Maurice Blanchard (1890-1960) è stato definito «poeta del
fallimento e della rivolta». In un certo senso, fallimento della vita e
rivolta contro il fallimento. Secondi i registri dello stato civile, è
nato nel paese francese di Montdidier il 14 aprile 1890. Secondo un suo
testo autobiografico, scritto in terza persona, è nato nel 1927 con
trentasette lunghi anni di ritardo, durante i quali è stato un bambino
trascurato, un adolescente operaio, un militare eroe di guerra, un
progettatore di aerei di successo: un perfetto candidato al suicidio.
La voce di Blanchard non è quella dell’irriducibile ribelle
pieno di gioia di vivere, è quella della belva tenuta in cattività per
oltre trent’anni. Fino alla fine dei suoi giorni non mancherà di gridare
di dolore per le ferite infertegli e di disperazione per una vita senza
uscita, ma anche di reclamare vendetta contro tutto ciò che ci umilia:
«Tutto è permesso. Tutti i semi hanno le loro possibilità, e un giorno
il seme dell’albero che canta germinerà. Tutto è possibile, condizione
del progresso. Morte allo Stato».
Divieto
C’è questo coltello nella mia gola, dimenticato dalla Creazione.
Allora, delle due l’una: la nascita è una ghigliottina. La vita pericolosa è là, in mezzo ai miracoli.
Tappatevi le orecchie, uomini della città, crateri, fiocchi di
neve, pietre fiorite grigie e nere, colori della realtà! calzo gli
stivali delle sette leghe ed è la morte o la resurrezione.
L’uomo è nascosto, la fiamma è al centro del divieto e i pianeti sono le viscere della prostituzione: ecco qua per voi!
Ed ora, per me:
Perdono a Dio le mie offese.
Conservare la ragione
Ero nelle catene del silenzio, ancora più pesanti della follia, ed
ho incontrato un uomo avvolto da un grappolo di luce come un ciliegio in
fiore. Abbiamo camminato a lungo, talvolta mano nella mano, poi uno
davanti all’altro inerpicandoci su per l’arida montagna e alla fine, al
calar del sole, abbiamo visto il mare e la libertà.
L’arcangelo luminoso rasentava la parete a strapiombo mentre io
camminavo sull’estremo bordo del precipizio. Un fiume di pietra ci
separò per sempre: la montagna sputava i suoi blocchi di granito.
Raggiunsi la cima e mi stesi sotto un cielo implacabile, sotto il cielo d’acciaio della mia solitudine.
Mutazioni
Infine ho visto morire un cane ferito. Ho visto spegnersi uno
sguardo d’angelo, sì! L’ho visto passare leggero e fine: un filo d’oro
nei capelli di Atalante.
E da allora la sua piaga scorre nel mio sangue come un ciottolo nel torrente.
Vedevo il vento sui campi di segale in estate, le parole umane
venivano fermate dalle farfalle le cui ali multicolori così tenui fra
pollice e indice — e così fragili! — cambiavano le grida ostili in un
caldo e sottile silenzio, e già mi vedevo sui mari caldi, sui mari
aperti, alla ricerca d’un mondo in cui la vita e il tempo camminano,
ripartono e si riposano insieme.
Ma no! Una dopo l’altra, si sono rotte le funi.
Cosa resta della fiamma?
Innanzitutto bisogna scegliere il punto esatto da dove partire. Poco importa il resto.
Non la freccia, ma l’uccello! Sono un uccello cieco al centro della Terra e non posso scegliere il mio cammino. Non c’è cammino.
Mi sono perduto andando alla ricerca dei miei desideri nascosti.
Gli alberi si chinavano sotto il peso invisibile del vento che passa,
gli alberi si raddrizzavano, ancora una volta vincitori.
La gioia era negli occhi, la gioia era nell’alleluia del pioppo
argentato, quel poeta della foresta le cui mani di volta in volta oscure
e luminose ritmano la danza del divenire, l’innocenza ritrovata.
La situazione-limite
È un frutto che matura lentamente, molto lentamente.
Così lentamente che l’albero muore prima che il frutto maturi,
ancor prima che abbia appagato la sete del viaggiatore sfinito. Gli
basta poco: un raggio di sole sull’acqua tremolante del pentimento.
Il signor architetto misura la porta, le finestre, l’altezza dei
muri e la pendenza del tetto. Si onora, il signor Architetto, lo si
saluta quando passa per strada, col metro in mano e il didietro in fondo
alla schiena, come tutti. Ogni sera un sonno ben misurato lo sopprime.
Veglio. Il mio lavoro ha bisogno dell’infinito. Sì! In ogni momento
mi occorre passare attraverso l’infinito per raggiungere incerte e
transitorie piccole cose. È il mio mestiere. Buonasera!
Le isole del sonno
Le notti brevi d’estate, le notti fruscianti nelle frasche nuove
quando i sogni giocano e si scontrano nei nostri occhi chiusi come
bambini felici.
Passo da Deianira a Isolde, sono Cesare, poi Belisario, sono
Sansone, il tagliatore di teste ed eccomi infine sui ghiacci del Polo
mentre scavo il mio buco, sto in agguato della mia foca. Il freddo mi
risveglia: è la rugiada del mattino.
Il giorno sta per diffondersi in tempesta di luce e l’eliotropio riprenderà il suo cammino verso il Sole.
[da “Botteghe oscure”, n. 17, 1956]
Nessun commento:
Posta un commento