venerdì 4 novembre 2011

LA RIVOLUZIONE NON SI PROCESSA


Dichiarazione allegata agli atti nell’udienza del 4 maggio 2009 (“Operazione Tramonto” )

Innanzitutto vogliamo ribadire che non riconosciamo la giustizia borghese che viene esercitata in quest’aula, perché essa è espressione del più generale sistema capitalista, fondato sull’oppressione e sullo sfruttamento delle masse proletarie. Abbiamo deciso di partecipare a questo processo nel preciso intento di dare voce agli interessi generali e storici della nostra classe, la classe operaia ed il proletariato, che oggi sta subendo per prima i pesanti effetti della crisi economica del sistema di cui voi siete i tutori giuridici.

La crisi del capitalismo è scoppiata in tutta la sua virulenza.

Ottenebrati dalla loro stessa propaganda ideologica, i partiti borghesi per anni hanno negato questa realtà, finendo per credere alle proprie barzellette sulla “fine della storia”, sulla “morte del comunismo”, sulla “eternità del capitalismo”… Eccoli lì oggi, sconvolti e increduli di fronte alle oscene devastazioni economico-sociali prodotte dal loro “incantevole” sistema!

Qualcuno arriva a chiedersi se il marxismo non ci avesse visto giusto…

In effetti, la violenta caduta attuale è una manifestazione particolarmente acuta ma pur sempre manifestazione di quella spirale di crisi strutturale che travaglia il capitalismo da ormai tre decenni. E che non trova, non può trovare, soluzione per ordinarie vie economiche.
Il marxismo, oltre ad aver indicato le cause della crisi nelle stesse leggi proprie del modo di produzione capitalistico, ha anche dimostrato che essa non può che incancrenire la realtà economico-sociale fino a portare sull’unica soluzione compatibile al sistema capitalistico: la guerra inter-imperialista per la ripartizione del mondo, la sconfitta dei concorrenti strategici, le immani distruzioni e l’approfondimento dello sfruttamento necessarie al rilancio dell’accumulazione di capitali.

La profondità della crisi si manifesta anche nel grande impulso ai movimenti di massa. Già da anni questi si stanno intensificando: dalle numerose lotte operaie in Europa, alla rivolta delle banlieu e degli studenti contro la precarietà in Francia, alla formidabile esplosione in Grecia in risposta alla violenza poliziesca. O allo stesso movimento studentesco qui in Italia e, di nuovo, in Francia (dove il governo è corso ai ripari, temendo una ripetizione del 2006). Per non parlare della molteplicità di lotte territoriali che vanno intensificandosi, come risposta immediata e spontanea della classe agli effetti della crisi.

Molte di queste lotte si caratterizzano per crescente radicalità, perché nei fatti toccano una fondamentale contraddizione di interessi. Nel contesto della crisi restano ben pochi margini per mediare, tutti i conflitti e le contraddizioni del sistema si acutizzano: fra capitale e lavoro, fra merci e bisogni sociali, tra profitto privato e bene comune, tra guerra imperialista e guerra di liberazione dei popoli, ecc.

D’altronde, lo si vede bene in Palestina cosa valgono la “democrazia borghese” ed i “trattati di carta”, per i criminali sionisti, alleati dei nostri padroni: ai popoli viene concessa la libertà di scegliere i propri cani da guardia al guinzaglio dei potenti. Altrimenti sono bombardamenti, strangolamento economico, ricatti e terrore imperialista.

Allo stesso modo, sul fronte interno del nostro paese si vede bene quale sia la ricetta per affrontare la crisi: cassa integrazione e licenziamenti per centinaia di migliaia di salariati, e bastonate agli operai che si ribellano come alla INSEE di Milano o alla FIAT di Pomigliano.

Oltre alla repressione, governo e ausiliari aizzano le masse popolari verso la mobilitazione reazionaria, alimentando campagne mediatiche che puntano a dividere e contrapporre settori di massa. Terreno strategico per la borghesia, tanto che a Roma viene preposto all’organizzazione delle “ronde civiche” niente meno che il gen. Mori, ex capo del SISDE.

Ma ancor più strategico per gli apparati repressivi dello Stato è il monitoraggio, la prevenzione e la repressione di percorsi politici di costituzione in politico-militare del proletariato; di costruzione dell’unico strumento in grado di creare una prospettiva positiva di uscita dalla crisi capitalistica, e cioè di sostenere il processo rivoluzionario che porta all’uscita e al superamento del capitalismo stesso. Passando per la decisiva tappa di scontro per il potere, condizione basilare per avviare il processo di edificazione del socialismo. La costruzione cioè di un Partito Comunista basato sull’unità del Politico-Militare.

Questo è il contesto politico in cui si colloca questo processo.

Perché il nostro percorso politico-organizzativo, i nostri arresti e la seguente vicenda giudiziaria e carceraria fanno pienamente parte dello scontro di classe e della sua tendenza più coerente e necessaria: lo sbocco nello scontro per il potere, tramite lo sviluppo di un processo rivoluzionario.
Tutte le parti in causa lo sanno.

E se la parte che lo accusa non lo ammette esplicitamente, se anzi cerca di mistificarlo, è il suo agire che lo rivela. Così, dal giorno degli arresti si è dato un dispiegamento mediatico da “grande avvenimento”. Ora, la cosa è pure in stridente contrasto con la realtà dei fatti: purtroppo la ripresa del processo rivoluzionario è ancora lenta, agli stadi iniziali. Ma c’è!

Ed è questo pericolo che lo Stato vuole scongiurare, stroncando sul nascere ogni embrione di organizzazione rivoluzionaria che si doti degli strumenti politico-militari necessari a sviluppare conseguentemente lo scontro di classe. Il tutto nel solco dei grandi cicli di lotte del Movimento Comunista Internazionale storico; passando necessariamente nel nostro paese anche per l’ultimo “assalto al cielo”, degli anni ’70/‘80.

Perciò la campagna mass-mediatica è stata una vera offensiva politica tesa a delegittimare i compagni arrestati: “terroristi, infiltrati nella classe operaia, gente dalla doppia vita, isolati…”

Campagna, però, che ha dovuto fare i conti non solo con i prigionieri e gli imputati, anche quelli estranei al nostro progetto politico, determinati comunque a difendere la propria identità e a sostenere la prospettiva rivoluzionaria per cui si lotta, ma anche con un’ondata di solidarietà che da subito si è sollevata su tutto il territorio nazionale e in alcuni ambiti europei (tanto da sconcertare l’allora Ministro dell’Interno, preoccupato per le 200 e più azioni di solidarietà riscontrate nei soli due primi mesi). Fin da subito dopo gli arresti, alla manifestazione nazionale di Vicenza contro la nuova base USA (febbraio 2007), molti compagni e proletari hanno rivendicato l’identità dei prigionieri e l’internità al movimento di classe, facendo conoscere la loro militanza d’avanguardia nel territorio e sul lavoro. Così è stato in seguito, ai cortei del 25 Aprile e del 1° Maggio; così in numerose e forti iniziative in Europa.

Assemblee, cene di solidarietà, raccolta di fondi nei luoghi di lavoro e tra amici e parenti, fino a culminare nella prima forte manifestazione di sostegno all’apertura della stagione processuale (il 12 dicembre ’07) con l’udienza preliminare e con le nostre prime dichiarazioni collettive in tribunale. E anche con l’inizio del primo sciopero della fame contro l’isolamento, nostro e in generale come campagna internazionale (incentrata sulla ricorrenza del 19 dicembre, giorno del massacro dei prigionieri in Turchia, in lotta contro le carceri speciali).


Nella strategia dell’accusa, il trattamento carcerario è ovviamente parte integrante dello scontro. Lo si è usato per attaccare il diritto alla difesa, con la dispersione in diversi carceri durante tutto l’arco del processo e con l’allontanamento a Catanzaro (a 1.200 km di distanza) durante le pause. Così si è reso pressoché impossibile il contatto con gli avvocati. Tramite giochetti burocratici si è cercato di impedire pure i contatti telefonici con loro, e ci si è impedito sistematicamente di portare in aula i nostri testi, da concordare assieme e da leggere pubblicamente.
Ma il perno del trattamento carcerario è consistito nell’arbitraria imposizione di lunghi periodi di isolamento, fino al massimo di un anno. L’isolamento (considerato forma di tortura pure secondo alcuni organismi borghesi internazionali) è praticato in tutto il mondo come arma repressiva contro i movimenti rivoluzionari e di liberazione.

Arma impiegata assieme alle classiche intimidazioni e pestaggi, come quello avvenuto presso il carcere di Rebibbia, ed all’interno del più generale circuito di trattamento differenziato (culminante nel regime del 41 bis, vera e propria tortura legalizzata), al preciso scopo di piegare, spezzare la resistenza dei militanti ed estorcere capitolazione e dissociazione.

Ma proprio su questo terreno si è data una prima positiva verifica: quasi tutti i compagni hanno fatto fronte dignitosamente alla repressione, pur nella diversità di posizioni e di investimento militante. Il disegno repressivo volto a disarticolare e disunire è stato ribaltato in occasione di unità e riaffermazione delle ragioni rivoluzionarie, fra gli imputati e fra questi e la mobilitazione solidale esterna. Un’unità che ha permesso di contrastare efficacemente l’isolamento con gli scioperi della fame promossi dai prigionieri, sostenuti dalle iniziative esterne davanti alle carceri.

Conquistando la fine dell’isolamento stesso.


L’avvio del dibattimento, il 27 marzo ‘08, esplicitava tutti i termini dello scontro: la militarizzazione del tribunale, l’accanimento del P.M. ad impedire, a tutti i costi, l’espressione politica dell’istanza rivoluzionaria, hanno dato il tono sin dall’inizio.

Trovando però la nostra determinazione a fare di questo processo politico quello che è: un momento di scontro all’interno della lotta di classe, per l’affermazione e lo sviluppo della tendenza rivoluzionaria.

Invece, la giustizia borghese tenta sempre la carta della criminalizzazione; arma fondamentale che la classe degli oppressori usa per isolare e screditare chiunque si ribelli e si sottragga all’ordine imposto. Si indica alla “pubblica indignazione” il proletariato che, per sottrarsi alla miseria cui viene condannato, va a rubare; nascondendo così la realtà di un sistema basato su quel crimine legalizzato che è l’appropriazione del prodotto del lavoro sociale. Furto, rapina e persino omicidio continuati e reiterati ai danni della classe operaia e del lavoro sociale nel suo insieme. Un sistema di cui la presente esplosione di crisi fa emergere il profondo ed immanente carattere criminale, basato sullo sfruttamento, il taglieggiamento, la spoliazione di masse enormi di popolazione.

Ma la giustizia borghese si è spinta a peggiori bassezze: non solo ha letteralmente falsificato alcune prove, artefacendo trascrizioni ed intercettazioni, essa ha pure convocato contro di noi il peggior squallore del loro sistema. Da Forza Nuova, tra le principali organizzazioni di stampo fascista, protagonista in questi giorni di aggressioni razziste e antiproletarie, alle squallide figure di infami come Maniero. Fino alla provocatoria presenza dell’on. Ichino, tra i principali studiosi ed architetti dell’incessante smantellamento del sistema di tutele e di diritti conquistati con le lotte storiche del movimento operaio.

A queste meschine congetture e provocazioni abbiamo risposto e ribadiamo che il movimento rivoluzionario del proletariato ha sempre rivendicato le proprie pratiche – fra cui l’esproprio proletario, come legittimo atto di riappropriazione nei confronti del grande rapinatore sociale, cioè il Capitale – così come rigetta tutte quelle pratiche che, ispirate da pura avidità e disprezzo per le masse popolari, diffondono miseria e autodistruzione.

Rivolgiamo invece al potere borghese le sue stesse accuse: che spieghi a chi sono funzionali quelle forze reazionarie che aizzano guerre fra poveri, proprio nel momento in cui è necessario nascondere i veri responsabili della crisi. Spieghino a chi sono funzionali gli “infiltrati” (questi sì, visto che non hanno mai conosciuto un’ora di lavoro in fabbrica) che stanno dentro al sindacato, lavorando a scardinare il sistema di diritti acquisiti e di organizzazione operaia, a subordinare rigidamente la classe operaia al Capitale. Spieghino dove conducono i fili del grosso traffico internazionale di droga, di chi sono amici, o meglio servi, i narco-regimi di Colombia, Afghanistan, Thailandia, Turchia, Kosovo, ecc.

La pratica del movimento comunista rivoluzionario è una pratica nota a tutti. Altrettanto non si può dire dello Stato borghese e delle sue svariate bande armate, che hanno costellato la storia del nostro paese di stragi, massacri, repressione, per sottomettere le masse popolari e garantire ai capitalisti l’egemonia sociale.


Per quanti limiti ed errori ereditiamo dal passato delle rivoluzioni realizzate e poi degenerate, crediamo sia necessario, impellente, e soprattutto possibile, riprendere il cammino. E proprio risolvendo quei limiti ed errori che, ne siamo coscienti, furono sfruttati ed alimentati dall’imperialismo proprio per far degenerare le rivoluzioni e riassorbirle.

Non si tratta solo di limiti, però! Le rivoluzioni realizzate ci hanno lasciato un enorme patrimonio ed avanzamenti, che infatti vengono impiegati nei processi rivoluzionari e nelle guerre popolari ora in corso nel Tricontinente. È quell’insieme di acquisizioni che si riassumono nel Marxismo-Leninismo-Maoismo e nella teoria della Guerra Popolare Prolungata. In effetti, se si vuole uscire dai recinti istituzionali in cui il conflitto sociale viene addomesticato, bisogna dotarsi dei mezzi necessari per diventare una forza autonoma, capace di proporre un’alternativa sociale.

Mezzi che sono anche il risultato di un’“analisi concreta della situazione concreta”, in base all’obiettivo di trasformare le forze espresse dalla resistenza dei movimenti di massa in vera forza d’attacco, in forza capace di progettare e sostenere lo sviluppo di un processo rivoluzionario. Obiettivo che si può realizzare solo nell’unità del politico-militare, come concretizzazione di queste esigenze e possibilità.

Mezzi che permettono la costruzione di una politica che riesca a coniugare l’espressione dell’autonomia di classe con movimenti di attacco capaci di incidere sui rapporti di forza generali, concretizzando nell’unico modo serio e conseguente il rapporto con Stato e padroni: l’attacco.

In sintesi: la politica rivoluzionaria come realizzazione, portato, del Partito Comunista Politico-Militare.


Dall’intento di impedire tutto ciò scaturisce l’attenzione repressiva da parte dello Stato, che concentra il peso del suo apparato soprattutto contro le istanze comuniste impegnate nel suddetto percorso di costruzione.

È una questione strategica sia per la borghesia imperialista e la sua sopravvivenza, sia per il proletariato e la sua emancipazione dalle catene dello sfruttamento: la partita decisiva, nello scontro di classe, per aprire (o, viceversa, impedire) il processo rivoluzionario, si da attorno alla costruzione del Partito, in quanto organizzazione adeguata alla guerra popolare di lunga durata.

Questa è la partita, questo è il nodo attorno a cui verte lo scontro.

Modestamente, e con tutti i limiti del caso, i comunisti presenti in questo tribunale borghese, firmatari di questo testo, lo sono per queste ragioni, per queste esigenze della via rivoluzionaria, qui ed oggi.

Il nostro contributo politico-ideologico-organizzativo è così motivato, si fonda in queste inderogabili esigenze per la lotta rivoluzionaria.

Per questo ci troviamo qui a confrontarci con la giustizia borghese, quale momento del più generale scontro e nell’interesse generale della nostra classe.

Questo processo, come tutti i processi politici, oltrepassa la stretta questione giudiziaria. Anche perché la parte in causa esiste in quanto ipotesi di attacco all’ordine costituito, e affermazione di un “nuovo ordine possibile”: il socialismo.

Non è perciò nel quadro giuridico, pilastro di questo stesso sistema, che vi può essere la soluzione. Il quadro giuridico fa parte del problema non certo della soluzione. In altre parole, storicamente affermate: “Non riconosciamo l’ingiustizia borghese, la combattiamo!”. Questo grido è risuonato nelle aule di tribunale dove si intendeva giudicare i militanti della Resistenza al nazifascismo, i militanti africani, asiatici, sudamericani, della liberazione anti-coloniale, ed i combattenti dei partiti comunisti e organizzazioni dei giorni nostri.

Al diritto borghese, espressione dell’ordine di oppressione e sfruttamento di classe, si oppongono l’idea e la prassi rivoluzionaria per dare voce e corpo alle aspirazioni di libertà delle classi oppresse.

Ribadiamo il nostro essere qui presenti per affermare le ragioni, le possibilità della rivoluzione proletaria, e la necessità del Partito come suo strumento essenziale.



LA RIVOLUZIONE NON SI PROCESSA
È GIUSTO RIBELLARSI
DEMOCRAZIA È IL FUCILE IN SPALLA AGLI OPERAI
CONTRO L’IMPERIALISMO, PRIGIONE DEI POPOLI, TRASFORMARE LA GUERRA IMPERIALISTA IN GUERRA RIVOLUZIONARIA DI CLASSE
COSTRUIRE, NELLA PRASSI RIVOLUZIONARIA, IL PARTITO COMUNISTA POLITICO-MILITARE


I militanti per la costituzione del Partito Comunista Politico-Militare PCp-m

Claudio Latino

Alfredo Davanzo

Bortolato Davide

Vincenzo Sisi

http://www.senzacensura.org/public/arkivio/IT_47_IM05_16062009.htm

Nessun commento:

Posta un commento