martedì 24 gennaio 2012

(it/es)-Si, ma cosa volete in fondo?


Questo numero di Adesso sarà diverso dagli altri. Tenteremo di rispondere a una domanda che ci viene rivolta spesso: "Sì, ma cosa volete in fondo?". Più d’uno si stupirà forse di un taglio così generale proprio in questo momento, con la repressione che incalza, con gli ultimi arresti di anarchici a Trento e gli altri in tutta Italia. Certo le cose da dire su tutto ciò non ci mancano, e le diremo al più presto. Ormai anche i ciechi dovrebbero essersi accorti di come il potere stia colpendo in modo sempre più aperto ogni forma di dissenso. Eppure la repressione non deve mozzarci il fiato, costringendoci a seguire solo i suoi tempi. Né ci piace il ruolo delle eterne cassandre. Forse proprio per questo abbiamo sentito l’esigenza – perché ora?, non è facile dirlo – di scrivere qualche riga sulla vita per cui ci battiamo, al di là delle lotte e degli episodi specifici, e a dispetto di poliziotti, procuratori, giornalisti e secondini. I problemi che solleviamo – ad esempio quello di una società senza carcere – li sfioriamo appena, si può dire. Ci vorrebbe al riguardo ben altro che un numero di Adesso. Eppure avevamo voglia di provarci, sia pure nei limiti angusti del nostro foglio di critica sociale. Ma da dove partire?

Sappiamo che non è possibile andare al fondo dei nostri desideri, letteralmente senza fondo. Allo stesso tempo non troviamo difficoltà ad ammettere che abbiamo un ideale. Per noi un ideale è un modo quotidiano di vivere e allo stesso tempo la prefigurazione del mondo in cui vorremmo abitare. Idea, ideale sono concetti che rinviano, etimologicamente, alla capacità visiva, alla visione. Si tratta di una facoltà immaginativa, di prefigurazione, appunto.

Prefigurare non significa costruire minuziose architetture di mondi alternativi, mappe dettagliate della terra di Utopia. Oltre che impossibile, ciò ricalcherebbe un’idea di società opposta a quella che vogliamo: una società pianificata da pochi con l’intento di "migliorare l’umanità", anche contro… il suo volere.

La prefigurazione è per noi un’immagine che balena nella mente, un’immagine in cui l’esperienza si mescola con la tensione e la speranza, in cui le possibilità del passato incontrano la rottura col presente. Quest’immagine si nutre di lotte e di valori, di tecniche e di saperi, di spazi e di tempi. Ecco di cosa parleremo in questo numero, consapevoli che ciò che vogliamo non può che "portare il panico alla superficie delle cose".

COME SASSI NELL’ACQUA

Individui innanzitutto. Le definizioni, quando non sono gabbie, sono come dei sassi lanciati nell’acqua: creano cerchi sempre più ampi, ma nessuno di questi riesce a contenere completamente la nostra individualità. Coscienti di questo, le parole non ci fanno paura. Perché siamo anarchici?

Perché vogliamo un mondo basato sulla reciprocità e sul mutuo appoggio, non sul dominio e sullo sfruttamento. Un mondo senza Stato e senza denaro.

Riconosciamo la necessità di accordi – o, se si preferisce, di regole – per vivere assieme; ma gli unici accordi degni di questo nome sono per noi quelli liberamente e reciprocamente creati e definiti, non quelli imposti unilateralmente da chi ha il potere di fare le leggi e la forza militare per farle rispettare. Regole e leggi per noi non sono affatto sinonimi. La legge è un modo ben particolare – basato sulla coercizione – di concepire la regola. Nei limiti delle possibilità, cerchiamo fin d’ora di vivere in base al libero accordo, non accettando autorità che decidano per noi.

Siamo per il mutuo appoggio perché sappiamo che l’equità non basta se non è accompagnata da un sentimento di solidarietà cosciente e volontaria. Contrariamente al modello liberale che vede nell’altrui libertà un limite alla propria, sentiamo che la nostra libertà si estende all’infinito attraverso la libertà degli altri. Contrariamente al comunismo autoritario, sappiamo che l’uguaglianza è sorella del dispotismo se non è lo spazio in cui esprimere le differenze individuali.

Un modo diverso di concepire le regole determina anche una diversa maniera di affrontare i conflitti. Innanzitutto, ciascuno risponde per noi solo della violazione di regole che ha egli stesso definito e condiviso – e non di leggi che altri hanno stabilito in nome suo; in secondo luogo, gli stessi conflitti vanno affrontati in modo non repressivo, come segnalatori di accordi inadeguati, come sperimentazione di nuovi rapporti. In ogni caso la soluzione dei contrasti non deve istituzionalizzarsi in organi repressivi – carceri e segregazioni in genere –, i quali non farebbero altro che ricreare quel potere oppressivo e arbitrario di cui conosciamo tutti la natura e le conseguenze. Insomma, la "giustizia" non deve mai separarsi dalla comunità che la esprime in apparati specializzati che tenderebbero prima di tutto a riprodurre se stessi e i propri privilegi. Nessuna ricetta, ovviamente, solo una sensibilità antiautoritaria da affinare sulle rovine di ogni prigione.

Per poter decidere insieme senza un potere accentratore è necessario poter dialogare in modo diretto e orizzontale. La società per cui ci battiamo è una società del faccia a faccia. Una civiltà di massa, come quella industriale, specializza estremamente i compiti, crea gerarchie ovunque e rende gli individui incapaci di capire il prodotto delle loro relazioni sociali. Poiché il pensiero è unito all’azione solo nell’individuo – le forze sociali sono sempre cieche –, è necessario che l’attività svolta sia diretta, controllata e capita dagli individui stessi. Il lavoro salariato si basa invece sull’esatto contrario: pochi dirigenti organizzano, mentre la massa esegue, incapace di padroneggiare e di riparare le macchine – di cui diventa così una mera appendice –, nonché di comprendere il prodotto della propria attività.

Solo nelle menti autoritarie l’universale e il locale si oppongono, per cui non ci sarebbe via d’uscita, in una simile visione, dal gigantismo delle città e degli apparati produttivi. In realtà, o riusciremo a reinventare una vita sociale su basi più piccole – dal piccolo al grande, attraverso unioni orizzontali –, su tecniche più semplici, oppure ci dirigeremo sempre più verso la disintegrazione di ogni autonomia individuale e verso il collasso ecologico. È urgente dissolvere i legami massificati – fonte di conformismo, di inquinamento e di angoscia esistenziale – per sperimentarne altri più adatti ai bisogni e ai desideri di ciascuno.

Contrariamente alla visione del progresso che ci viene imposta, per cui la storia è una sorta di linea retta dalle caverne al Fondo Monetario Internazionale, l’umanità ha vissuto per millenni in società senza Stato e senza potere centralizzato. Ora, non si tratta certo di sognare il ritorno a una mitica Età dell’oro, bensì di scorgere nel passato quei rapporti e quelle tecniche che possono aiutarci a trasformare il presente. La riscoperta di una nuova autonomia (alimentare, energetica, medica, eccetera) è per noi inscindibile da un processo rivoluzionario di distruzione dello Stato e di smantellamento della società industriale. Reinventare il rapporto tra la solitudine e l’incontro, fra il bosco e il villaggio, fra la campagna e il borgo non è solo una tensione etica: è una necessità vitale. Il capitalismo sta attaccando le fonti stesse della vita – il cibo, l’aria, l’acqua – trasformandole in merce. Pensare di ritagliarsi qualche riserva in questo gigantesco supermercato è per noi illusorio. Allargare gli spazi di autonomia – sperimentando forme di vita e rapporti altri – e sovvertire il presente ordine delle cose sono, lo ripetiamo, aspetti inseparabili.

Contrariamente alla propaganda tecnologica, per cui tutto ciò che è tecnicamente efficace è anche socialmente positivo, riteniamo che le tecniche vadano sempre sottoposte a considerazioni etiche e sociali, e che si debba tornare indietro quando una pretesa efficienza tecnica è ottenuta grazie ad una maggiore specializzazione, ad un maggiore potere o a un complessivo impoverimento dei rapporti umani.
"E QUINDI?"

Alcune di queste riflessioni sono comuni ormai a parecchie persone, rivoluzionarie o anche soltanto critiche. Ciò che ci caratterizza in quanto anarchici, è che consideriamo i fini inseparabili dai mezzi, poiché nei metodi di lotta intravediamo già la vita per cui ci battiamo. Abbiamo imparato con dovizia di esempi storici dove ha portato la logica dell’opportunismo, delle eccezioni tattiche e strategiche, della "transizione al comunismo" (che mai transita, ma che tutto giustifica). A dittature spietate o a socialdemocrazie assassine.

Qualcuno diceva che non si può combattere l’alienazione in forme alienate. Non si possono riprodurre nei propri rapporti e nelle proprie pratiche le stesse dinamiche del dominio che si combatte. In questo senso, siamo per l’autorganizzazione delle lotte, cioè per l’autonomia da tutte le forze partitiche e sindacali, per la conflittualità permanente con il potere, le sue strutture, i suoi uomini, le sue ideologie. Così come rifiutiamo l’imbroglio elettorale – con cui si occulta la dittatura del capitale –, allo stesso modo rifiutiamo i leader, le gerarchie, i comitati centrali, i portavoce mediatici (cioè i futuri capi politici).

Attaccare il potere invece di riprodurlo, disertarne le istituzioni invece di mendicarne le sovvenzioni sono metodi che, nell’immediato, possono sembrare poco efficaci e accompagnati da un certo isolamento (ben preparato dal costante linciaggio mediatico). A ciò si può rispondere che il senso di quello che si fa va afferrato nell’attività stessa, e non con il metro dei risultati quantitativi; anche perché le forze sociali sono imprevedibili, non si misurano coi censimenti, e in fondo ciò che vediamo sono solo i primi cerchi formati dai sassi che lanciamo. D’altra parte, la ricerca della coerenza è la forza che contiene tutte le forze, e questo non per adesione sacrificale a una dottrina, ma per il piacere che proviene da un animo concorde con se stesso. Nell’unione di pensiero e azione si rinnova, diceva Simone Weil, il patto dello spirito con l’universo.

Per questo ciò che può sembrare "purismo" (come dicono spregiativamente i realisti) è invece un modo ben concreto di palpare l’esistenza, "nel piacere fiero della battaglia sociale". Non crediamo ai soli dell’avvenire che sorgono mentre si calcola nei retrobottega. Inoltre, non collaborando con le istituzioni, nessuno potrà mai rinfacciarci di aver mangiato dalla stesso piatto – e anche questo conta.

L’autorganizzazione di cui parliamo non è un nostro moto dello spirito. È una realtà che esiste nel mondo, sia come pratica sociale durante le esplosioni insurrezionali (pensiamo solo alle assemblee di quartiere in Argentina o agli aarch in Algeria), sia come metodo di lotta in conflitti più specifici (pensiamo, di recente, ai blocchi dei pulitori ferroviari, di Scanzano Jonico, della Campania, o agli scioperi selvaggi dei ferrotranvieri). L’azione diretta è sperimentata da migliaia di sfruttati non per ideologia, ma perché è l’unico modo per strappare qualche miglioramento reale ai padroni. Quella critica anticapitalista che gli intellettuali trovano astrusa, superata o criminale, molti sfruttati la verificano nelle loro lotte perché sperimentano il capitalismo sulla loro pelle. E noi, in tutto ciò?

Non avendo alcuna mentalità avanguardista, diamo semplicemente il nostro contributo, ovunque riusciamo, per favorire pratiche di autorganizzazione e di azione diretta. Quando possibile, proponendo in prima persona situazioni di lotta sociale, altrimenti intervenendo, sulle nostre basi, in conflitti determinati da altri. Non essendo degli specialisti, non abbiamo campi di intervento esclusivi, anche perché questa società ha ormai raggiunto un tale grado di interdipendenza fra le sue parti che non è possibile modificare profondamente alcun aspetto significativo senza mettere in discussione tutto. Persino la richiesta di un cibo non inquinato – come ha scritto qualcuno – ha bisogno, per essere soddisfatta, dello smantellamento dell’intero sistema di produzione, di scambio e di trasporto esistente. Dal problema della devastazione ambientale a quello della guerra, quando la critica vuole andare a fondo si trova di fronte l’intera società con i suoi cani da guardia. Certo, alcune questioni ci stanno più a cuore di altre, anche perché le riteniamo meno recuperabili – cioè neutralizzabili – dal dominio. Se è concepibile un potere che faccia a meno degli inceneritori o di certe tecnologie altamente inquinanti, non è concepibile un potere che faccia a meno del carcere, così come non sono mai esistiti affossatori di rivoluzioni che non abbiano ricostruito delle prigioni. Eppure, a ben guardare, lo stesso problema del carcere rinvia a quello dell’autonomia nelle decisioni e del possesso di ciò di cui si ha bisogno per vivere. Finché non impareremo a preferire il libero accordo all’imposizione, la solidarietà all’avvilente competizione, la logica del castigo ricostruirà le sue gabbie e i suoi orrori.

Siamo per la rottura rivoluzionaria perché sappiamo che le mentalità servili hanno bisogno di uno scossone al pari delle istituzioni sociali, ma sappiamo anche che un’insurrezione è solo l’inizio di un cambiamento possibile e non una panacea. Pronti ad unirci a chiunque voglia davvero abbattere l’attuale dominio, difenderemo con le unghie e con i denti la nostra possibilità di vivere senza imporre né ricevere ordini da un’autorità, da un partito, da un comitato centrale. L’esperienza storica ci ha insegnato che i peggiori oppressori possono indossare l’abito del rivoluzionario, e non vogliamo certo annullarci in alleanze con gli strangolatori di ogni spontaneità sovversiva e di ogni libertà. Per noi l’unica violenza accettabile è quella che libera e non soggioga, quella che distrugge il potere e non lo riproduce, quella che difende la possibilità di ciascuno di vivere a modo suo. Imporre la libertà è un controsenso. Se per vincere occorresse erigere le forche, diceva Malatesta, allora preferiremmo perdere.

Che il coro delle intelligenze asservite ripeta che una rivoluzione è impossibile non ci impressiona né stupisce. Non è forse quello che i Trenta tiranni ripetevano ai democratici ateniesi, gli aristocratici ai borghesi, i latifondisti ai contadini messicani, i democratici agli anarchici spagnoli, i burocrati stalinisti agli insorti ungheresi, i sociologi ai “lupi mannari” (come li definì la Pravda) del Maggio francese? “Coloro che fanno le rivoluzioni a metà non fanno che scavarsi la fossa”, diceva qualcuno. Ed è l’unico suggerimento che vogliamo trarre da chi ci ha preceduto sulla strada di una rivoluzione anarchica.

Considerandoci sfruttati al fianco di altri sfruttati, pensiamo che anche la nostra impazienza, la nostra determinazione ad attaccare qui e subito facciano parte dello scontro di classe. Non ammettiamo gerarchie fondate sui rischi previsti dal codice penale: un volantino ha la stessa dignità di un sabotaggio, perché l’azione diretta non si oppone per noi alla diffusione delle idee.

Gli anni a venire saranno carichi di conflitti, alcuni difficili da decifrare, altri chiari perché netti come le barricate. L’autorganizzazione tornerà con forza a bussare alle porte della guerra sociale.

Complici nostri sono e saranno tutti gli individui disposti a battersi per conquistare la libertà assieme agli altri, anche a rischio di giocarsi la propria.

Carcere di Trento, 23 luglio 2004.
FIGURA DI MERDA

Sarà a breve disponibile un dossier sull’arresto dei sei anarchici a Trento, in cui si svela al pubblico la figura di merda di fascisti infami e bugiardi, di carabinieri maneggioni e maldestri, di pubblici ministeri in cerca di carriera, di giornalisti costretti a servire troppi padroni. Un libretto sull’inquisizione democratica e sulla solidarietà che non si arresta. Per richieste scrivere al nostro indirizzo.

« Non chiederci la formula
che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba
e secca come un ramo.
Codesto solo oggi
possiamo dirti,
ciò che non siamo
ciò che non vogliamo. »
Eugenio Montale

« In ogni uomo,
in ogni grido,
In ogni grido
di bambino
quando urla
spaventato
In ogni voce,
in ogni divieto,
Io sento rumori
di manette dalla
Mente forgiate. »
William Blake


Vale, pero al final, ¿qué quieren?

Traducción (aproximativa) desde el francés del texto “Oui, mais au fond, qu’est-ce que vous voulez”, extraído del libro “A couteaux tirés avec l’Existant, ses défenseurs et ses faux critiques”, compilación de textos italianos editada por Mutines Séditions.

Este número de Adesso sera diferente de los otros. Intenteremos contestar una pregunta que a menudo nos hacen : “Vale, pero al final, ¿que quieren?”. Algunxs se asombrarán tal vez de tanta general elección, en un periodo cuando la represión se calienta, con las últimas encarcelaciones de anarquistas en Trento y en el resto de Italia. Sin duda alguna las cosas que decir sobre todo esto no faltan, y las diremos lo antes posible. En adelante, incluso lxs más ciegxs tendrían que darse cuenta de que el poder golpea de manera siempre más abierta cualquier forma de disension. Sin embargo, la represión no debe dejarnos sin aliento forzandonos a seguir unicamente sus vencimientos. El papel de Casandra eterna no nos gusta. Tal vez es por eso que sentímos la exigencia -¿porque ahora?, no es fácil de decir- de escribir unas cuantas lineas sobre la vida por la cual luchamos, más allá de las luchas y de los episodios particulares, y a pesar de lxs picoletxs, de lxs fiscalxs, de lxs periodistxs y de lxs matonxs. Los problemas que ponemos de relieve -como por ejemplo el de una sociedad sin carcél- casí a penas se rozarán. Para eso necesitariamos mucho más que un número de Adesso. Por lo tanto nos apetece intentarlo, incluso dentro de los estrechos límites de nuestro papel de critica social. ¿Pero de dónde salir?

Sabemos que es imposible el ir hasta el fondo de nuestros sueños, cuales son literalmente sin fondo. A la vez, no nos cuesta nada admitir que tenemos un ideal. Para nosotrxs, un ideal es un modo cotidiano de vivir y a la vez la prefiguración del mundo en el que nos gustaría habitar. Idea, ideal son conceptos que remiten, etymologicamente, a la capacidad visual, a la visión. Se trata de una facultad imaginativa, de prefiguración, precisamente.

Prefigurar no significa construir arquitecturas minuciosas de mundos alternativos, mapas detallados de la tierra de Utopía. Además de que es imposible, eso remitiría a una idea de sociedad opuesta a la que queremos : una sociedad que planifica unxs cuantxs con la intención de “mejorar la humanidad”, incluso en contra de... su propia voluntad.

Para nosotrxs, la prefiguración es una imagen que traspasa la mente, una imagen en la cual la experiencia se mezcla con la tensión y la esperanza en la cual las posibilidades del pasado se encuentran con la ruptura del presente. Esta imagen se alimenta de luchas y valores, de técnicas y de saberes, de espacios y de tiempos. De eso se tratará en este número, concientes de que lo que queremos unicamente puede “llevar el pánico a la superficie de las cosas”.
COMO PIEDRAS A LA SUPERFICIE DEL AGUA

Ante todo somos individuxs. Las definiciones, cuando no son jaulas, son como piedras tiradas a la superficie del agua : crean círculos siempre más anchos, sin que ninguno de ellos logre contener totalmente nuestra individualidad. Concientxs de ello, las palabras no nos asustan. ¿Porqué somos anarquistxs?

Porque queremos un mondo basado en la reciprocidad y el apoyo mutuo, y no en la dominación y la explotación. Un mundo sin Estado y sin dinero.

Reconocemos la necisidad de acuerdos – o sea, de reglas – para vivir juntxs ; pero, para nosotrxs, los únicos acuerdos válidos son aquellos creados y definidos con libertad y reciprocidad, y no aquellos que se imponen de forma unilateral por lxs que tienen el poder de hacer las leyes y la fuerza militar para que se respecten. Reglas y leyes no son sinónimos para nada. La ley es un modo muy particular – basado en la coercición – de concebir la regla. Hasta ahora, y con el límite de nuestras posibilidades, hemos buscado vivir con la base del libre acuerdo, negandonos a que una autoridad decida para nosotrxs.

Somos partidarixs del apoyo mutuo, porque sabemos que la equidad no basta si no está acompañada de un sentimiento de solidaridad conciente y voluntario. Al contrario del modelo liberal que ve la libertad delx otrx como un límite a la suya, sentimos que nuestra libertad se esparce al infinito a través de la libertad de lxs demás. Al contrario del comunismo autoritario, sabemos que la igualdad es hermana del despotismo si no es el espacio dónde expresar las diferencias individuales.

Un modo diferente de concebir las reglas determine también una otra forma de enfrentarse a los conflictos. En primer lugar, para nosotrxs cada unx responde únicamente de la violación de reglas que ellx mismx ha definido y compartido – y no de leyes que otrxs han establecido en su nombre ; en segundo lugar, los mismos conflictos se enfrentan en un modo no represivo, como señales de acuerdos inadecuados, como la experimentación de uevas relaciones. En todos los casos, la solución a las discrepancias no debe ser institucionalizada en órganos represivos – como las cárceles o la segregaciones de todos tipos – que no harían más que recrear este poder opresivo y arbitrario, del cual conocemos todxs la naturaleza y las consecuencias. En resumidas cuentas, la “justicia” no debe separarse de la comunidad que la expresa, encarnandose en los órganos especializados que tendran a reproducirse, juntos con sus privilegios. Ninguna receta, por supuesto, únicamente una sensibilidad anti-autoritaria que se afinará encima de las ruinas de todas las cárceles.

A fin de poder decidir juntxs sin poder centralizador, es necesario poder dialogar de forma directa y horizontal. La sociedad por la cual luchamos es una sociedad del cara a cara; Una civilización de masa, como la civilización industrial, especializa al extremo las tareas, crea jerarquías por todas partes y vuelve lxs individuxs incapaces de entender el producto de sus relaciones sociales. Porque el pensamiento solo se une a la acción en lx individux – las fuerzas sociales siempre son ciegas –, es necesario que la actividad realizada sea directa, controlada y entendida por lxs mismxs individuxs. A cambio el trabajo asalariado se basa en el exacto contrario : unxs dirigentes organizan mientras la masa ejecuta, incapaz de dominar y reparar las máquinas – de la cual nos volvemos un simple apéndice –, tampoco de entender el producto de su propia actividad.

Solo dentro de mentes autoritarias se oponen el universal y el local. En tal visión no hubiera salida al gigantismo de las ciudades y de los aparatos productivos. En realidad, o conseguiremos reinventar una vida social en bases más simples – del pequeño al grande a través de uniones horizontales –, en técnicas más sencillas, o nos dirigiremos siempre más hacia la desintegración de cualquier autonomía individual y hacia el caos ecológico. Es urgente disolver los vínculos masificados – fuentes de conformismo, contaminación y angustia existencial – para experimentar otros, mejor adaptados a las necesidades y a los deseos de cadx unx.

Al contrario de la visión del progreso que nos imponen, en la cual la historia se parece a una linea recta que va de las cuevas al Fondo Monetario Internacional, la humanidad vivió durante miles de años en comunidades sin Estado y sin poder centralizado. Hoy en día, no se trata de soñar con una mítica “edad de oro”, sino de descubrir de nuevo en el pasado qué relaciones y qué técnicas pueden ayudarnos a transformar el presente. Para nosotrxs, el redescubrimiento de una nueva autonomía (alimentaria, energética, en la salud, etc.) no se puede separa de un proceso revolucionario de destrucción del Estado y del desmantelamiento de la sociedad industrial. Reinventar una relación entre la soledad y el encuentro, el bosque y el pueblo, el campo y el burgo, no es solamente una tensión ética : es una necesida vital. El capitalismo ataca las fuentes primas de la vida – la comida, el aire, el agua – al transformarlas en mercancías. Para nosotrxs es ilusorio pensar retirarnos en cualquiera reserva de este gigantesco supermercado. Ensanchar los espacios de autonomía – experimentando otras formas de vivir y de relacionarse – y subvertir el presente orden de las cosas, lo repitamos, son aspectos inseparables.

Al contrario de la propaganda tecnológica, por la cual todo lo que es tecnicamente eficaz se vuelve socialmente positivo, creemos que las técnicas solo valen cuando se someten a consideraciones éticas y sociales, y que se debe hacer marcha atrás cuando una supuesta eficacidad técnica se obtiene gracias a una especialización más grande, un poder más potente o un empobrecimiento general de las relaciones humanas.
“¿Y ENTONCES QUE ?”

Algunas de estas reflexiones son en adelante banales para la mayoría de las personas, revolucionarias o solamente críticas. Lo que nos caracteriza como anarquistxs, es que consideramos inseparables los fines y los medios, porque los métodos de lucha ya dejan entrever la vida por la cual peleamos. A pesar del maquiavelismo dominante, sabemos que negandonos a emplear ciertos medios rechazamos también ciertos fines, precisamente porque estos últimos siempre estan contenidos en los primeros. Sabemos, y no faltan los ejemplos históricos, donde llevó la lógica del oportunismo, de las excepciones tácticas y estratégicas, de la “transición hacia el comunismo” (que nunca termina pero que lo justifica todo). A dictaduras despiadadas o a social-democracias asesinas.

Alguien decía que no se puede luchar contra al alienación con formas alienadas. No se puede reproducir en nuestras propias relaciones y prácticas las mismas dinámicas que las de la dominación contra la cual luchamos. Así pues, somos a favor de la auto-organización de las luchas, es decir por una autonomía frente a todas las fuerzas partidarias y sindicales, por la conflictualidad permanente con el poder, sus estructuras, sus mujeres y hombres, y sus ideologías. Así, igual que rechazamos el imbroglio electoral – por lo cual la dictadura del capital permanece oculta – rechazamos a la vez lxs líderes, las jerarquías, los comités centrales, lxs portavoces mediáticxs (o sea lxs futurxs jefxs políticxs).

Atacar el poder en vez de reproducirlo, desertar sus instituciones en vez de mendigar sus subvenciones, son métodos que, por ahora, pueden parecer poco eficaces y llevar a un aislamiento relativo (bien preparado por el linchamiento mediático permanente). A eso, se puede contestar que el sentido de lo que se hace se capta en la actividad misma, y no midiendo resultados quantitativos ; no se pueden medir las fuerzas sociales haciendo censos, en particular porque son imprevisibles : lo que percibimos, al final, solo son los primeros círculos formados por las piedras que tiramos. Por otra parte, la búsqueda de la coherencia es la fuerza que contiene todas las otras, y eso no por adhesión sacrificial a una doctrina, sino por el placer proporcionado cuando la mente esta en acuerdo consiguo misma. Es en la unión del pensamiento y de la acción, decía Simone Weil, que se renueva el pacto del espíritu con el universo.

Así pues, lo que puede parecer “purismo” (lo que dicen de forma depreciativa lxs realistxs) no es más que un modo muy concreto de palpar la existencia, “en el tremendo placer de la pelea social”. No creemos en los soles radiantes del porvenir que surgen de los cálculos hechos en las trastendias. El mundo en el cual quisieramos habitar debe de ser contenido en sus propias relaciones y comportamientos lo más posible. Al fin y al cabo, si no colaboramos con las instituciones, nunca nadie podrá hecharnos a la cara que “escupimos en la sopa” – y esto también cuenta.

La auto-organización de la cual hablamos no es solo teoría pura. Es una experiencia humana que existe desde los más antiguos tiempos, un gran arsenal teórico y práctico que el pasado transmite al presente. Muchas de las llamadas teorías las sugerieron la realidad de las luchas, las experimentaciones comunitarias, tal como las revueltas atrevidas y solitarias de lxs que tuvieron la determinación de desafiar el poder, los costumbres y los prejuicios de su época, de lxs que atrayeron en ellxs los rayos de todxs lxs jueces antiguxs y modernxs. Desde la Edad Media hasta hoy, los ejmeplos de comunidades que abolieron la propriedad privada y el Estado, en una tentativa apasionada de realizar en la Tierra la felicidad que las religiones siempre encerraron en el reino de los cielos, son innumerables. Pero no necesitamos un pasado donde buscaríamos justificaciones a nuestros deseos. La auto-organización es una realidad que existe en el mundo actual, sea como práctica social durante explosiones insurreccionales (pensemos en las asambleas de barrio en argentina o en los aarch en algeria), o como método de lucha durante conflictos más específicos (pensemos en los recientes blocus de lxs limiadorxs de trén, el de Scansano Jonio o de la Campania, a las huelgas salvajes de lxs conductorxs de tranvías y de buses). Miles de empleadxs experimentan de la acción directa no por ideología, sino porque es el único modo de arrancar a lxs patronxs unas mejoradas reales. Esta crítica anticapitalista que lxs intelectualxs servilxs ven vana, pasado de moda o criminal, numerosxs explotadxs la ponen en práctica en sus luchas porque experimentan el capitalismo en su propia piel. ¿Y que de nosotrxs, en medio de esto?

No tenemos ninguna mentalidad vanguardista, y sencillamente aportamos nuestra contribución, por todas partes donde lo logramos, para favorecer las prácticas de auto-organización y de acción directa. Cuando es posible, iniciamos en nuestro nombre situaciones de lucha social, sino intervenimos, en nuestras bases, en luchas llevadas por otrxs. No somos especialistas, y no tenemos ningún campo de acción exclusivo, particularmente porque esta sociedad ya alcanzó tanto grado de interdependencia entre sus sectores que no es posible modificar profundamente ninguno de sus aspectos significativos sin volver a poner el conjunto en tela de juicio. Incluso el requerimiento de una alimentación no envenenada significa para satisfacerse – como ya alguien lo escribió – el desmantelamiento del conjunto del sistema de producción, de intercambio y de transporte existente. Desde el problema de la destrucción del medio ambiente hasta el de la guerra, la crítica se enfrenta a la sociedad entera y a sus perros de guardia cuando quiere ir al fondo del tema. Por supuesto, algunos temas nos animan más que otros, particuliarmente porque creemos que es más difícil para la dominación recuperarlos – es decir neutralizarlos – que otros. Si se puede concebir un poder que produzca menos incineradores o otras tecnologías sumamente dañosas, no se puede concebir un poder que produzca menos cárceles, igual que nunca existieron sepulturerxs de revoluciones que no hayan reconstruido algunas. Sin embargo, si se mira bien, el problema de la cárcel remite al de la autonomía de las decisiones y de lo que unx necesita para vivir. Mientras no aprendamos a preferir el libre acuerdo a la imposición, la solidaridad a la competencia envilezadora, la lógica del castigo reconstruirá sus jaulas y sus horrores. Somos a favor de la ruptura revolucionaria porque sabemos que la mentalidades serviles necesitan una sacudida violenta, igual que las instituciones sociales, pero sabemos también que una insurrección es solo el principio de un posible cambio y no una panacea. Listxs para unirnos a cualquiera que desee realmente derribar la dominación actual, defenderemos también con mucho valor nuestra posibilidad de vivir sin imponer ni recibir órdenes de cualquier autoridad, partido o comité central. La experiencia histórica nos aprendió que lxs peorxs opresorxs pueden travestirse de revolucionarixs, y por supuesto no queremos encontrarnos aliados con ahogadorxs de toda espontáneidad subversiva y de toda libertad. Para nosotrxs, la única violencia acceptable es la que libera y no pone en esclavitud, la que destruye el poder y no lo reproduce, la que defiende para cada unx la posibilidad de vivir como quiere. Imponer la libertad es un contrasentido. Tendría que levantar el cadalso para vencer, decía Malatesta, entonces preferiría perder.

No nos impresiona ni nos sorprende que el coro de las inteligencias sometidas repita que una revolución es imposible. ¿No es lo que los treinta tiranos repetían a lxs democratxs atenexs, lxs aristocratxs a lxs burguesxs, lxs latifundistxs a lxs campesinxs mejicanxs, lxs democratxs a lxs anarquistxs espagnolxs, lxs burocratxs de staline a lxs sublevadxs húngarxs, lxs sociólogxs a lxs rabiosxs del mes de Mayo? “Quien hace a mitad la revolución cava su propia tumba”. Es la única enseñanza que queremos aprovechar de lxs que nos precedaron por el camino a una revolución anarquista.

Nos consideramos como explotadxs a lado de lxs otrxs explotadxs, y creemos que nuestra impaciencia, nuestra determinación en atacar aquí y ahora forman parte del conflicto de clase. No admitimos ninguna jerarquía basada en los riesgos previstos por el código penal : un follete es igual de digno que un sabotaje, porque para nosotrxs la acción directa no se opone a la difusión de las ideas.

Los años por venir se llenaran de conflictos, algunos dificiles de descifrar, otros claros porque puros como barricadas. El terreno del asentamiento y de la sumisión se fisura, numérosos señales de insatisfacción se revelan. La auto-organización volverá a golpear con fuerza en la puerta de la guerra social. Nuestros complices son y seran todxs lxs individuxs dispuestxs a pelearse para conquistar la libertad con lxs demás, y también listxs para arriesgar la suya.

Cárcel de Trento, 23 de julio de 2004

http://www.non-fides.fr/?Vale-pero-al-final-que-quieren

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