mercoledì 13 luglio 2011

La magia e il senso delle parole


(Max Sartin)

La magia delle parole è qualche volta benefica, perché, sintetizzando in una formula semplice e suggestiva la soluzione di problemi complessi, serve da orientamento efficace alle masse che in regime di privilegio non hanno né il tempo né l’abitudine all’analisi. Ma qualche volta è anche funesta perché della magia di parole letteralmente immutate si servono gruppi che per scopi propri vi attribuiscono un significato diverso e contrario a quello che avevano in origine, trascinando le masse ignare dell’inganno verso la propria perdizione.
È così che nel nome di socialismo le masse russe si sono lasciate aggiogare alla tirannia bolscevica, le masse italiane, germaniche e spagnole alle ingloriose disfatte che dischiusero la via al fascismo. Ed è così che nel nome del fronte unico i lavoratori socialisti e comunisti della Sarre si sono lasciati indurre a votare pel governo del Comité des Forges.
Le parole valgono non per sé, ma pel significato che vien loro attribuito. Giova quindi sempre intendersi bene sul significato delle parole che si usano e fare attenzione che la gente senza scrupoli non faccia uso di quelle parole che hanno maggiore popolarità, onde contrabbandare sotto falsa etichetta la merce avariata dei propri interessi economici o politici.
Quella del fronte unico è appunto una di queste formule, usate e abusate, a cui ciascuno attribuisce il significato che più conviene ai suoi fini personali o di classe. E siccome l’idea che l’ha generata e appassionatamente la coltiva nella consuetudine dei lavoratori anelanti alla propria emancipazione — è l’idea stessa che tien viva, ad onta delle più feroci persecuzioni, la speranza nella rivoluzione sociale — è semplicemente naturale che si insista nel nostro modesto sforzo di chiarificazione.

Il fronte unico nel campo della dottrina è un controsenso. Sarebbe la camicia di forza alle molle del pensiero e, quand’anche fosse possibile, sarebbe indesiderabile. Farebbe del movimento rivoluzionario una chiesa, o una caserma; delle opinioni predominanti un dogma, o una legge; della libertà di coscienza un’eresia, o un delitto. La rivoluzione russa è finita — soffocata nel sangue e nelle galere e negli squallidi esili — il giorno in cui fu considerato eretico il pensare in modo diverso da quello stabilito dai capi del partito bolscevico, antirivoluzionario l’agire in modo diverso da quello ordinato dai suoi governanti.
Non mancano le persone di vista corta le quali pensano e dicono che la più grande sventura per la causa della rivoluzione è che vi siano tanti modi di concepirla, tante tendenze diverse e molto spesso in conflitto tra di loro. Nulla di più falso.
La rivoluzione sociale non è un fatto puramente politico e neanche soltanto economico. È anche un fatto d’ordine intellettuale e morale. Non è soltanto emancipazione politica dalla tirannia dello Stato ed emancipazione economica dallo sfruttamento dei monopoli capitalistici. È anche emancipazione dal giogo non meno duro, sebbene meno visibile, delle superstizioni e dei pregiudizi atavici, delle consuetudini formatesi con la stratificazione di innumeri secoli di schiavismo, delle menzogne religiose, della cultura nata e deformata nell’interesse onnipotente delle classi privilegiate. Né basta. Perché il cittadino sia in grado di vivere politicamente libero, bisogna che impari a conoscere il valore della libertà, e ciò non può avvenire che con la pratica individuale, quotidiana, dell’indipendenza di giudizio e di iniziativa. Perché il produttore possa vivere emancipato dagli sfruttamenti e dal giogo del padrone, bisogna che si abiliti alla gestione diretta della macchina, della produzione, di tutto il meccanismo economico; e quest’abilitazione non può acquistarsi altrimenti che con l’esperienza personale, diretta, libera che, conducendo il produttore fatalmente in errori, lasci a lui stesso la responsabilità di correggerli e, quindi, di attingere, attraverso la successione degli esperimenti il più alto grado possibile di perfezione.
Concepita in tal senso, la rivoluzione sociale appare come una immensa liberazione di forze, di iniziative e di volontà individuali e, conseguentemente, collettive, che fino ad oggi hanno compresso entro le dighe violente dell’ordine fondato sul privilegio, sugli interessi dei padroni, sulle leggi dei governanti, sulle menzogne dei preti e sulle mezze verità della scuola ufficiale.
Concepita in tal senso, la rivoluzione sociale aborre l’uniformità, la legge, la coercizione, il dogma, siano essi formulati dalla minoranza o dalla maggioranza. Non saprebbe immaginare nulla di meno rivoluzionario del fronte unico nel campo della dottrina: sarebbe la sterilizzazione delle fonti stesse del pensiero rivoluzionario, della libertà di coscienza e della volontà individuale di emancipazione.
No. La molteplicità delle soluzioni prospettate dei problemi sociali non nuoce, giova anzi alla causa della rivoluzione. Né vi nuoce la varietà e la differenziazione delle tendenze, né il calore dei contrasti, né la passione del dibattito, qualora tendenze, contrasti e dibattiti si svolgano intorno a materia vera e non ad ombre d’immaginazione bizantina.
Ogni grande avvenimento sociale è stato preceduto e accompagnato da diluvi di parole, da uragani di pensiero, da formidabili urti di opinioni. Guardate alla Riforma; quante chiese, sotto-chiese, sette, cenacoli in lotta fra di loro e tutt’insieme contro la supremazia di Roma. E non si proponeva che la rivendicazione del "libero esame", e non ha neanche scalfito l’edificio pesante dei privilegi millenari! — E guardate alla Rivoluzione Francese: quanti partiti e sottopartiti, e circoli, e club e camarille in sanguinosa lotta tra di loro e tutt’insieme contro la monarchia e il feudalesimo. E non volle che il trapasso dei poteri da una classe decrepita ad una classe giovane piena di vigore e di ricchezze.
Ben più profondo solca la rivoluzione sociale, che vuole l’emancipazione di tutti i diseredati dalla schiavitù dello sfruttamento e, per conseguenza, il livellamento delle classi, l’abolizione di tutti i privilegi economici e politici. Ad un compito così immane dovranno necessariamente preludere tempeste di pensiero più vaste di quel che non richiedesse la Riforma, impeti d’azione più risoluta che non accompagnassero la rivoluzione borghese. Un mondo che nasce deve squarciare in ogni vena il mondo che muore. E siccome ha da essere razionale, bisogna che la ragione — attributo esclusivamente individuale — non trovi ostacoli, né freni al suo compito di guidare i pionieri che precedono e le moltitudini che seguono, all’attacco vittorioso ed alla creazione geniale, autonoma, giusta e, soprattutto, libera.
Di bavagli e di gioghi, di anatemi e di ruote è fin troppo prodigo il nemico, perché dobbiamo noi, per l’illusione di una unità formale che scoraggerebbe, se non altro, la fertilità delle menti, secondarne l’opera di evirazione nefanda.
Largo dunque alle idee, sproniamo i pochi uomini ai quali, in regime capitalistico, possono utilmente arrivare le nostre parole, a fare uso della propria testa, a pensare in libertà, ad ascoltare il monito intimo della propria coscienza. E se dalla ginnastica della loro intelligenza usciranno idee non perfettamente combacianti coi sacri canoni della nostra dottrina, non scandalizziamocene oltre misura: la libertà comprende anche la libertà di sbagliare, per noi e per gli altri.
No. Il pericolo non è nella molteplicità delle idee, delle tendenze o delle soluzioni ipotetiche degli infiniti problemi sociali. Il pericolo è piuttosto nella loro insufficienza numerica, nella loro impotenza dottrinaria, nella loro timidità rivoluzionaria; e per scongiurarlo non v’è altro mezzo che di incoraggiare il maggior numero possibile di cervelli a pensare e ciascun cervello a dare, senza freni arbitrari, tutta la potenza di pensiero di cui è capace.
Al contatto coll’esperienza, quando ciascuno possa in libertà esperimentare le sue idee, trionferanno le migliori.

Di fronte unico si dovrà quindi parlare soltanto nel campo dell’azione.
Ma siccome l’azione di ciascuno è rigorosamente determinata dai suoi principi teorici, anche in questo campo le possibilità di fronte unico sono limitate. Tra il rivoluzionario, che mira al sovvertimento delle istituzioni borghesi per mezzo dell’azione diretta, e il riformista, che mira al loro emendamento per mezzo dell’azione legale, i contatti sono rari ed effimeri. Possono trovarsi, in un dato momento, egualmente avversi ad un particolare sopruso delle istituzioni; ma il diverso metodo che all’uno e all’altro si impone, li divide in pratica così decisamente come il fine. Neanche sul terreno dell’azione insurrezionale può compiersi la loro riconciliazione, perché l’azione insurrezionale non è sempre rivoluzionaria nel senso sociale che noi, qui, intendiamo. Il riformista che ricorre alla insurrezione lo fa con preoccupazioni e con sistemi del tutto diversi dal rivoluzionario. Questi cerca di colpire le istituzioni dell’ordine costituito in tutte le loro manifestazioni; insorge con l’intento di trascinare tutto il popolo nel movimento iniziato; mentre il riformista non cerca di colpire che una particolare istituzione dell’ordine, il governo generalmente, o solo qualche organo del governo, e non ha perciò né l’interesse né il desiderio di sollevare il popolo: il suo unico scopo è di portare al potere gli uomini del suo partito, o anche di costringere il governo in soglio ad accettare alcune condizioni di cotesto partito. Del resto non si preoccupa.
Una situazione analoga esiste tra i rivoluzionari autoritari e i rivoluzionari libertari. Pei primi la rivoluzione non è un processo di liberazione popolare; è semplicemente conquista del potere, dopo di che le realizzazioni rivoluzionarie saranno compiute d’autorità dal nuovo governo. La preparazione rivoluzionaria è, per costoro, opera di organizzazione più che di propaganda, di gregarismo formale più che di emancipazione cosciente; e l’insurrezione — non indispensabile ai loro fini di conquista — è da costoro concepita esclusivamente come clima propizio alle operazioni militari dello stato maggiore del proprio partito, contro lo stato maggiore del governo esistente. Pei libertari, invece, la rivoluzione sociale è un processo di liberazione di tutte le energie popolari dalle catene del dominio politico, della tirannia economica e delle coercizioni morali; un progresso che non si compie dall’alto per via di leggi, ma dal basso per la volontà e per l’azione diretta delle moltitudini diseredate. Pei libertari la preparazione rivoluzionaria è il progresso di questo processo liberatore, il risveglio delle coscienze individuali, delle volontà di emancipazione e degli ardimenti che, smantellando i baluardi del vecchio ordine, precipitano l’attacco insurrezionale. E l’insurrezione, iniziata tra il popolo dalle minoranze d’avanguardia, non raggiunge mai la sua meta vittoriosa se non quando sia riuscita a trascinare le moltitudini all’opera di espropriazione della ricchezza e di demolizione degli istituti di dominio politico, senza possibilità di resurrezione. Mentre tutti gli autoritari considerano l’atto insurrezionale del popolo come un atto negativo, che permette loro di inaugurare la propria attività di governo, i libertari, gli anarchici considerano l’insurrezione popolare come un atto positivo che sbarazza l’ambiente sociale degli ostacoli politici, economici e morali opponentisi al benessere ed alla libertà delle moltitudini, permettendo a queste di iniziare in tutta indipendenza l’elaborazione delle forme libere della propria convivenza.
Il fondere sotto una medesima bandiera aspirazioni così diverse, metodi così opposti, non può che generare confusione e disorientamento.
All’atto pratico è impossibile. Come volete sottoporre ad una stessa regola di condotta, ad esempio, l’anarchico che ammette e preconizza e pratica, qualche volta, l’azione individuale, col comunista che la condanna sempre come una provocazione del nemico, quando non la compatisce come un inutile sacrificio? Bisognerebbe indurre l’anarchico a rinunciare al metodo che gli sembra migliore — e allora ne sarebbe mutilata la sua azione; oppure indurre il comunista ad adottare l’azione individuale, ciò che dal nostro punto di vista sarebbe un bene, ma lo metterebbe in urto con le gerarchie del suo partito, che lo bersaglierebbero dei loro fulmini olimpici. Nell’un caso come nell’altro vi sarebbe rinuncia a fare ciò che si crede utile, o impegno a fare cosa che si ritiene nociva alla causa della rivoluzione.
In pratica questo genere di rinunce od impegni porta a contraddizioni fragranti: comunisti che si ribellano al loro partito, e ne sono scomunicati come nemici pericolosi della causa proletaria; anarchici che si lasciano irreggimentare in formazioni militari sottomettendosi a quelle stesse restrizioni che vorrebbero sopprimere; libertari che combattono pel trionfo di partiti di governo rendendosene prigionieri. E tutto ciò, invece di giovare alla causa comune, nuoce alla causa di ciascuno, in quanto ne limita o ne deforma il contributo d’azione, aumenta la confusione ed è, in ultima analisi, una delle cause principali dell’incertezza in cui si dibatte perennemente il movimento rivoluzionario.

Luigi Galleani aveva enunciata in termini chiari la formula del "fronte unico rivoluzionario". «Il fronte unico — egli diceva — vuol dire soltanto: tutto il proletariato nelle sue più diverse fazioni d’avanguardia contro tutta la borghesia, classe e spirito, dovunque si rifugia, nell’oggi e nel domani... Il fronte unico della guerra di classe non è diverso da quell’altro, e dove è unico non è mai né uniforme, né rettilineo. Contro l’oste nemica stanno dai bersaglieri all’artiglieria, con caratteri, funzione, azione propria le più diverse falangi di combattimenti, così come di fronte alla nostra borghesia costellata nel simbolo e nel regime monarchico sono repubblicani e preti, socialisti ed anarchici, con atteggiamento, azione e fini particolari».
L’esercito rivoluzionario comprende tutti color che comprendono la necessità ineluttabile di abbattere il regime esistente; ma è vano illudersi, illusione sperare, assurdo volere che tutti i rivoluzionari marcino per la stessa via, sotto le medesime insegne, nei ranghi serrati di un esercito uniforme. Contro il nemico comune impieghi ciascuno le armi e i mezzi, e sventoli la bandiera che considera più efficaci.
Ciò non significa affatto che la rivoluzione debba o possa essere fatta dai soli socialisti o da soli anarchici. In realtà non potrebbe esser fatta neanche dai socialisti e dagli anarchici serrati in un esercito uniforme, a meno di non ottenere la cooperazione delle grandi masse popolari.
Significa soltanto che a smuovere le masse e ad attirarle nel vortice della rivoluzione, a parare i colpi del nemico, a smontarne il prestigio ed a minarne la potenza, anarchici e socialisti, ciascuna fazione d’avanguardia ha un metodo proprio di propaganda e d’azione, scaturito logicamente dalle sue convinzioni, e che quel metodo, essendo il più appropriato alla fazione che lo presceglie, è anche quello che è suscettibile di più efficace impiego delle energie di ciascuno, quello che può dare la maggiore somma di risultati. Non può dare tutto il contributo di cui sono suscettibili il suo entusiasmo e la sua autonomia, l’anarchico che combatte sotto gli ordini di un generale; come non può darlo il socialista che si vede privato degli ordini del suo capo. Il primo è paralizzato da una disciplina che diffida, il secondo è disorientato da una libertà che teme; e se è desiderabile addestrar questo a tenersi in equilibrio nell’assenza di capi, non lo è punto il costringer quello a procedere come se fosse afflitto dalla medesima infermità.
Segua dunque ciascuno la via che considera migliore, a cui si sente meglio atto e preparato. E ci si guardi soprattutto dal legare i più audaci al carro lento dei più timidi.
Per noi anarchici questa indipendenza assoluta delle fazioni rivoluzionarie, tanto nel campo del pensiero come in quello dell’azione è poi desiderabile anche per una ragione più direttamente connessa coi nostri principi. Considerando la rivoluzione come liberazione universale delle forze sociali, noi daremmo un cattivo esempio ai lavoratori che chiamiamo alla rivolta perché si abilitano mediante la resistenza e la lotta all’indipendenza, alla espropriazione e alla gestione della ricchezza economica e alla pratica della libertà poilitica, se incominciassimo col sottomettere noi stessi alle pretese di quelle fazioni che si propongono soltanto di conquistare il potere per poi governare noi insieme a tutti gli altri cittadini. Daremmo un cattivo esempio, da cui sarebbe ognuno autorizzato a concludere che noi predichiamo la libertà, ma non abbiamo fiducia in essa; che preconizziamo l’emancipazione di tutti gli uomini dal giogo della autorità politica, ma non sappiamo farne a meno noi stessi, in quanto cerchiamo nel compromesso coi partiti autoritari una disciplina formale — cioè legalizzata o legalizzabile — a cui servire.
Anarchici, noi dobbiamo invece dar sempre e a tutti, con la parola e con la pratica, l’esempio della realizzabilità dei nostri principi.


[L’Adunata dei Refrattari, volume XIV, n. 12 del 23 marzo 1935]

http://www.finimondo.org/node/306

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