martedì 29 novembre 2011

Comunicato Angela Maria Lovecchio Carcere di Rebibbia (Roma), maggio 2004


Carissimi compagni e compagne, uno scritto per rispondere ai tanti che in vari modi mi sono stati vicini prima e dopo quel fatidico giorno del 20/04/2004. Uno scritto perché scrivere a tutti, singolarmente o alle varie realtà, mi sarebbe impossibile in tempi brevi e questo è l’unico modo che mi viene in mente per poter raggiungere il mio scopo tempestivamente. È una favola quella secondo la quale nelle galere si ha tempo per fare molte cose che là fuori non è possibile fare a causa dei tempi stressanti che si è quasi costretti a seguire. In carcere il proprio tempo è scandito dalle infinite interruzioni burocratiche e di routine quotidiana. Oltre alla necessità di vivere i rapporti con le altre detenute durante le ore di, cosiddetta, socialità che ci sono concesse. Le sensazione è che il proprio tempo lo devi faticosamente conquistare. Le lettere, i telegrammi, i contributi economici, l’affetto e la solidarietà sono fonti inesauribile di forza e sostegno per coloro che vivono questa condizione di costrizione assoluta. Assoluta nel senso che così come è vero che fuori di qui gli spazi e le libertà individuali e collettive lasciano sempre più a desiderare è altrettanto vero che qui la repressione si esprime e manifesta in tutta la sua vile forza. Voglio dire a tutti che sto benone e che troverò il modo di occupare questo tempo nella maniera più proficua possibile per la mia mente e la mia psiche. Poche parole a riguardo della sentenza. Nove anni di inutili dibattimenti procedurali, di inutili difese (non vuole essere alcuna critica negativa all’operato degli avvocati). Man mano che si procedeva si evidenziava sempre più chiaramente il disegno politico e lo scopo del potere. La ragion di stato, si sa, smussa tutte le eventuali discordanze, disistime, antipatie, divergenze tra i vari rappresentanti del potere giudicante e quello investigativo. Così, senza alcun dubbio, al P.G. Antonio Marini non è stata riconosciuta alcuna particolare capacità, intelligenza investigativa. A conti fatti non ha assolutamente nulla di cui andare fiero considerate le svariate volte in cui, durante le udienze, le corti giudicanti gli hanno vivamente ed accoratamente suggerito ed anche imposto di non esagerare con i suoi sporchi giochi e con le sue prolisse requisitorie (ovviamente tali inviti rientravano in un’etica professionale giuridicamente corretta). Alla fine del primo grado le sibilline motivazioni della sentenza ponevano le basi per un’ulteriore e più grave interpretazione nel giudizio del secondo grado di appello. Forse aspettavano che i tempi fossero più maturi o forse, semplicemente, un’ulteriore esempio di “Pilateria”: in fondo dei 54 imputati ne andavano assolti 44 e non riconoscevano né i reati associativi né la banda armata. Certo era che gli organi repressivi, in difesa del dio Capitalismo, ai Suoi soprusi, alla Sua ambizione ed avidità ciò che occorreva era porre una pietra. Una pietra pesante come una sentenza per associazione eversiva e banda armata agli anarchici, lì posta a mo’ di solide fondamenta per una serie di indagini in corso. Fondamenta necessarie a garanzia di ulteriori attacchi controrivoluzionari. A garanzia delle tante indagini in corso ed inchieste con l’accusa del 270 e il 270bis, appioppate senza senso a tanti individui e compagni. Nulla che sorprende, dunque, nulla di cui rimanere sbalorditi, tanto meno durante la giornata del 20 aprile 2004 quando, cioè, una corte di cassazione, composta da individui (i compagni che erano lì condivideranno, credo, la sensazione) dall’aspetto truce ed arcigno, liquidava frettolosamente la tediosa questione. La prima cosa che ho pensato, entrando in quella monumentale aula (così come monumentale è tutto quell’edificio-mausoleo: pesante, marmoreo, obsoleto così come ciò che rappresenta), è stata che le nostre vite rischiavano di subire un duro colpo che veniva inferto da un vero e proprio Tribunale dell’inquisizione. “Il nome della rosa” sembrava un film per ragazzi a confronto. Ed infatti il duro colpo è stato sferrato: le condanne sono state confermate con quella “serietà” che appartiene a quel tipo speciale di persone avvezze all’aridità. Sono stati regalati ergastoli e decine e decine di anni in poco più di tre minuti. BENE… BRAVI!!!… Che miseria, che omertà. Complici e fiancheggiatori di strategie stragiste e di guerra, di dure repressioni contro chi lotta per i propri elementari diritti. Sordi e ciechi di fronte all’avvilimento progressivo, in atto da anni, di ogni dignità umana ancora una volta con indifferenza e sollecita consuetudine. Hanno accusato, giudicato, assolto, condannato. Non una ruga in più nelle loro espressioni, alcun incrinamento nella loro voce. Routine, normale routine. Nulla di cui meravigliarsi dicevo, per chi come me ha sempre pensato che il diritto fosse palliativo utopico propinato agli sfruttati, arma degli sfruttatori. Nulla da eccepire in “lor signori”, solo la necessità di ribadire alla mia gente che non è mai questione di colpevoli o innocenti (montatura o non) ma solo di estranei. Ed io sono, per l’appunto, estranea alle loro accuse, ai loro “metri di giudizio”, alle loro logiche, ai loro giochi politici, alla loro guerra, ai loro interessi, alle loro ambizioni, al loro agire, al loro pensare, al loro non sentire. Nulla di loro mi appartiene e mai desidererei avere. I loro giudizi, le loro certezze ed assolute (in realtà quanto mai fittizie) verità sono solo loro e che se le tengano ben strette tra le loro mani. Che duro colpo li aspetterà quel giorno in cui aprendole le ritroveranno vuote ed aride come i loro cuori e le loro menti avvelenate dall’avidità di potere. Noi siamo nelle loro gabbie, loro come ragni impazziti si autosvuoteranno e un giorno ne rimarrà solo la vuota carcassa appiccicata alla loro stessa ragnatela che in molti spazzeranno via.
Un abbraccio forte, per la libertà di tutte e tutti.


http://www.ecn.org/filiarmonici/lovecchio-0405.html

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