giovedì 15 marzo 2012

E SE PERDESSIMO LA PAZIENZA


Molti degli equivoci a proposito della gestione democratica del potere nascono, a mio avviso, dall’ambiguita’ del concetto di consenso. Un ragionamento ormai diffuso tra un buon numero di anarchici e’ quello che segue.
Quando il fondamento della societa’ del dominio era visibilmente la brutalita’ della forza, le pratiche di rivolta risultavano evidenti, nel loro significato, agli sfruttati. Se questi non si ribellavano era proprio perche’ il ricatto della polizia, e quello della fame, li costringeva alla rassegnazione e alla miseria.
Contro quel ricatto, quindi occorrevano agire con determinazione. Oggi, invece le istituzioni dello Stato godono della partecipazione, per quanto pilotata, delle masse, poiche’ una presssante operazione di condizionamento le ha rese consenzienti. Per questo motivo, la rivolta deve essere spostata sul piano della delegittimazione, dell’erosione graduale e allargata del consenso. Di conseguenza, e a partire da quelle piccole zone in cui la presenza dell’autorita’ delegittimata, per cosi’ dire messa fra parantesi, che si puo’ far crescere un progetto di trasformazione sociale. Diversamente, la ribellione diventa un agire fine a se stesso, nel migliore dei casi un inutile e incompreso gesto di testimonianza, nel peggiore un contributo alla repressione e un pericoloso allontanamento dai bisogni reali degli sfruttati. Quest mi sembra la sostanza di un discorso che, di volta in volta, viene agghindato in mille modi diversi.
Tutto questo ragionamento si basa in realta’ su un falso presupposto, cioe’ sulla separazione di consenso e di repressione. Che lo Stato abbia bisogno di entrambi questi strumenti di controllo e’ chiaro e credo che nessuno incorra nel banale errore di negarlo. Ma rendersi conto che il potere non puo reggere solo con la polizia, o solo con la televisione, non basta. Cio’ che importa e’ comprendere in che rapporto polizia e televisione stanno tra di loro.
Legittimazione e coercizione appaiono condizioni diverse solo se si considera il consenso una sorta di apparato immateriale che plasma la materialita’ del comando; in altri termini, se si ritiene che la produzione di un determinato atteggiamento psicologico – quello, appunto dell’accettazione – sia altrove rispetto alle strutture dello sfruttamento e dell’obbligo che su un simile atteggiamento si fondano. Da questo punto di vista, che una tale produzione avvenga prima come preparazione e dopo come apologia e irrilevante. Cio’ che interessa e’ che non avviene contemporaneamente. Ed e’ proprio qui che si colloca la separazione di cui parlavo.
In realta’, la divisione tra la sfera interiore della coscienza e quella pratica delle azioni esiste solo nella testa – e nei progetti – dei preti di ogni colore. Ma alla fine anche costoro sono costretti a dare una ragione terrena alle proprie fantasie celesti. Come Cartesio aveva dovuto inventarsi la valvola pineale quale luogo dove imporre l’anima, cosi’ il borghese ha designato la proprieta’ privata quale feudo del proprio misero io santificato. Non diversamente, il moderno democratico, non sapendo dove localizzare il consenso, ricorre alla simulazione del voto e del sondaggio. Ultimo arrivato, il libertario al passo con i tempi situa la pratica delegittimazione in una ‘’sfera pubblica non statale’’ dai misteriosi confini.
Il consenso e’ una merce come lo e’ un hamburger o il bisogno del carcere. Anzi, se la societa’ piu’ totalitaria e’ quella cha sa dare alle catene il colore della liberta’, esso e’ divenuto la merce per eccellenza. Se la repressione piu’ efficace e’ quella che cancella il desiderio stesso della ribellione, il consenso e’ repressione preventiva, polizia delle idee e della decisione. La sua produzione e’ materiale come quella delle caserme e dei supermercati. I giornali, la televisione e la pubblicita sono potere al pari delle banche e degli eserciti.
Cosi’ posto il problema, risulta chiaro come la cosiddetta, legittimazione non sia altra cosa del comando. Il consenso e’ forza, e la sua imposizione e’ esercitata da precise strutture. Questo significa – ecco la conclusione che non si vuole trarne – che lo si puo attaccare. In caso contrario, ci si scontrerebbe con un fantasna che, quando si fa’ visibile, ha gia’ vinto. La nostra possibilita’ di agire sarebbe tutt’uno con la nostra impotenza. Io posso ben colpire questa realizzazione del potere, ma la sua legittimazione arriva sempre – da dove non si sa – prima e dopo il mio attacco, a nientificarne il senso.
Come si vede, dal proprio modo di comprendere la realta’ del dominio ne discende il proprio modo di concepire la rivolta. E viceversa.
Il fatto che la partecipazione ai progetti del potere e’ divenuta piu’ ampia, e la vita quotidiana e’ sempre piu’ colonizzata; il fatto che l’uranistica rende in parte superfluo il controllo poliziesco e la realta’ virtuale distrugge ogni dialogo; tutto questo accresce, non certo elimina, la necessita’ dell’insurrezione. Se aspettassimo che tutti diventino anarchici prima di fare la rivoluzione, diceva Malatesta, staremmo freschi.
Se aspettassimo di delegittimare il potere prima di attaccarlo, staremo al fresco. Ma l’attesa, per fortuna, non passa tra i rischi degli incontentabili. Da perdere non abbiamo che la nostra pazienza.

Massimo Passamani.

dal settimanale Anarchico CANE NERO N.36 – 25 ottobre 1996.

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