venerdì 16 marzo 2012
Contributo alla storia dell’individualismo
Anselm Ruest (pseudonimo e anagramma di Ernst Samuel, 1878-1943) è stato uno dei maggiori studiosi tedeschi di Max Stirner, di cui ha curato un breviario e a cui ha dedicato un saggio. Assieme a Salomo Friedlaender, fu il fondatore del giornale individualista anarchico Der Einzige (L’Unico) che apparve in Germania dal 1919 al 1925. Il suo pensiero ruotava attorno al contrasto fra l’individuo consapevole in possesso della propria personalità e la persona priva di consapevolezza e come tale dipendente dalla società, e ha profondamente influenzato sia gli ambienti espressionisti che quelli dada. A nostra conoscenza, quello che segue è l’unico testo di Ruest tradotto in italiano.
Anselm Ruest
«Allorché si conosce a fondo e si approfondisce la nozione dell’Individualità e delle conseguenze che ne derivano dal principio che è la base, vale a dire che ogni uomo non è solamente specialmente relativo al mondo, ma ancora ad ogni oggetto nel mondo e ad ogni idea che quest’oggetto risveglia, si è meravigliati che tanta discordia naturale sia possibile a fianco di tanta concordia storica»
Questa meditazione di Hebbel — essa si trova nel suo Giornale— ci dà un’idea esatta del concetto individualista. Infatti, se l’individualismo non costruisce, non può costruire dei sistemi in serie, pare che si sviluppi senza urti negli “Io” presi separatamente, come se agisse in virtù d’un contratto tacito, d’una convenzione occulta. Non solamente l’Individuo, preso nel senso più ordinario, non sfugge, ma ogni artista, ogni filosofo, ogni creatore intellettuale, quand’anche si presentasse dotato d’idee impersonali, disinteressate, anche sociali, apparirebbe allo psicologo osservatore e intelligente come un fenomeno individuale perfettamente isolabile. Questo «Individualismo immanente» non può non essere percettibile o afferrato, l’individuo stesso può non trovarsi arricchito del fatto della sua esistenza, e può non svilupparsi più magnificamente. Ma dopo tre o quattro secoli, si sente crescere la conoscenza dell’individuo in tanto che esistenza a parte, si notano i segni distintivi della meraviglia che risveglia la percezione dell’io. Gli antichi che insegnarono tutte le storie della filosofia, percepirono appena l’io; bisogna venire fino alle biografie come Sant’Agostino, Petrarca, Junius perché la via si schiuda, ma è presso Pascal (verso il 1650) che l’individualismo moderno si differenzia da tutto ciò che l’aveva preceduto.
Dopo la sua gioventù, Pascal si era ingaggiato con una sicurezza senza limiti sulle vie soleggiate delle scoperte e della rinomanza; giovane ancora, egli aveva già raggiunto una grande celebrità. Di repentino egli credette di percepire che il suo io — il suo “immortale”, il suo “distintivo” — se n’andasse alla perdizione. La potenza, l’onore, la gloria non gli parvero più che la caccia volgare dei risultati cui mira l’istinto della specie “uomo”; gli parve che solo la fede — il cristianesimo solo potendo isolare l’io — potesse illuminare ogni io sul suo vero destino. Che si comprenda bene: il cristianesimo pascaliano era una creazione particolare, unicamente personale per Pascal; in ciò e in nessuna altra parte egli poteva riconoscere e distinguere il suo io. Che questo cervello sì lucido e brillante, che questo scettico scientifico, che questo matematico e fisico così chiaroveggente potesse credere—era la sua facoltà, il suo dono individualista personale. Si sarebbe ben meravigliato, d’altronde, se avesse dovuto comparare la sua fede con quella delle masse. Egli dunque attribuisce al cristianesimo tutta la conoscenza: solo poteva convincere l’uomo della sua infinita grandezza e della sua miseria tragica — quella miseria tragica della quale Pascal s’era trovato in preda allorché la sua perspicacia l’aveva lasciato tranquillo davanti a certi problemi impossibili a risolvere. La fede gli era semplicemente un mezzo di autoesaltazione, d’innalzare il suo io…
D’allora l’Individuo si ritira talmente a parte e isolatamente che ne sognerà completare il suo isolamento morale con un isolamento fisico, metodo d’altronde erroneo: ma ogni individualismo apparentemente fisico sarà ormai l’espressione d’una sensibilità culturale, intellettualmente effeminata. Ecco Daniel Defoe, il creatore della “Robinsonata”, inaugurare un secolo dove non si uscirà dalle robinsonate.
Che un uomo d’altronde ordinario, che non si accontenti più del suo focolare né del suo ambiente sociale, che il gusto delle avventure lo spinga ad andare a cercare fortuna nei paesi lontani, ciò non presenta niente di particolarmente differenziato; ma che venga gettato su un’isola deserta, separato dalla società degli uomini, obbligato d’aggiustarsi di suo rischio e pericolo e che il suo io si comporti irriflessivamente, istintivamente, incoscientemente nelle circostanze quotidiane della vita e che si comporti tanto a riguardo delle cose e delle persone sopravvenute inopinatamente che faccia a faccia delle concezioni tradizionali senza ricreare servilmente — individualmente e intellettualmente — l’ambiente lasciato — ecco ciò che denota presso il poeta creatore di Robinson un’esperienza dell’Io rara e originale. Perché Robinson è forzato di rifare passo passo tutto il cammino percorso dalla civilizzazione, questo europeo leggero, che reagisce, dotato di tutto l’acquisito intellettuale e scientifico della sua epoca, alla soglia del meccanismo, si trasforma in un uomo serio, riflessivo, dai profondi pensieri, che stabilisce il suo proprio calendario, scrive un giornale e si fabbrica una religione adeguata alla sua situazione. Che si compari questa religione con quella della madre patria e si vedrà subito che ciò che sembra rivoluzionario non è, tutto sommato, tanto lontano dalle convenzioni e dei costumi tradizionali. Del pari, l’autore non ha voluto ciò — egli ha concepito un grazioso romanzo fantastico ed ha fatto in modo che il mondo delle scoperte compiute dal suo io isolato in Europa ed altrove — sia comprensibile.
Trasportate Robinson dal dominio della sperimentazione all’aria libera in quello della sensibilità, dalla finzione nella didattica e voi avrete uno dei più autentici antenati dell’Individualismo — Rousseau.
Vedete come Emile, subito dopo la sua nascita, si trova trasportato alla campagna — la sua isola di Robinson. Ciò è che il primo giorno passato nell’ambiente sociale malsano potrebbe nuocergli, corrompere il suo individualismo. E là, alla campagna, Emile si sviluppa realmente — benché non si cessi d’essere ansiosi sui risultati del suo sviluppo; che ne sarà di lui: un umano, un sopraumano, un dio, un animale?
Solamente, ci si persuade troppo presto che Rousseau, molto prima di Emile, aveva concepito il suo programma d’educazione — dove l’aveva preso? Nell’osservazione, nella esperienza, nella riunione delle più ricche conoscenze umane — nell’umano considerato in generale. Spesse volte anche egli non è così: giocava troppo facilmente con le difficoltà ed il suo Emile arriva a possedere un’anima che tiene la natura come assolutamente incapace di bene e di male. A dispetto del suo sistema d’educazione abile, manifestamente ammesso come individualista, la Rivoluzione Francese, che sacrifica ai manidi Rousseau, ebbe assolutamente ragione di dare un significato sociale alla divisa: «Libertà, Uguaglianza, Fratellanza». Essa si manteneva nello spirito di Rousseau di cui l’individualismo non concepiva l’uomo isolato, definito separatamente, ma l’umano in generale. Non più che come lo concepirono altrimenti tutto il diciottesimo secolo e, più tardi, Kant e Fichte. Come avrebbero potuto mantenersi così da parte? E non è forse dal seno della società che Emile era stato trasportato alla campagna?
È qui che noi condividiamo lo stupore di Hebbel: «Quando si approfondisce la nozione dell’Individualità… le conseguenze che ne derivano… si è stupefatti che tanta discordia naturale sia possibile a fianco di tanta concordia storica». Emile non aveva giammai obliato il suo governatore, il diciottesimo secolo; il diciannovesimo secolo s’è onestamente sforzato di congedarlo. Ma il tutto è di sapere se il governatore così messo in giubilo non sia rientrato dalla porta di dietro, se il divorzio stesso secondo la concezione roussoniana non abbia costretto i fatti reali ad una semplificazione inevitabile. L’uomo personale, determinato, individuale, ha voluto una volta per tutte sgomberare, svestire, raggiungere il diciannovesimo secolo. Ma che non si dimentichi: in fin dei conti, l’Individualismo, il più conseguente concerne… degli uomini; non ha nulla a che fare con degli dèi, delle grandezze che si possono assolutamente comparare.
Rousseau non aveva approfondito «tutte le conseguenze derivanti dalla nozione dell’Individualità». Schleiermacher, Stirner e Nietzsche lo fecero da veri filosofi come erano. Nei Monologhidi Schleiermacher, noi troviamo dipinta, per la prima volta, la felicità che è l’appannaggio dell’uomo che osa considerarsi come un essere “voluto a parte”. L’universo può, nella sua grandezza, sembrare di voler schiacciarmi, ma non mi compenetra, io, che sono una parte costitutiva e indispensabile e più lontano l’Unico si sforza di stendere e il suo fine e le sue gesta, più profondamente egli comprende la sua situazione e la sua necessità del Cosmo.
Goethe ha parlato in qualche luogo della felicità superiore dei fanciulli della Terra. Personalità! Schleiermacher e Goethe erano dei metafisici: si vede subito, secondo loro, da dove proviene la concordia «a fianco di tanta discordia naturale»: l’Unico è una tale potenza! Io posso obiettare e dire che ciò è la concatenazione delle apparenze che reggono, in qualche modo, il Cosmo — che vuole che le misure di precauzione necessarie siano prese. Nietzsche stesso — nel quale si tendono le mani il principio e la fine dell’ultimo secolo — era un metafisico in fondo al cuore, malgrado che si sia così aspramente difeso; ed è per ciò, col suo «eterno ritorno», egli ha edulcorato di nuovo l’Individualista assoluto, irrazionale, che ha concepito uno sviluppo meccanico dell’evoluzione universale, che ha creduto ad una costanza dei “greggi”. E perché ciò? — non sono, essi pure, composti di “Io”? E, intanto, qualcuno deteneva, nel medesimo secolo, la chiave dello «stupore» che tormenta Hebbel: «a fianco di tanta discordia naturale», e questo qualcuno era Max Stirner.
La storia della Filosofia è grandemente debitrice a Stirner, tanto quanto a Berkeley che turba così molto la coscienza mutabile in lui parlando per la prima volta del «mondo come nostra rappresentazione». Abituiamoci, dunque, una volta per sempre, a guardare in faccia l’oceano dei pensieri eternamente in movimento, a ritenere come trascurabili le deduzioni preconcette che si possono dedurre da idoli dogmatici come “la verità” e “la menzogna”. Consideriamo, una volta per sempre, le cose ed i pensieri come un eterno e magnifico gioco di colori cambianti che si succedono sulla cappa dell’infinito, che non ci sarebbe concepibile che all’infuori dei nostri sensi, in uno stato di fusione, di deliquescenza interiore, forse solamente nella morte. In tutti i casi, ecco cos’è sicuro: Cioè che, viventi, noi abbiamo raramente coscienza del nostro legame intimo con il Cosmo — che i medesimi nostri eccessi di coscienza più affermati sembrano evolversi nei limiti d’una rottura voluta, d’una separazione intenzionale con l’Universo, di sorte che noi ci abbandoniamo tanto più ciecamente e confidenti ai nostri istinti che ci rivelano il nostro io come una cosa di un’estrema importanza.
Se il legame eterno di ogni io con il Cosmo sembra fuor di dubbio, noi non lo sentiamo; il mio vicino può essere infinitamente triste ed angosciato, allorché il miocuore palpita di gioia e d’ebbrezza; al medesimo momento l’occhio di A… vede altre immagini che l’occhio di B… (quantunque certamente una sfera di sentimenti e di sensazioni saturi tutto l’universo e si esteriorizzi in molto “entusiasmo”, non ho io allora il diritto di fare riposare la mia coscienza individuale su se stessa e di lasciare ogni io, preso separatamente, farsi valere da se stesso? Vi sono due metodi: uno considera l’io come parte d’un tutto che non conosce — l’altro considera ogni io come un tutto che conosce, particolarmente per le manifestazioni della sua coscienza. È questo secondo metodo che ha seguito Max Stirner; è perciò che ha “approfondito” la nozione dell’Individualità e delle sue conseguenze, che chiama l’Io «il mortale e passeggero creatore del suo Unico». Non perché è così, ma perché noi lo… sappiamo. Dunque, se c’indirizziamo a Stirner per altre supposizioni, se si vuole ottenere qualche informazione sull’Armonia universale, il Creatore di tutte le cose, non s’impara nulla. Ma se si sa che Stirner parla di ogni io come d’un Unico nell’insieme delle apparenze, si apprendono cose preziose. Hebbel s’interessa dell’universale e finì di meravigliarsi perché a fianco di una tale differenziazione può esistere «altrettanta concordia storica». Stirner, egli, non conoscendo che la gioia della logica, spinse un pensiero fino alle sue estreme conseguenze teoriche, poco importandogli come sarebbe finita.
Io vorrei ben sapere quali supposizioni sono più solidamente appoggiate che quelle! Una gran parte di gente ci offrono — e noi ci siamo talmente abituati! — le prospettive “le più grandi”, le concezioni “le più sublimi”, i punti di vista “i più scevri di pregiudizi”: su che cosa fondano tutto ciò? È certo che, se Stirner non avesse considerato l’ateismo di Feuerbach come dimostrato, egli non avrebbe esplicato l’Individualismo come ha fatto. Ma il Teismo non è un fatto provato? Se lo fosse stato, Stirner avrebbe cercato altri motivi, li avrebbe trovati e sarebbe ugualmente pervenuto all’individualismo estremo. Egli procede dunque da Feuerbach che aveva definito la Religione come «una rottura dell’uomo con se stesso»; egli non si domanda se la definizione di Feuerbach fosse esatta o no in sé, ma si domanda come poter guarire la rottura, riparare lo squarcio; in Feuerbach, gli attributi divini erano divenuti manifestamente umani e, per realizzare l’ideale “dell’Uomo”, l’Unico doveva lottare instancabilmente per conquistarli. Era ancora l’uomo “in generale” del XVIII secolo. — No, grida Stirner, io non sono quell’uomo là: io sono l’uomo personale, individuale, determinato; l’ideale teologico mi è costato migliaia di anni di lotte sterili, l’ideale “uomo” non me li richiederà. Io stesso (e ogni Unico come me) sono in ogni momento tanto la apparenza dell’uomo quanto il suo essere, come la sua essenza più profonda. Non ho invidia di spaccarmi in due, di correre dietro un fantasma.
Egli si è così liberato di tutti gli altri ideali fantasmi, ed è in questa maniera che arriva alle sue negazioni col fine di liberare l’Io da tutti i determinismi “in generale” — notatelo bene: universale, in generale allegemein. Ciò non ha nulla a che fare con l’individuo considerato nelle sue manifestazioni tipiche. Stirner, in effetti, lui, l’infaticabile e intrepido lottatore per le idee si è messo “al servizio” di ciò che concordava più potentemente e più sublimemente con lui — al servizio del suo Io. Ora se tu (e X e Y) trovi che il tuo Io si compie e si “consuma” di più in un mondo di idee più prossime all’idealismo — alla Schiller, per esempio, libero a te: Stirner, l’Insorto, l’Anarchico non te lo proibisce — più ancora, egli t’approva. Ti dice solamente d’essere… te stesso.
Così Stirner ha definitivamente dissipato lo stupore hebbeliano. Per aprire gli occhi degli uomini sulla loro dipendenza, la loro fede nell’autorità, la loro sensibilità suggerita dal mondo esterno, il principio individualista incomincia con una ribellione folgorante, con la discordia, con un appello energico alla tua “Unicità”. Ma colui che ti scuote, che ti muove così, ti rimette il tuo Io nelle tue proprie mani, è un uomo come te, che parla la tua lingua, con le medesime passioni e le medesime sensazioni che le tue. È perciò che «a fianco di tanta discordia naturale, tanta concordia storica è possibile».
[L’Adunata dei Refrattari, anno VI, n. 16, 16 aprile 1927
http://www.finimondo.org/node/562
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