martedì 24 gennaio 2012
I mercanti della vita
Nella sua opera più famosa, apparsa oltre trent’anni fa, un situazionista belga — la cui soggettività radicale scaduta è oggi in avanzato stato di decomposizione — notava che «se fosse uomo, il potere non si complimenterebbe mai abbastanza con sé per gli incontri che ha saputo impedire».
Uno degli incontri evitati, secondo la suggestiva tesi dell’autore, è stato quello dell’anarchico francese Albert Libertad con l’artista italiano Giorgio De Chirico. Bruciando i propri documenti d’identità — il primo — e disegnando teste senza volto — il secondo —, entrambi hanno inteso denunciare l’opera di annichilimento organizzata dall’ordine sociale nei confronti dell’individuo. Meglio non avere nome né volto, piuttosto che essere un mero riflesso delle convenzioni sociali. Il rifiuto dell’identità che ci viene assegnata dallo Stato è il primo passo per afferrare la nostra individualità. Partiti da esperienze e presupposti completamente diversi, l’anarchico e l’artista erano arrivati — ognuno a modo proprio — a conclusioni analoghe.
Ma il gioco delle affinità mai riscontrate e degli incontri mancati sul terreno della riappropriazione della propria esistenza non si ferma a questo singolo caso.
Chi fosse interessato a porre un freno a quel processo di mercificazione che sta trasformando tutta la nostra vita in un enorme ipermercato — dove l’avventura si prenota in un’agenzia turistica, l’appetito si appaga con cibi precotti pronti in cinque minuti, la creatività serve solo a rallegrare i cartelloni pubblicitari e il gioco consiste più che altro nelle operazioni di Borsa — troverà senz’altro interessante la corrispondenza di intenti fra fatti e personaggi che ebbero luogo e vissero, nello stesso periodo, in continenti diversi.
Argentina, anno 1927. Come in molte altre parti del mondo, la notte del 22 agosto è una notte di veglia. Nelle piazze e nei locali, migliaia di persone sono in attesa. Attendono di sapere se il governo degli Stati Uniti abbia effettivamente giustiziato sulla sedia elettrica Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, i due anarchici italiani accusati di rapina e omicidio e condannati alla pena capitale. Mai un fatto di tale natura aveva avuto tanta ripercussione nel mondo. Arrestati nel maggio del 1920, i due anarchici erano stati processati e condannati nel luglio dell’anno successivo, a dispetto dell’alibi che li scagionava e dei numerosi testimoni portati dalla difesa. In tutto il mondo cominciò una imponente campagna in favore della loro liberazione, che coinvolse migliaia e migliaia di persone dalle idee più diverse.
Anche in Argentina non mancarono le manifestazioni di protesta, i comizi, gli attentati: contro l’ambasciata degli Stati Uniti, contro il monumento a Washington e contro aziende americane quali la Ford. E naturalmente le iniziative pubbliche a favore dei due condannati si moltiplicarono con l’approssimarsi della data fatidica.
L’alba del 23 agosto trova ancora sveglie migliaia di persone che affollano le edicole per leggere i giornali del mattino. La notizia corre di bocca in bocca, tra l’incredulità e lo sgomento generale. Ha vinto la legge. Sacco e Vanzetti sono stati giustiziati. L’annuncio del loro assassinio provocherà ovunque manifestazioni di protesta, con scontri e incidenti. In Argentina, quello stesso 23 agosto viene indetto uno sciopero generale dalle centrali operaie. La gente si riversa nelle strade, mentre da tutte le parti scoppiano incidenti. In tutto il mondo, i nomi dei due anarchici morti sono diventati un simbolo della lotta contro i soprusi del potere.
È in questa situazione che ad un imprenditore di Buenos Aires, tale Bernardo Gurevich, titolare della fabbrica di tabacchi “Combinados”, viene in mente di mettere in commercio una nuova marca di sigarette a prezzo economico, destinata agli operai. Per attrarre l’attenzione sul prodotto e reclamizzarne la vendita, Gurevich ha la brillante idea di battezzare quelle sigarette “Sacco e Vanzetti”. L’iniziativa imprenditoriale non viene gradita. Speculare sulla morte dei due anarchici? Confondere il fumo delle loro carni bruciate sulla sedia elettrica con quello delle sigarette? Trasformare le lacrime versate per la loro morte in liquido per rimpinguare un conto in banca? Rinchiudere la rabbia altrui tra gli scaffali polverosi di una tabaccheria? Fare del simbolo della lotta contro lo Stato e l’autorità una trovata pubblicitaria? Il 26 novembre 1927 una potente carica di dinamite distrugge gli stabilimenti della “Combinados”. L’attentato viene attribuito allo stesso anarchico ritenuto responsabile di altri attentati dinamitardi a favore di Sacco e Vanzetti, ovvero a Severino Di Giovanni. I danni provocati dall’esplosione sono ingenti. Lo stesso giorno l’imprenditore dalle idee originali decide di sopprimere la marca di sigarette “Sacco e Vanzetti”.
Francia, anno 1930. È trascorso quasi mezzo secolo dalla pubblicazione dei Canti di Maldoror di Lautréamont, che successivamente sarebbe stato salutato come «il libro più radicale di tutta la letteratura occidentale». Questo libro aveva conosciuto numerose vicissitudini e sarebbe stato forse destinato a cadere nell’oblio se non avesse attratto l’attenzione dei surrealisti, a cui va il merito della riscoperta e del rilancio del suo autore. Già nella primavera del 1919, ancor prima di costituire il movimento surrealista, André Breton aveva curato la pubblicazione delle Poesie di Isidore Ducasse (vero nome di Lautréamont). E un altro surrealista, Philippe Soupault, aveva curato nel 1927 la prima edizione delle Opere complete, che avrebbe suscitato un vespaio di polemiche.
I surrealisti faranno di Lautréamont una specie di precursore, di modello estremo. Per quei giovani alla ricerca di una nuova forma dell’esistenza, l’opera di Lautréamont non aveva nulla a che fare con la letteratura. L’immaginazione torrenziale dell’«uomo di Montevideo», il suo furore iconoclasta, non potevano che costituire un incitamento alla rivolta, al superamento di questo mondo, un’affermazione della propria individualità. A fianco di Sade, Lautréamont siederà in cima all’Olimpo Nero dei surrealisti.
Non c’è quindi da meravigliarsi se non riuscirono a mandar giù la notizia dell’imminente apertura di un nuovo locale parigino, il “Bar Maldoror”. L’intraprendenza bottegaia voleva fare del Male un menu, servendo imprecazioni blasfeme ai suoi tavolini. Voleva soddisfare lo stomaco degli avventori anziché roderlo con il dubbio. Voleva spegnere il fuoco che ardeva nella gola dei clienti, anziché appiccarlo nel loro cuore. Voleva far trascorrere alla gente una bella serata, anziché farla andare su tutte le furie. Voleva battere cassa, invece di sconvolgere il mondo. Era troppo.
Già qualche anno prima — in quel 1927 scosso dalla notizia dell’esecuzione di Sacco e Vanzetti — i surrealisti avevano inviato una lettera aperta, Permettete!, al Comitato per la ricostruzione a Charleville, città natale di Rimbaud, di un monumento al poeta (monumento che era andato distrutto durante la prima guerra mondiale). In quella lettera si poteva leggere: «L’ipocrisia stende la sua orrida mano sugli uomini che noi amiamo, per farli servire alla conservazione di ciò che essi hanno sempre combattuto. È evidente che non ci inganniamo più sulla portata di tali imprese di confisca, e non ci allarmiamo più del necessario per le vostre manovre vergognose e abituali, persuasi come siamo che una forza di compimento totale anima contro di voi tutto quello che al mondo è stato davvero ispirato.
A noi importa poco... che si tragga un qualche profitto dalle intelligenze più sovversive, giacché il loro meraviglioso veleno continuerà a infiltrarsi eternamente nell’animo dei giovani per corromperli o ingrandirli». Tre anni dopo, questo sfogo letterario di sdegno fatalista farà felicemente posto ad un’azione priva di estetismi.
All’inaugurazione del “Bar Maldoror” c’erano anche André Breton e i suoi compagni, i quali devastarono completamente il locale. Al titolare non rimase che cambiare nome al proprio esercizio. Il nome di Lautréamont era salvo per il momento dal fango del commercio.
Di fronte a questa determinazione di impedire al denaro di realizzare i suoi traffici sopra individui desiderosi solo di vederlo scomparire, di fronte a questa strenua difesa dello spirito di rivolta contro gli assalti che gli vengono mossi dallo spirito bottegaio, di fronte a questi vigorosi attacchi alla logica mercantile, non è nemmeno il caso di soffermarsi su quanto divideva i protagonisti di questi azioni. È meglio lasciare alla canea militante e a quella artistica ogni patetica rivendicazione di un improbabile diritto di proprietà. È sufficiente sapere che, nonostante tutte le apparenze, i vasi comunicanti del sogno e dell’azione si sono incontrati, anche solo per un attimo, sul terreno dell’odio verso ogni mercificazione.
Ciò che sta a cuore non può diventare merce. Non importa di cosa si tratti: la memoria di due giustiziati, l’opera di uno scrittore, il sapore di un cibo, l’ambiente naturale, una idea. Ciò che sta a cuore è un’espressione di vita. E non è mai troppo tardi per rammentare che la vita non può essere ridotta a oggetto di sfruttamento commerciale. Essa non ha prezzo, ha solo la pretesa di avere un significato. Ma oggi siamo talmente circondati dalle merci, abituati da sempre a mettere mano al portafoglio per ottenere ciò che è già nostro, che nulla sembra più toccarci, nulla sembra più starci a cuore. Non ci si può innamorare di un prodotto incellofanato. Spenta ogni emozione in noi, restiamo soli con la nostra indifferenza. Quando ogni manifestazione umana è stata ricondotta entro i limiti in cui è possibile lo sfruttamento commerciale, quando non è sopravvissuto pressoché nulla che non possa diventare oggetto di un’attività lucrativa, quando l’ammontare del proprio conto in banca è il miglior biglietto da visita, è ora che la brutalità prenda il sopravvento sull’indifferenza e sulla rassegnazione.
Cristo scacciò con violenza i mercanti fuori dal tempio. Conosciamo i motivi: solo Dio aveva il diritto di stabilire il prezzo della vita.
Ciò che in quegli anni è avvenuto in Argentina e in Francia, invece, fa tabula rasa e dei mercanti e del tempio. Si tratta solo di raccogliere il suggerimento di un filosofo tedesco, e cominciare ad allungare le mani.
Val Basilio
Diavolo in corpo n°3, Turin, novembre 2000
Finimondo
http://finimondo.org/node/583
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