sabato 25 febbraio 2012

Una questione di metodo - Alfredo M. Bonanno


Che ci sia in ognuno di noi un bisogno profondo di far conoscere i propri pensieri è faccenda ormai fuori discussione. La cosa più segreta e impenetrabile, il limite che nessuna macchina elettronica per quanto sofisticata può superare, noi decidiamo, spontaneamente, di metterlo da parte. Vogliamo farci conoscere, vogliamo far sapere agli altri quello che siamo e come la pensiamo. Su ogni cosa abbiamo le nostre opinioni, tanto più radicate e irriducibili, quanto più queste opinioni sono superficiali e approssimative.

Per il fatto stesso che siamo noi a pensare in un certo modo riteniamo che questo sia il solo modo giusto e corretto di pensare. E ci meravigliamo altamente che gli altri non capiscano e, spesso, siamo portati a concludere per chissà quale congiura o tradimento o vigliaccheria.

Questo modo di fare è umano, quindi molto diffuso.

Anche coloro che si presentano sotto le vesti sacerdotali del possibilismo pluralista, sotto sotto hanno la loro sacrosanta opinione e nessuno potrà spostarla di un solo piccolo millimetro.

Considerati da questo aspetto siamo come universi chiusi, totalmente privi di possibilità di comunicazione. Ci aggiriamo senza un criterio logico, a dritta e a manca, in balia delle nostre impressioni che, di volta in volta, scambiamo per fatti oggettivi.

Certo, queste nostre opinioni non sono accidentali, nascono dalle nostre relazioni con la realtà (gli altri individui, le cose, le strutture, le forme sociali, ecc.), ma sono parte di noi stessi, anzi esse sono proprio uno degli aspetti più visibili di noi stessi.

Gli altri ci vedono come un complesso di opinioni, in nessun caso ci prendono sul serio al cento per cento. Il modo in cui ragioniamo, la scelta delle parole, il modo in cui ci vestiamo, come mangiamo, come facciamo l’amore, le nostre reazioni inconsce, tutto ciò è visibile agli altri e dà loro indicazioni più o meno precise sulla nostra individualità.

Il processo attraverso il quale gli altri ci conoscono è quindi un processo di individuazione, in base al quale siamo individui noi stessi.

Appare evidente come una vasta rete di rapporti di estrema incertezza e approssimazione porta alla costruzione di un dato che molte volte consideriamo assolutamente certo.

Ognuno di noi dovrebbe partire quindi da una riflessione di questo tipo: a) le mie opinioni sono poco sicure, b) gli altri mi vedono attraverso le loro opinioni che sono altrettanto poco sicure delle mie.

Cosa fare?

Tenere presenti i nostri limiti e quelli degli altri.

Ecco un buon metodo.

Ognuno di noi si è costruito un suo modo di essere e di questo processo costruttivo è più o meno cosciente. Si tratta di qualcosa che somiglia alla propria situazione di classe, ma con alcune varianti fra le quali la più importante è data dal nostro desiderio di vederci diversamente, di illuderci di poter rappresentare sulla scena sociale uno spettacolo più importante. In qualsiasi punto ci troviamo dello spazio sociale siamo portati a considerare quelli che ci stanno dietro meno importanti di quelli che ci stanno davanti. Se le nostre condizioni oggettive non consentono di metterci davanti a quelli che ci stanno davanti almeno possiamo sempre illuderci di farlo con relativa facilità.

Questo esercizio di fantasia non conosce confini. L’operaio che compra la macchina costosa si illude allo stesso modo del dirigente industriale che si atteggia a imprenditore. L’uomo politico che prende decisioni sul futuro della nazione si illude di dominare la scena della storia, allo stesso modo dello scienziato che considera definitiva la sua scoperta illudendosi di avere catturata la realtà.

Anche i rivoluzionari si illudono. Non tanto sulla vastità dei progetti, che questa è forse una delle cose più concrete dell’attività rivoluzionaria, collegandosi a quei salti qualitativi che pur essendo sempre presenti non sono mai prevedibili, quanto nelle piccole cose. Nella vita di tutti i giorni, nel mantenimento di distanze impossibili, nell’analisi di fatti lontani e sconosciuti, nella gestione delle proprie capacità, nell’uso del proprio coraggio, nel senso del ridicolo e in tante altre cose.

E in momenti di stanca, quando le acque della piena sociale defluiscono, queste illusioni pesano come pietre.

Anche i rivoluzionari vogliono essere più avanti degli altri, più estremisti, più efficaci, più concreti. Essi hanno poi un mito radicato in profondità: quello del “poverismo”. Mi si consenta l’uso di questa orribile parola (per altro costruita per l’occasione) perché esprime bene il senso dello spettacolo cui il rivoluzionario vuole partecipare. Il suo status astratto è quanto più lontano possibile dai codici del comportamento corrente, quindi deve essere non solo “diverso”, ma anche “povero”, per dare il segno di avvicinamento alla classe inferiore. Da qui un culto del “poverismo” che alcune volte rasenta il ridicolo della spettacolarità. Guai a non accettare questo codice. Si è guardati di traverso, con sospetto e irritazione.

Chiuso nella gabbia delle proprie incertezze e dei propri luoghi comuni, anche il rivoluzionario si adagia verso le soluzioni più facili, finisce per accondiscendere agli atteggiamenti che consentono la riproduzione di un cliché. Cede così davanti alle opinioni degli altri e si fa incasellare in “certezze” e in modi d’essere precostituiti. Agisce solo in funzione di quello che gli altri pensano di lui ed evita accuratamente di urtare la suscettibilità dominante con la propria azione. Il gusto alla moda per le scappellate di cortesia diventa preponderante, per poi scadere in rissose colluttazioni quando la maschera cade e si viene scoperti per quello che si è: perbenisti sotto mentite spoglie.

Per uscire da una situazione del genere bisognerebbe impiegare un metodo critico capace di individuare la reale consistenza di ogni nostra opinione.

Ognuno di noi parte da alcune certezze. Bene. Sottoponiamole a una critica radicale. Scopriremo che una grossa parte di queste certezze è fondata su impressioni e non su dati di fatto. Approfondiamo queste impressioni, facciamo un piccolo inventario dei dati di fatto, arriveremo alla sbalorditiva scoperta di quanto fragili siano le fondamenta del nostro giudizio.

Scendiamo all’interno delle nostre impressioni, vi scopriremo come esse siano a loro volta frutto di altre impressioni mescolate con un numero irrisorio di dati di fatto. Approfondiamo ogni dato di fatto che siamo riusciti a separare dalle nostre impressioni, scopriremo sempre al suo interno una componente di incertezza, un giudizio soggettivo, una valenza ideologica.

Cosa concludere?

Nessuna paura. È proprio quando si è criticamente certi dei propri limiti che ci si sente più forti e si possono costruire meglio le proprie azioni.

In effetti esistono due modi di avvicinarsi alla realtà: uno intuitivo e l’altro deduttivo, uno che si fonda sul cuore e l’altro che si fonda sul ragionamento, e sono ambedue sbagliati.

L’intuitivo tutto cuore che crede di capire subito la realtà, di “sentirla”, che ha la presunzione di potere fare a meno dei dati di fatto, resta in balia delle proprie e delle altrui opinioni. Fa simpatia, come la fanno tutti i don Chisciotte di questo mondo, ma gli manca la serietà, la precisione, l’informazione che in un rivoluzionario sono indispensabili.

Il deduttivo tutto cervello finisce per inaridire se stesso e la propria azione. È spesso scettico e sofisticato, presuntuoso per eccesso di informazione, mentre gli manca l’entusiasmo necessario per mettere a frutto il patrimonio di dati di fatto. Anch’egli è quindi vittima delle proprie opinioni.

Mi è stato rimproverato di essere spesso troppo rigido nel presumere che i compagni possano arrivare tutti a certe conclusioni perché in grado di svolgere tutti certe analisi. Almeno in tempi brevi, mi è stato detto, non tutti sono in grado di capire subito gli elementi essenziali di un problema legato all’azione rivoluzionaria.

Penso che ciò sia vero. Esistono compagni più dotati e compagni meno dotati per l’analisi teorica e per la selezione pratica delle informazioni. E ciò si vede chiaramente nel fatto che sono quasi sempre gli stessi compagni a fare le analisi, a scrivere gli articoli, i volantini, a lanciare le idee per gli interventi nella realtà, ecc. Ma gli altri non per questo debbono concludere per un’accettazione supina o per un rigetto di principio. Con un approfondimento critico – anche se in tempi un poco più lunghi – possono sempre arrivare a fare chiarezza fra le proprie opinioni e i dati di fatto e cogliere gli elementi di errore che, intrinseci alle opinioni, impedivano una netta cognizione dei dati di fatto.

Questo si può pretendere. Un compagno deve avere il coraggio di fare ciò, altrimenti resterà sempre vittima dei propri fantasmi.

Al contrario ci sta davanti una triste realtà. Gli approfondimenti di molti compagni sono tutt’altro che critici, sono classiche arrampicate sugli specchi, oppure ottusità silenziose che si fanno del proprio tacere un alibi per non venire allo scoperto davanti a se stessi. Altre volte sono patetici utilizzi di strumenti mai impiegati prima per spiegare prese di posizione che avevano una sola spiegazione: la mancata conoscenza dei dati di fatto. Invece della critica si assiste a un dilagare di opinioni, alcune gradevoli e simpatiche, altre pretestuose e stupide, ma tutte accomunate nella lontananza dalla realtà.

E così, sfuggendo a ogni obiettivo concreto, le opinioni si scontrano con altre opinioni ed è sempre rumore e acqua smossa nel pantano dei ranocchi.



[Da “Anarchismo” n. 44, dicembre 1984]

Nessun commento:

Posta un commento