martedì 26 luglio 2011

Appunti sulla necessità e il desiderio di appiccare il fuoco alla post-modernità


Laboratorio di Ricerche Sovversive UHP

Siamo convinti che l'asse attorno al quale ruota oggi la società postmoderna non sia più la produzione, bensì la comunicazione (intesa come trasferimento di informazioni) e la sua velocità di diffusione. Il passaggio da un tipo di società ad un’altra si ha quando non è più possibile parlare della storia come di qualcosa di armonico, quando gli avvenimenti smettono di essere ordinati attorno a un dato fondamento. S'infrange di conseguenza quel racconto che organizzava lo spazio avendo come soli riferimenti l’Occidente (o un dato Occidente, se si preferisce) e il tempo sulla base di una concezione lineare della storia unitaria… la totalità cede alla frammentazione, alla dissoluzione dei centri. Questa attenzione al fenomeno di dispersione, all’addio alla storia hegeliana verso un traguardo finale riconoscibile, e la disintegrazione delle legittimazioni moderne che ne consegue, sono le ossessioni dei pensatori che parlano di post-modernità.
Una delle trasformazioni fondamentali generate da questo passaggio riguarda il sapere: mentre nella modernità il sapere è associato alla formazione del soggetto, nella post-modernità diventa un prodotto in offerta, presente sul mercato e pronto per essere consumato. Visto che, come si è detto, la società postmoderna è la società della comunicazione, anche il sapere sarà definito in base ai parametri di tale processo il cui valore fondamentale è il valore di scambio. Già nella precedente fase storica, con il predominio assoluto del pragmatismo (il che equivale a dire che la legittimità di un’azione è data unicamente dagli effetti che produce, ovvero: con un linguaggio ricercato i padroni parlano di performatività), il sapere si costituisce come forza principale di potere, come strumento di controllo della paura e delle relazioni tra individui e gruppi all’interno del sistema.
Non potendo ovviamente esistere una comunicazione imparziale e orizzontale (proprio perché si deve combattere, condizione necessaria per porre fine all’alienazione) in una società performativa, le relazioni tra gli individui finiscono per espletarsi in modo che dietro ogni messaggio diffuso si nasconda una data giocata, essendo la competizione una relazione determinante tra i distinti giocatori. Le giocate sono strategie per vincere, i giocatori non sono che semplici concorrenti e gli atti comunicativi, per farla breve, non sono che atti pragmatici. Ciò che realmente conta è l’efficacia sprigionata da ogni singola azione… se si è qualcosa, lo si sarà per i benefici che ne derivano e non per il piacere di esserlo.
In questo contesto, una delle cose che più ci interessano è che la tecnica si rivela un modello di performatività, il sapere premiale è un sapere applicato ed esperto produttore di merci (nel senso più ampio del termine e non solo come beni materiali) in funzione della sua operatività. Questo tipo di sapere è totalmente scisso dalla vita quotidiana, ci è estraneo e annichilisce quella capacità che un tempo avevano gli operai di intuire direttamente dal proprio posto di lavoro la possibilità di autogestire la vita intera; in definitiva, il sapere con cui ci relazioniamo permette la divisione della società tra chi decide e chi esegue, sottile sfumatura dell’eterno rapporto tra sfruttatori e sfruttati: cosa che rende possibile, a chi detiene il sapere, di dettare gli ordini. Il ferro e il sangue provocavano indignazione e rivolta; l’anestesia informativa, la miseria super-attrezzata o la grigia routine del lavoratore danno vita a un pianeta da sfruttare abitato da zombie. La relazione descritta sradica il rischio dell’azione, dà ad intendere che sia la necessità a dominarla, assimilandola infine alla produzione. La tecnica è evidente: l’azione deve essere diretta a produrre qualcosa nel modo più efficace e redditizio. Separando sempre più il sapere dal fare, comanda chi è efficiente, non più l’«io penso», ma l’«io posso».
Nella cosiddetta post-modernità, la tecnica è diventata un sistema autonomo che nel suo progredire ha seguito esclusivamente le proprie leggi. Mentre la performatività, che ne è l’elemento chiave, è un sistema prestabilito i cui progressi sono totalmente determinati… ancora una volta, la storia contraddice coloro che si sono adoperati — e che tuttora si adoperano — a proclamare il carattere liberatorio della tecnica: lungi dal realizzare qualsiasi funzione di emancipazione, si è incaricata di soggiogare l'umanità sotto i suoi precetti di efficacia e di profitto. Anche se lo sviluppo tecnologico crea strumenti che possono essere utilizzati nei processi di liberazione, ciò non significa che questo stesso sviluppo renda possibile la distruzione del sistema che lo ha propiziato. I diversi processi di sviluppo tecnologico degli ultimi 70 anni sono appunto quelli che si sono fatti carico di ridefinire e ottimizzare i meccanismi di sfruttamento e dominio. L’analisi di questi processi diventa imprescindibile all’interno dello scontro sociale, nei percorsi del conflitto si dovrà considerare — per esempio — che i continui progressi tecnologici non puntano tanto alla fatturazione quanto allo sviluppo dei mezzi per il controllo sociale e la produzione immateriale che permette la (sempre presunta, ma finora devastante) espansione senza limiti del capitale.
Se è vero che ciò di cui ci occupiamo non è altro che la lotta storica tra possessori e spossessati, bisognerebbe attenersi alla realtà attuale per cui le classi dominanti non sono tali per il possesso dei mezzi di produzione e di ingenti quantità di beni, quanto perché detengono una conoscenza specialistica che consente loro di partecipare al funzionamento del potere. Questa conoscenza tecnologica lavora per la riduzione del potenziale reale di comprensione degli sfruttati (gli esclusi, in fin dei conti, da questa conoscenza), per la creazione di un individuo operativo che sappia cosa fare all’interno del rifugio concessogli dal capitale, ma che non vada oltre… ovvero: che lavori per il perfezionamento dello spettacolo, per una società falsificata costruita su immagini, nella quale la sottomissione dell’uomo si raggiunge mediante appagamenti che sono solo riflessi banali e distorti della vera soddisfazione di vivere una vita non governata da alcuna autorità. D’altra parte, gli effetti dell’abuso sfrenato che i padroni fanno dello sviluppo tecnologico ha evidenti e disastrose conseguenze sull’habitat umano. Consideriamo così che entrambe le caratteristiche di questa conoscenza — sia il suo contributo all’alienazione che lo sfruttamento selvaggio dell’intero pianeta — non sono mere conseguenze risultanti dal suo «cattivo utilizzo», ma bensì componenti essenziali della definizione del sistema tecnologico. Per questo non crediamo nel suo riciclaggio e ancor meno nella sua potenzialità redentrice…
Non lasciamoci ingannare: di fronte alla logica del sistema non si potranno opporre i suoi stessi prodotti. Le innovazioni tecnologiche di per sé non porteranno ad una crisi della cultura occidentale ma sicuramente ad un suo rafforzamento, se non all’annientamento del pianeta stesso. Introdotto nel XXI secolo, pare che il cyborg non sia stato il biglietto da visita dell’incubo postmoderno — proprio come alcuni pensatori ipotizzarono —, quella predizione omise che la tecnologia esistente ha un suo linguaggio, e che questo — indipendentemente dal fatto che ad utilizzarlo fossero dei soggetti rivoluzionari — è stato ideato per apportare il maggior numero possibile di benefici al potere. Perciò: proprio perché nel regno della performatività non esiste innocenza, affermare che il potenziale tecnologico è il mezzo che innescherà la caduta del Tutto e della sua omogeneità, è un atto di interessata ignoranza… chi nella lotta anticapitalista ripone tutte le sue speranze nelle macchine, ignora che il mondo postmoderno (così definito in base ai parametri che abbiamo cercato di spiegare) mai innescherebbe una potenza che potrebbe significare la sua stessa distruzione.
La vera sovversione consiste nel cercare quel futuro imprevedibile in un tempo in cui si pretende di prevedere tutto, consiste nel trovare precisamente ciò che sfugge al programma delle loro macchine. In questa guerra contro la totalità si darà un valore d’uso a tutti quei materiali che sono suscettibili d’essere utilizzati nel nostro assalto al cielo… stavolta non cadremo negli errori del passato, per cui non sacralizzeremo nessun mezzo di cui ci approprieremo (né la benzina e il fuoco, né le radio libere, né le occupazioni, né l’informatica...), solo così non creeremo un nuovo ghetto dal quale non poter uscire — grazie alla cecità accettata ancora una volta per illuderci. Non dipendendo strategicamente da nessun elemento chiave, essendo capaci di giocare con tutti, saremo più forti e nel momento dell’attacco le nostre possibilità si moltiplicheranno.
Dall’altro lato combatteremo la specializzazione dentro noi stessi, dato che non lasceremo nelle mani di nessun tecnico la nostra capacità offensiva.
Poiché al giorno d'oggi ciò che legittima non è l’argomentazione che convince ma il potere che funziona, non è errato affermare che sbaglia chi ancora difende il dialogo e il consenso. La società in cui ci troviamo non è una conseguenza della capacità di dialogare e di argomentare delle donne e degli uomini, e allo stesso modo la sua fine non avverrà grazie a questa capacità. Il consenso oggi lo stabilisce il corretto funzionamento del contesto capitalista, non viene accettato perché si è riflettuto e si è giunti alla conclusione che sia “buono”, ma perché le leggi del sistema in cui si è generato lo fanno funzionare senza che ci si ponga domande. L’avanzamento e il consolidamento dell’incubo orwelliano si confermano nel dispiegamento che gli strumenti capitalisti e la loro propaganda hanno realizzato per affermare che, con la caduta del muro, il 1984 non ci potrà mai essere. Come se parlassimo di un amore da adolescenti, oggi è già 1984, e senza dubbio lo è meno di domani. La democrazia, valore assoluto e indiscutibile della società postindustriale, non è che un risultato delle dinamiche del mercato e delle soluzioni scelte per la soddisfazione dei suoi bisogni (dei quali la prima è la stabilità, che presuppone l’ineludibile soppressione della minaccia proletaria). Cosi funziona il pragmatismo mercantile: l’equilibrio si ottiene con l’eliminazione delle differenze, tanto più sono omogenei gli elementi che compongono la società, meglio funziona.
Una teoria e una pratica rivoluzionarie devono comprendere il mondo con cui si scontrano per essere capaci di far saltare in aria le sue contraddizioni e generare situazioni che ne permettano la distruzione. Viviamo nel mezzo di un flusso convulso di immagini nelle quali non c’è niente da vedere, viviamo in un sistema che funziona meno grazie al plusvalore della merce che al plusvalore estetico del segno. La realtà è un andirivieni di rappresentazioni che sembrano condannare l’uomo all’apatia più pura, che lo ipnotizzano mentre lo mutilano, che rendono impossibile lo sviluppo della sua autonomia. Il nostro proposito dev'essere quello di innescare conflitti che pongano la capacità di comunicare al di fuori di tutti questi codici già codificati, di propagare all’interno dell’organizzazione sociale esistente una massa di desideri che essa stessa non sia in grado di soddisfare.
Per ciò, ci pare chiaro che il mondo che vogliamo affossare bisogna smettere di affrontarlo con i suoi stessi termini. Chi ancora si ostina in questa direzione dopo tanti colpi subiti, lo può fare solo per due motivi: o sta tentando di scalare l’organizzazione sociale e raggiungere alcuni privilegi grazie alla sua condizione di dissidente (e sappiamo bene da che parte stia e ciò che merita), oppure è un ignorante che non conosce una premessa fondamentale della rivoluzione: Il potere dialoga solamente con ciò che possiede.
Le nostre possibilità di vittoria richiedono la messa in gioco di un linguaggio e di una logica propri, in modo da dar vita ad un discorso di verità che si configuri come contro-potere e totalmente differente dal discorso totalizzante. Tra i due non potrà esserci nessun tipo di dialogo o di accordo, e non essendoci alcune analogia non c’è possibilità di comunicazione. Il risultato — che spaventa solamente chi ha paura — non può essere altro che lo scontro tra i soggetti in rivolta, armati in un processo di autovalorizzazione che hanno avviato e la prepotenza totalizzante della realtà del consenso. Questo scontro potrà solo significare rottura, sezionamento, senza la minima possibilità di riforma e di miglioramento... vale a dire: violenza, sabotaggio, poesia. L’uso della differenza è la via di fuga che ci permetterà di uscire da questa realtà consensuale.
L’attivazione del dissenso segna una rottura con l’angoscia di una società in cui l’autoalienazione è diventata regola… vivere con la consapevolezza di essere coinvolti in una guerra sarà sempre meglio che esercitare la professione di esistenti, che vivere un tempo del quale si desidera solamente la fine. Rispondiamo con un ardente sì a questa domanda che parte dalle nostre teste: Ci può essere vita prima della morte?
Di fronte alla totalità, solo con la crudeltà si potranno avviare percorsi di liberazione e piacere.
Conosciamo già il discorso che va di moda (made in Italy), che etichetta frettolosamente la necessità dell’insurrezione con la locuzione qualificativa «metafisica della violenza»; proprio coloro che più si richiamano alla complessità della società attuale sembrano essere quelli che ostentano una maggiore "semplicità" mentale… per quanto possano parlare a vanvera i vari leader dei forum sociali e i giullari mascherati, o quegli intelligenti articoli che scrivono glorie intellettuali di rivoluzioni passate — in un desiderio smodato di avere un ruolo oggi — non rinunciamo alle nostre possibilità e potenzialità. Non accetteremo il pacifismo radicale, né la non-violenza della società civile, né la resistenza legalitaria per la democrazia, né simili sciocchezze. La violenza non è nulla, tanto meno un’etichetta: è qualcosa che è sempre esistita, insieme a noi. Per lo più l’abbiamo sofferta, e alcune volte l’abbiamo utilizzata, come difesa, come attacco; essa stessa sfugge ai presunti discorsi morali di chi vuole incanalare la rivolta ovunque si verifichi. È qualcosa che è insito in noi e che perciò non rigettiamo come non rigettiamo l’uso del nostro intelletto o della nostra malconcia creatività. Manca solo questo…amputarci sempre di più, riprodurre in modo autonomo (sarà questa l’autonomia tanto ricercata dai leader no-global?) la mutilazione capitalista. Noi non adoriamo la violenza, non ci masturbiamo davanti a pistole e a bombe, e tanto meno crediamo che una banda armata possa trasformare il presente. Riteniamo però necessaria la massima efficacia nell’uso delle nostre forze per distruggere questa realtà.
In effetti è ora di fare delle distinzioni nette e mettere in chiaro una volta per tutte chi è per la distruzione del capitalismo e chi no. Bisogna smascherare tutti i falsi detrattori della civiltà borghese... opportunisti, negoziatori, apprendisti politici, neo-socialdemocratici, pompieri…e non lo faremo perché abbiamo la verità in tasca o perché pensiamo che le loro “lotte" non siano valide, ma perché li consideriamo direttamente ingranaggi partecipi e coscienti del miserabile sistema che combattiamo o, il che è lo stesso: non crediamo neanche che “lottino” contro qualcosa. Lo affermiamo senza esitazione, sono nostri nemici.
Aveva ragione chi ha detto che la passività ha sempre avuto bisogno di guide e di esperti: chi strilla che comunque non è tempo di rivolta, ci rivela in anticipo la società per cui sta lavorando. Sappiamo, perché la storia — quella che ci riporta lontano nel tempo e quella più recente — ci chiarisce bene da che parte stanno, che al momento giusto e in condizioni propizie (se capiscono cosa possono ricavarci) ci venderanno a giudici, giornalisti e poliziotti senza il minimo scrupolo.
Esageriamo?Aprite gli occhi signori! e potrete vedere tutti questi ribelli sociali che decantano l'eccellenza e la bontà di lotte violente e armate lontane nel tempo o nello spazio (o nel tempo e nello spazio simultaneamente) criticare e denunciare pratiche rivoluzionarie che si sviluppano nelle loro città, nei loro quartieri, operando distinzioni tra violenti e non violenti, tra innocenti e colpevoli, tra proteste legittime e illegittime. Sono i lacchè più efficienti, che a volte si spingono anche oltre il semplice distinguo fino a svolgere vere compiti di polizia, per la televisione, la radio e la stampa… sono coloro che spianano il cammino alla repressione e meritano solo il nostro disprezzo e la nostra rabbia, a parte tutto il resto. La nostra creatività ha il bel compito di riesumare vecchi conflitti mentre ne fa uscire altri nuovi dalla manica ed è consapevole che lavorando al limite del pragmatismo post-moderno viene concepita in chiave di illegalità: accettiamo di buon grado il fatto che siamo criminali e prepariamoci ad agire come tali. Non ci addentreremo nella farsa dell’auto-giustificazione in nessun modo, non dobbiamo rendere conto dei nostri desideri di fronte a nessuno, siamo coscienti che essendo la nostra lotta non recuperabile — il che è e sarà il migliore segnale che ci indica che stiamo percorrendo la strada giusta — sarà sistematicamente perseguita dalla legge in tutti i modi (polizieschi, rigidamente giudiziari, mediatici, etc).
La ribellione concepisce l’azione fin dagli antipodi della post-modernità, azione intesa non come produzione, ma come unica strada a disposizione per far emergere le nostre qualità di esseri distinti. Siamo attratti dall’idea di vedere il mondo come un grande tavolo da gioco, ed esserne i migliori giocatori è ciò a cui si riduce l’espressione della nostra lotta.
Abbiamo incominciato per comprendere le regole che disciplinano i movimenti dei giocatori-concorrenti, in seguito abbiamo iniziato noi stessi a giocare… stabilendo le strategie in base ai nostri fini e cercando di infrangere quelle leggi che abbiamo incontrato all'inizio del gioco. Siamo consapevoli che vinceremo la partita quando il tavolo andrà in mille pezzi e cominceremo a farlo quando ci muoveremo al di fuori di qualsiasi modello di efficienza mercantile. Agiamo per il piacere, un piacere che aspira ad una vita completa e piena di possibilità. Non vogliamo comunicare con questa società, non abbiamo niente da dirle, vogliamo vederla agonizzare. Per questo, le nostre azioni sono la sua negazione, non possono essere riorganizzate all’interno delle strutture mercantili, non possono essere conformate dal capitale come propria forza produttiva. La nostra protesta non potrà essere trasformata in merce con cui trafficare o contrattare, ricerchiamo la soddisfazione delle nostre eccessive pretese. Sono necessità implicite dell’essere umano, solo che sono state integrate in una società falsa che le ha distorte. Noi l’abbiamo capito e non ci fermeremo finché non avremo una vita che sia capace di soddisfarle.
In un mondo dove il mercato si afferma come il solo scenario della vita, il valore di scambio è l’unico valore possibile e pertanto la totale identificazione tra la società e il capitale è terminata, soltanto la rivoluzione può determinare lo smantellamento definitivo della miserabile e banale quotidianità, la liberazione totale delle passioni e dei desideri repressi.
Accontentarsi è qualcosa che non rientra nei nostri pensieri, abbiamo già avuto sufficiente miseria…
Non cercheremo di rispondere a tutte le domande, giocheremo a lasciarle tutte senza risposta… bisogna agire quando tutti sono in attesa, dire ciò che il nemico non può prevedere, essere dove non ci aspetta. Il compito rivoluzionario oggigiorno non consiste né più né meno che nello strappare via quei veli che coprono le reali condizioni degli sfruttati, arrivando a creare infine quella situazione che renda possibile il terzo assalto proletario alla società delle classi.
Nel nostro rifiuto c’è l’aurora…

Testo a cura del Laboratorio di Ricerche Sovversive UHP
Unione compagni psichiatrizzati nella guerra contro la merce!

http://www.finimondo.org/node/343

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