a parlare di cosa vogliamo, come lo vogliamo e in che modo pretendiamo ottenerlo.
Aprire una fase di chiarificazione estesa a tutte le soggettività individuali e collettive antagoniste al-l'attuale stato di cose diventa necessaria se lo scopo perseguito è quello di rilanciare la prassi rivolu-zionaria partendo dalla fondazione di un nuovo inizio. Tra il punto di partenza e l'obiettivo finale si distribuiscono in rapida successione obiettivi parziali che devono essere raggiunti e superati. Nella capacità di segnalare i veri obiettivi, quelli consustanziali al funzionamento del sistema, e di conver-tire ogni lotta in un successo, risiede la forza e la possibilità di crescita del movimento in divenire.
Bisogna individuare lo spazio in cui avviare questo auspicato processo di chiarificazione ovvero stabilire il campo del confronto e della discussione. Navigando tra i ricordi del compagno Catalano Luis Andres Edo formidabilmente intrecciati nella raccolta di memorie: "La CNT en la encrucijada'' mi sono imbattuto in una definizione che ha catturato poderosamente 1a mia attenzione. Luis A. Edo racconta di come, in fuga dalla repressione franchista in Spagna, riparò a Parigi dove incontrò il Mediterraneo. A cosa si riferisce? I superstiti delle formazioni politiche e sindacali rivoluzionarie spagnole sconfitte nella impari guerra contra il nazional-cattolicesimo di Francisco Franco sostenu-to dai più temuti regimi totalitari tedesco e italiano si esiliarono in Francia con il proposito di ri-comporre le forze e organizzare la resistenza antifranchista.
Gli esuli spagnoli diedero vita a numerose assemblee disseminate nelle maggiori località francesi ovvero fondarono spazi di incontro e di discussione aperti a tutti gli antifranchisti al fine di articola-re risposte alla gravosa domanda: che fare? L'assemblearismo funzionò come metodo esclusivo di formazione di militanti tanto sul piano teorico come su quello pratico ma non solo.
L'assemblea era sì il foro in cui le idee trovavano legittima formulazione e compiutezza sottoposte alla implacabile critica del dibattito pubblico ma fungeva anche da nucleo deliberativo che promuo-veva e invitava all'azione.
In altre parole i combattenti spagnoli esiliati scoprirono nell'assemblearismo un energico strumento rivoluzionario che esprimeva la loro identità, il loro essere e sentirsi rivoluzionari in qualsiasi parte del mondo; scoprirono il Mediterraneo. Ma fu l'assemblea un fenomeno esclusivamente spagnolo contestuale alle particolari condizioni politiche dell'epoca?
Senza sconfinare nell'indagine storica ho percorso a ritroso la memoria – questa volta la mia – alla ricerca di similitudini anche ipotetiche nel mio vissuto e ho ritrovato l'assemblea ovunque. Nelle scuole e nelle università occupate, nei centri sociali, nelle lotte sindacali operaie, nelle prigioni, in Val Susa, a Vicenza e nei comuni del napoletano sommersi dalla spazzatura. Ad ogni incipiente processo di lotta l'assemblea si presenta fin dal principio come naturale ambito di incontro, di di-scussione e di decisione.
Il profumo del Mediterraneo penetra irresistibilmente nei nostri corpi, nelle nostre menti e si insinua intuitivamente nei nostri modi d'agire.
Rielaborare il concetto e la pratica dell'assemblea significa stabilire un filo di continuità, lanciare una testa di ponte tra il passato e il presente recuperando tutto ciò che di positivo ha prodotto il mo-vimento rivoluzionario locale e internazionale.
L'assemblearismo contiene in sé il superamento della rappresentatività e dell'autoritarismo. In un certo senso l'assemblea sarebbe l'elemento fondamentale e costitutivo della nuova società, che la in-forma e la istruisce. Per usare un linguaggio tipicamente giudiziario si può dire che interpreta la funzione di mandante ed esecutore materiale del mondo che siamo riusciti ad immaginare. Luis A. Edo propone il transito dalla demo-crazia (autorità del popolo) alla demo-acrazia (popolo antiautori-tario) nel quale si identifica l'assemblearismo scevro dalla pachidermica rigidezza delle strutture or-ganizzative che in quanto tali contengono il germe dell'autoritarismo e che dovrebbe rappresentare, invece, il libero fluire della vita, il movimento incostante e ondulatorio dei percorsi di libertà e di liberazione.

Per I'abolizione dell'ergastolo
Per l'abolizione delle pene
Per l'abolizione delle galere

Finito di scrivere nel mese di gennaio dell'anno 2008 nel carcere "La Dozza" di Bologna

Michele Pontolillo

http://www.senzacensura.org/public/arkivio/IT_46_IM05_04052008.htm

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