sabato 17 marzo 2012

Contro le patrie - Laurent Tailhade


Sarebbe un errore credere che la religione soltanto abbrutisca gli intelletti e disonori i costumi, perché l’ignominia umana può scendere ancora di qualche grado. L’uomo civilizzato può cadere più in basso ancora dell’ultimo cannibale, al di sotto pure del bruto e dell’animale più infimo. Se egli aggiunge all’esecrabile idea di Dio l’idea buffona e scellerata di patria, non gli resta più nulla da conquistare nell’ambito della bestialità.
Mentre scrittori, pensatori, filosofi, economisti si sforzano di rendere l’uomo alla ragione, alla fraternità che il suo interesse, in mancanza d’altro movente, prescrive come una legge primordiale dell’esistenza; mentre i veri internazionalisti si sforzano di abbassare le frontiere e disprezzare il patriottismo, non vi è un crapulone, un ruffiano, un fallito che non s’inchini dinanzi la bandiera nazionale e non porti a questo straccio infame e sanguinante le genuflessioni da bordello della sua indegnità.
Noi siamo innanzitutto dei senza patria e facciamo di questo titolo la più gloriosa affermazione, rivendicando la nostra convinzione di non essere né italiani, né francesi, né tedeschi, né ebrei, né cristiani, ma di essere soltanto uomini, cittadini del mondo e compatrioti dell’Umanità.
Sì, noi siamo senza patria e respingiamo ogni contatto colla mandria nazionalista, lontani mille volte più da questi banditi e da questi babbei che dai popoli che vivono ai nostri antipodi. I nostri fratelli sono i lavoratori che preparano giorni più umani, i rivoluzionari che scatenano le moltitudini e colpiscono al cuore i tiranni, tutti i campioni dell’idea internazionale e dello sforzo libertario.
Noi invochiamo con voti ardenti il cataclisma riparatore che, rompendo infine lo stampo delle nazionalità, renderà il mondo senza limiti né frontiere alle famiglie umane, misurando la terra promessa ai limiti del globo, ai soli confini dell’universo.
Sì, noi siamo senza patria. Riconosciamo fratelli solo i saggi che, col fatto o col pensiero, lavorano alla liberazione futura, alla città della giustizia e dell’amore; solo i regicidi, gli scrittori e gli anarchici che combattono la società borghese e, con una spada coronata di mirto, la colpiscono in pieno cuore.

L’idea di patria, che dopo l’idea di Dio è quella per cui l’umanità ha più sofferto, viene da radici profonde, dalle superstizioni originali dei secoli primitivi. La patria, la terra degli antenati (la terra patria), fu nelle civiltà antiche il suolo stesso ove risiedeva l’ombra degli antenati.
Per offrire a quest’ombra facilmente irritabile il pasto funebre, la libagione di cui essa si pasce, bisogna che la sua stirpe dimori nel recinto ove il morto fu inumato. I riti commemorativi, i sacra, non possono essere celebrati che dalla gente del defunto, come pure le «giuste nozze» non possono aver luogo che tra cittadini dello stesso Stato. Ma le tombe si ammucchiano, il giardino mortuario si riempie di corpi sovrapposti.

Abisso ove la polvere è mescolata alle polveri,
Ove sotto suo padre si ritrovano ancora dei padri,
Come l’onda sotto l’onda in un mar senza fondo.

Gli abitanti emigrano, colonizzano, vanno lungi a fondare qualche città nuova che vedrà crescere le sue mura, mentre la metropoli andrà verso la decadenza. Ma essi non possono disertare il focolare antico sotto pena di sacrilegio e conviene che la terra paterna sia incorporata alle fondamenta della giovane borgata.
Quando Romolo, fondatore leggendario, ebbe stabilito la cinta di Roma e tracciato il pomœrium della città da costruire, egli sotterrò una zolla del territorio albino nel focolare comune. Sulla terra degli antenati, sul capo insanguinato di una vittima, sorse il Campidoglio dimora della stabilità di Giove.
Così era fondata la patria che ben presto avrebbe dato le leggi al mondo.
Questa forma religiosa della patria suppone una cultura, delle tradizioni. La scienza augurale degli etruschi, i riti della confederazione latina, avevano preparato il suo avvento. Roma non ebbe che a progredire nella via ove i suoi fondatori l’avevano messa.

Bisogna risalire molto più in alto se si vuol toccare i primi elementi del patriottismo. Il motivo primordiale, e senza dubbio il più onesto motivo che l’uomo abbia mai avuto di sgozzare il suo nemico, è il desiderio assai plausibile di farne uno o due pasti. Di tutti i patrioti, il cannibale è certamente il meno odioso.
Cotto o crudo, ingrassato nel teocali dei sacrificatori messicani, ben pepato di spezie, oppure divorato palpitante, il prigioniero di guerra, il vinto, offre ai conquistatori un abbondante nutrimento.
A questi costumi feroci e candidi succede la conquista romana. Il saccheggio si organizza. La patria ha la sua ragione di essere, ormai.
«Non si fa la guerra che per rubare» — diceva Voltaire — e poco dopo la Grande Armata, quella di Napoleone, saccheggiò tutta l’Europa.
«Vi è nella guerra un elemento mistico che rapisce le folle». Vi è pure una lussuria spaventevole, la lussuria della morte, il gusto delle atrocità che sviluppa, sino alla demenza, l’esercizio della forza bruta.
Ecco dunque i due principali moventi della idea di patria: il massacro, il ladrocinio. Le basi sono la razza o comunità di sangue, poi la comunità di leggi e l’integrità del territorio. Quando si vede nelle campagne una popolazione ignara, molto brutale, ma ove gli individui si rassomigliano tutti, si dice che v’è la stessa razza. Presso i Persiani la purezza del sangue era garantita coll’incesto. Presso gli Ateniesi, solo gli autoctoni avevano il diritto di portare la cicala d’oro nei capelli, privilegio che non ebbero mai i meticci, stranieri domiciliati.
I procedimenti per istituire le patrie: guerra straniera, colonizzazione, rappresaglie, conquiste, diplomazia, arbitraggio, si chiamano nel codice penale furto a mano armata, violazione di domicilio, omicidio volontario, assassinio, truffa, manovra fraudolenta. Solo la guerra civile merita qualche stima, ed il sangue che essa versa non genera esclusivamente la sterilità. Perché è più legittimo sacrificare un milione di uomini allo scopo di mettere in atto un pensiero generoso, un ideale d’indipendenza e di bellezza, che inviare ai quattro angoli d’Europa degli squartatori in uniforme, dei ladri gallonati di croci. La gloria del risultato scusa l’orrore dei mezzi. Criminale per criminale, e messa da parte ogni simpatia, Ravachol non è infinitamente superiore a Napoleone?


[estratto da Discours civiques, 1902


http://www.finimondo.org/node/715

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