
Luglio 2011.
Prima di tutto, vorrei rendere omaggio a Catherine Charles, scomparsa nel marzo scorso dopo una vita intera di lotta a fianco dei detenuti, un esempio di solidarietà, di combattività. In una parola, una GUERRIERA, che riposi in pace e che la terra le sia leggera.
Vi racconto la mia storia, credo che ne valga la pena. Mi trovo di nuovo in carcere penale dopo aver trascorso 20 anni nelle galere spagnole. Ho quindi dimenticato un po' il francese e non ho ancora trovato i miei punti di riferimento.
Sono entrato il 14 ottobre 1983 a Toulouse per una serie di rapine: tre filiali bancarie e una gioielleria, rapine di un'altra epoca, senza violenza e più o meno raffazzonate. Avevo vent'anni e pensavo che niente e nessuno potesse fermarmi.
Ero già entrato nell'81 e per sfuggire alla giustizia avevo dovuto fingermi matto allo scopo di ottenere l'Art. 64. Avevo conosciuto la prigione e le sezioni di isolamento, malgrado la mia giovane età non ero già più quindi un nuovo arrivato. Conoscevo, già, la violenza della reclusione sotto tutti i suoi aspetti. Avevo già avuto a che fare con Michel Bénézéch, una celebrità internazionale nel campo della psichiatria criminale. È autore di circa 500 pubblicazione scientifiche, insignito nel 1999 della medaglia dell'amministrazione penitenziaria e nel 2000 delle “Palme Adamitiche”. Mi congratulo che dopo esser stato per quasi 25 anni direttore del servizio medico-psicologico delle prigioni e professore alla Scuola Nazionale della Magistratura non sia più in attività. La prima volta che c'ho avuto a che fare, non c'erano stati problemi. Mi aveva semplicemente spedito a Boissonnet. Non si chiamavano ancora i luoghi come Boissonnet UMD, ma erano posti infernali dove l'impunità regnava più facilmente che dietro le mura delle prigioni. Era stato davvero sorpreso di vedermi uscire così rapidamente e di ritrovami, meno di un anno dopo, ancora in prigione. L'ho rivisto nel carcere giudiziario di Gradignan e per poco non mi costò la vita.
Mi ritrovavo dunque in prigione per la seconda volta e l'avrei pagata cara. La giudice lo aveva insinuato quando ho firmato l'ordine di carcerazione. Tuttavia non avrei pensato che mi potessero richiudere nelle loro segrete per 28 anni.
Non accettavo la prigione e poiché ho subito pensato ad evadere mi sono ritrovato con lo statuto di DPS (Detenuto Particolarmente Sorvegliato). All'epoca, se non ricordo male, esistevano 500 DPS ministeriali [ci sono anche i DPS stabiliti dall'amministrazione penitenziaria]. 300 lo erano per la loro militanza in organizzazioni armate di sinistra o nazionaliste, i 200 rimanenti erano dei detenuti che, generalmente, non accettavano la prigione e veicolavano determinati valori come la solidarietà e un'etica particolare che li trasformava in persone pericolose per l'ordine stabilito.
Fui condannato a 18 anni di reclusione il 18 dicembre 1986 dalla corte d'Assise della Haute-Vienne. Il procuratore chiedeva una pena di 10 anni: ne avevo preso quasi il doppio.
Dopo diversi tentativi, evadevo una prima volta dal carcere penale di Lannemezan il 10 dicembre 1989.
La fuga fu breve ma memorabile eppure non ne parlano mai. Suppongo che non abbiano molto apprezzato di vedere 9 detenuti darsela a colpi di esplosivo da un carcere penale, all'epoca presentato come l'apice della sicurezza. Era stato umiliante per l'amministrazione; tanto più che c'erano state delle fughe di notizie e le guardie avevano avvisato la direzione che uno dei miei soci preparava un'evasione. Non ci hanno creduto, tuttavia la direzione cercò un pretesto per trasferirmi. Due mesi dopo il Ministero trovò la decisione precipitosa e mi trasferì di nuovo a Lannemezan. Durante la mia assenza i soci avevano fatto entrare i detonatori che ci mancavano e dovevamo solo scegliere il giorno. Sospettando un'evasione, il direttore mi aveva cambiato di braccio. Chiesi di essere ricevuto dal direttore il quale si rifiutò di rimettermi nel braccio A assieme ai miei soci. Argomentò il suo rifiuto spiegandomi che i servizi di polizia avevano informato l'amministrazione che mi trovavo nel cuore di una fuga in preparazione. Gli spiegai che tutto ciò era assurdo, tanto più che se i servizi di polizia avessero avuto ragione cambiarmi di braccio non avrebbe impedito un bel niente, e me lo lavorai al punto da fargli credere che non si stava preparando alcuna evasione. Il giorno seguente 9 detenuti se la davano a gambe. 4 giorni dopo la mia prima evasione da Lannemezan venivo arrestato in un nascondiglio a Pau e, dopo un passaggio nelle sezioni di isolamento di Tarbes, mi trasferirono di nuovo a Lannemezan. Dopo qualche tempo di isolamento chiedevo di vedere il direttore esigendo il mio trasferimento in un altro carcere penale e minacciando di fracassare di botte una guardia se non avessi ottenuto ascolto. La mia esigenza di essere trasferito era un bidone: avevo trovato il modo di evadere di nuovo. Mi trovavo con uno dei soci con cui ero evaso. L'idea era realizzabile. Ci bastava un po' di plastico e una chiave per smontare il letto. Per questo era sufficiente che almeno uno di noi uscisse dall'isolamento.
Alla fine riuscii a convincere il direttore che avrei trovato il modo di provocare il mio trasferimento senza commettere violenza. Lasciando il suo ufficio gli chiesi di rimettermi in sezione durante una o due settimane per dire addio agli amici. Accettò!
Al mio arrivo in sezione il contesto era cambiato e c'era forse la possibilità di far venire un elicottero. È ciò che è successo. Qualche giorno dopo la mia uscita dall'isolamento, facevano uscire anche il mio socio e lo piazzavano nell'altro braccio. Vedendo che non facevo nulla per provocare il mio trasferimento, lo rimisero in isolamento pensando che avrei bloccato il cortile. Riuscii tuttavia a guadagnare una decina di giorni e il 5 novembre 1990 rubai le chiavi a una guardia e mi ritrovai sul tetto con tre soci per denunciare l'isolamento del nostro amico. Una volta sul tetto, reclamai l'arrivo del procuratore e del direttore regionale: abboccarono all'amo. I gendarmi circondarono il carcere e si misero tranquillamente ad aspettare le autorità. Ad arrivare fu invece un elicottero, evasi di nuovo e lasciai annichiliti la giurisdizione e i carcerieri.
Non racconto tutto ciò per il piacere della narrazione; cerco soltanto di spiegare una delle ragioni per cui l'amministrazione penitenziaria mi tiene in prigione da quasi 28 anni e disgraziatamente non è ancora finita.
Atterravo in Spagna dove venivo arrestato qualche ora più tardi. Oso appena raccontarvi cos'era la Spagna 20 anni fa. In più arrivavo in elicottero: un tipo d'evasione sconosciuto laggiù, più vicino alla fantascienza che alla realtà. La Spagna è una terra di contrasti ma anche di guerrieri, dove la storia delle lotte carcerarie è sempre stata sanguinosa ed estremamente repressiva. Dopo decenni di repressione, oggi non resta più niente. Al mio arrivo i prigionieri spagnoli si stavano organizzando per reclamare l'applicazione delle leggi democratiche promulgate qualche anno dopo la morte di Franco e che 10 anni più tardi non erano ancora applicate. Alla fine degli anni '70 le rivolte erano quasi quotidiane, i prigionieri rivendicavano l'amnistia per tutti e si erano organizzati attorno al “coordinamento dei prigionieri in lotta”: COPEL. Mettevano in pratica ciò che Michel Foucault aveva cercato di fare qualche anno prima, in Francia, con il “gruppo di informazione sulle prigioni” e il “comitato d'azione dei prigionieri” che avrebbero portato alle grandi sommosse del 1974. Il che permise da un lato il miglioramento delle condizioni detentive per un'ampia parte di prigionieri e dall'altro l'apertura dei QHS (Quartieri di Alta Sicurezza). Qualche anno più tardi sarebbe avvenuta la stessa cosa in Spagna. Per farla finita con la COPEL, il governo nominò un giovane politico e legislatore al posto di direttore generale delle carceri: Carlos Garcia Valdez, che ritroveremo in questo racconto 20 anni più tardi. Elaborò le nuove leggi penitenziarie che, teoricamente, dovevano sradicare le vecchie abitudini franchiste e, parallelamente, inaugurò un immenso QHS a Herrera de la Mancha dove i prigionieri più combattivi furono letteralmente sterminati.
Quando sono arrivato in Spagna, dunque, le leggi che avrebbero dovuto democratizzare il sistema penitenziario erano lettera morta da 10 anni e i secondini avevano mantenuto intatta la vecchia mentalità franchista.
Era appena nata l'APRE, l'"Associazione dei Prigionieri in Regime Speciale" per reclamare l'applicazione delle leggi. Tutti erano armai con due lame piuttosto che una. Non mi sono mai piaciute le rivendicazioni collettive, ma i prigionieri dell'APRE erano, anche e soprattutto, dei candidati alla fuga e sono presto diventati i miei compagni di di galera e di sventura.
In un mondo in cui l'Amministrazione penitenziaria imponeva e fomentava la violenza, le rivolte erano molto violente. Benché i fondatori dell'APRE fossero contro le violenze perpetrate sui detenuti, numerose rivolte si trasformarono in regolamento di conti e in diverse occasioni i corpi degli infami servirono da moneta di scambio nelle negoziazioni che rivendicavano diritti fondamentali. Tutto divenne assurdo e finì col fare il gioco dei sindacati dei secondini che si opponevano al cambiamento. Io stesso, che condannavo questi atti, con veemenza, sprofondavo nella stessa spirale di violenza e di follia e, meno di un anno dopo il mio arrivo, uccidevo un uomo.
Non ho mai spiegato questo crimine di cui mi vergognavo nel momento stesso in cui l'ho commesso. Si sono dette e scritte molte cose. La stampa sottolineò, fino alla nausea, che avevo assassinato questa persona per evitare l'estradizione in Francia. In Spagna ero accusato di pirateria aerea, e di tutto ciò che derivava dal mio arresto: sequestro, tentato omicidio nei confronti delle forze dell'ordine ecc. Questi reati che non avevano causato feriti né tanto meno vittime mortali erano, per la legislazione spagnola, più gravi dell'assassinio di un prigioniero. Non avevo ucciso quest'uomo per non essere estradato. Ad ogni modo avevo accetto la richiesta di estradizione davanti al tribunale di Stato per le due evasioni; questi aveva accettato a condizione che io fossi estradato dopo esser stato condannato e dopo aver scontato la mia pena in Spagna.
Mi trovavo a Puerto I, dove l'amministrazione aveva appena raggruppato i prigionieri che considerava più pericolosi. La prigione era già famosa per la violenza dei suoi secondini e dei suoi detenuti e il fatto di avervi trasferito i prigionieri più pericolosi del paese aveva trasformato il carcere in una polveriera sempre pronta ad esplodere. Il mio arrivo in elicottero non facilitava le cose e mi rendeva obiettivo privilegiato delle guardie, le quali, oltre a sottomettermi a perquisizioni quotidiane e umilianti, mi impedivano di aver contatti persino epistolari con l'esterno, dal momento che mi venivano consegnate solo le lettere che provenivano da altre prigioni, mentre le altre sparivano. Finii con la fare un braccio di ferro con l'amministrazione dicendole che se i secondini avessero continuato a perseguitami ne avrai attaccato uno e davo un ultimatum. Era giovane e sono caduto nella mia stessa trappola. I soci mi dicevano che non sarei sopravvissuto alla morte di una guardia e io rispondevo che nemmeno in Francia. Le Sezioni di Isolamento come quella di Tarbes o il penale di Clairvaux hanno anch'esse una lunga storia di morti silenziose. All'ultimo momento ebbi paura e, preso dal contesto, assassinavo un infame che era più volte sfuggito alla morte. Fu un atto di vigliaccheria perché i miei veri torturatori erano a due passi.
Non ho aspettato anni per pentirmi; ogni colpo di coltello che davo mi faceva prendere coscienza che mi stavo trasformando in boia, cioè in tutto ciò che odiavo. È la prima volta che ho l'occasione di spiegare pubblicamente questa storia poiché il processo si celebrò senza di me e non ci fu la minima inchiesta.
Il 17 luglio 1991 avevo ucciso un uomo; qualche giorno più tardi, nella stessa prigione e nello stesso raggio, un altro prigioniero decapitò un detenuto durante una rivolta e posseduto da una follia barbara mostrò la testa decapitata della sua vittima alle telecamere. Si trattava di un dramma personale; ma l'APRE aveva lanciato un'offensiva e non passava giorno senza che una prigione esplodesse. L'amministrazione approfittò dell'offerta per accusare l'APRE dei crimini commessi. Il segretario generale dell'Amministrazione penitenziaria, Antoni Asunción, il direttore generale delle carceri, Angel Granados, e il vicedirettore generale d'ispezione avevano elaborato contro i prigionieri più attivi nelle rivendicazioni. Si trattava di suddividere trenta detenuti in tre sezioni speciali, tre bunker che si stavano costruendo a Badajoz, Valladolid e Jaen. Quest'ultima prigione era ancora in costruzione e doveva essere inaugurata il 23 settembre dello stesso anno. Queste tre Sezioni erano concepite per eliminare ogni contatto fisico tra secondini e prigionieri. Tutte le porte erano automatiche. Benché il regime previsto sarebbe stato molto duro non si parlava ancora di un piano concepito per eliminare i prigionieri scomodi. I crimini commessi a Puerto I avrebbero giustificato tutte le esazioni si sarebbero compiute per quasi due decenni.
La guardia civil venne a prelevarmi dalla Sezione di Ocagna dove ero appena arrivato per portami a Badajoz, dove mi aspettavano una decina di amici rinchiusi, nudi, nelle loro celle e privati del tempo regolamentare di cortile. Ci spogliarono di tutti i nostri averi e dei nostri abiti per consegnarci una tuta da lavoro. Ci gettarono le tute dalla finestra. Non accettammo! Oltre alla politica di eliminazione pianificata dagli alti responsabili dell'amministrazione penitenziaria, bisogna contare anche sulla cattiveria delle mezze tacche, che in questo caso avevano scelto le taglie più piccole per i più grossi e viceversa. Ci soppressero dei diritti fondamentali come l'ora d'aria e i pestaggi erano moneta corrente. Il combattimento cominciò e per me durò 16 anni completamente isolato dalla popolazione penale. Evidentemente non ho trascorso 16 anni senza uscire in cortile, le cose si sono evolute poco a poco e ci toccò lottare. Abbiamo lottato per conquistare il diritto ad uscire in cortile 15 minuti ammanettati dietro la schiena, poi i minuti divennero un'ora ecc. Ci toccava lottare per tutto e soprattutto per sopravvivere. Le guardie delle Sezioni erano tutte volontarie ed erano stati spesso sanzionati per maltrattamenti su prigionieri, e perché un secondino fosse sanzionato nella Spagna di trent'anni fa bisognava che ne avesse pestati di detenuti! Ci siamo ritrovati in Sezioni automatizzate e lugubri con le guardie più odiose delle prigioni, senza alcuna protezione legale e senza possibilità di difendersi. Ci hanno massacrato! I soli contatti che avevamo era quando ci perquisivano le celle o ci portavano ammanettati all'infermeria della prigione per sottometterci a una radiografia. Volevano vedere se avevamo qualcosa nascosto nel retto. Ci spezzavano persino i manici degli spazzolini da denti o delle penne perché non potessimo servircene come armi.Erano carichi d'odio e vigliacchi; ci venivano a prendere armaci di scudi, manganelli e sbarre di ferro e protetti con giubbotto anti-coltello. Non aprivano mai la porta senza averci preliminarmente ammanettati attraverso le griglie di sicurezza. Tutto era fatto e pensato per far soffrire e spersonalizzare il detenuto. Ho dovuto attendere 16 anni per vedere il mio viso in uno specchio non deformante ed ero diventato vecchio!
Tutti sapevano cosa succedeva nei "bunker" ma preferivano guardare altrove. Nella Sezione di Siviglia una visita inattesa del magistrato di sorveglianza trovò 9 detenuti ammanettati su dei letti di ferro, la totalità degli uomini della Sezione. Erano ammanettati già da 2 o 3 giorni, non è cambiato nulla! Hanno chiuso la Sezione e hanno trasferito i detenuti in una città dove c'era un magistrato di sorveglianza più compiacente.
È soltanto nel 1999 che ci si organizzò con l'esterno. Mi trovavo in quei bunker da 8 anni e se ne costruivano ovunque. Mi trovavo a Soto del Real. Ero reduce da uno sciopero della fame di 30 giorni con due altri soci. Decisi di provare ad organizzarci. Potevo contare sul rispetto dei soci in tutti i bunker perché lottavo da anni contro questo regime. Non mi piaceva intrattenere rapporti con le associazioni di sostegno ai prigionieri ma avevano tutte sentito parlare del francese che continuava a resistere e avevo conosciuto alcuni giovani anarchici di Madrid.
A partire da là, la mia storia è quella di molti e sono sorpreso di non aver mai trovato, malgrado abbia letto parecchie cose uscite riguardo la lotta contro le Sezioni, un'analisi che permetta di capire la complessità di tutto ciò che è successo a partire dal 1999 e che ha rafforzato gli organismi più repressivi.
Prima di entrare nel vivo del problema credo sia necessario precisare che non sono anarchico. L'ho sempre detto e anche rivendicato. Amo la solidarietà e la libertà individuale e non amo lo Stato perché è corrotto; se lo Stato avesse il senso etico che pretende veicolare ne sarei, probabilmente, uno dei più ferventi sostenitori. Nell'estate del 1999 ne avevo abbastanza di farmi massacrare e di lottare solo con l'unico pretesto di rifiutare le iniziative collettive. Gli innumerevoli scioperi della fame che facevamo per reclamare un minimo di diritti non servivano a nulla. Decisi allora di apportare la mia energia a una lotta collettiva.
Per far comprendere la storia mi è necessario spiegare le realtà che parallelamente alla mia prendevano corpo in quel momento. Nel 1999 gli ultimi militanti delle "Cellule Comuniste Rivoluzionarie" venivano liberati in Belgio. In questo contesto, ciò che restava dell'organizzazione, vale a dire niente, propose la creazione di una piattaforma composta da tutti i militanti di estrema sinistra incarcerati nelle prigioni europee. Credo di ricordare che persino dei militanti del Medio Oriente si erano associati. Le CCC avevano proposto che per ragioni di mezzi fossero i GRAPO a farsi carico dell'organizzazione e della logistica della piattaforma che fu pubblicizzata come "Piattaforma del 19 luglio 1999". I GRAPO sono un'organizzazione armata comunista apparsa in Spagna negli anni Settanta; dei dinosauri che hanno ancora oggi militanti in prigione. Benché già nel 1999 non rimanesse quasi nulla dell'organizzazione, erano i soli capaci di riunire i militanti europei attorno a questa idea. I militanti di Action
Directe e i baschi d'IK aderirono alla piattaforma; la Francia era quindi coinvolta. L'idea era circolata negli ambienti della sinistra extraparlamentare e mentre i rivoluzionari sognavano nuovi fronti il potere, dal canto suo, continuava a costruire l'Europa, in particolare lo "spazio di libertà, sicurezza e giustizia" che pretendeva unificare i criteri, di tutti gli Stati membri, in materia di giustizia e di repressione del banditismo e del terrorismo.
Se non ero anarchico, meno ancora ero comunista e alla fine dell'estate del 1999 il collettivo dei prigionieri FIES di Soto del Real firmavano diversi comunicati in cui proponevano uno "Spazio di lotta" apolitico e non settario. I comunicati furono spediti a ciò che si configurava come il contropotere. Veicolavo concetti più di solidarietà che ideologici e, a differenza della piattaforma del 19 luglio, la capacità di estendersi da parte di questo "spazio" non necessitava di una struttura. Era più difficilmente controllabile. Fu facile allargare lo spazio di lotta: mentre i comunicati arrivavano a tutte le associazioni di sostegno ai prigionieri, un messaggio giunse a tutti i bunker con l'indirizzo di alcuni anarchici e in settembre circolava già la voce che i prigionieri delle Sezioni di isolamento avevano preso la parola.
Non analizzerò una realtà che fu molto complessa poiché non è lo scopo di questo testo, ma fornirò alcune informazione di modo che ognuno e ognuna possa trarne la propria deduzione. Il 29 settembre si svolgeva a Madrid il primo incontro dei responsabili di polizia di più di 60 paesi. L'incontro aveva come obiettivo quello di condividere le esperienze ed elaborare una strategia comune nella lotta contro la criminalità e il terrorismo europei. La riunione si concluse con la creazione di una commissione intercomunitaria presieduta da Juan Cotino, all'epoca direttore generale della polizia spagnola. Durante questo tempo la piattaforma del 19 luglio tentava di organizzarsi e dalle Sezioni di isolamento i prigionieri invitavano alla lotta.
In Spagna il regime FIES non è lo stesso per tutti. Per i prigionieri che dimostrano "un'evoluzione positiva" ci sono delle Sezioni più tranquille che si chiamano di seconda fase (erano gli stessi ma torturavano meno). Tribolavo da più di 8 anni in prima fase quando la prigione di Soto del Real decise che meritavo un'evoluzione. Non ignorava che avevo chiesto ai soci nelle Sezioni di mobilitarsi. Fui trasferito e arrivando nel bunker di Valenzia, trovavo Claudio Lavazza che aveva appena beneficiato anch'egli di una seconda fase. Tentavo già da due o tre mesi di contattarlo affinché potesse impegnarsi nell'estensione dello spezio di lotta.
Claudio è un militante di sinistra dalla fine degli anni '70. Aveva preso le armi contro lo Stato italiano. All'inizio degli anni '80 assaltò per liberare un membro del suo gruppo. Si rifugiò in Francia dove il governo Mitterand gli propose l'asilo politico a condizione di rendere le rami. Egli rifiutò e dopo 16 anni di latitanza fu arrestato in Spagna e messo immediatamente in Sezione di isolamento. Veniva dal bunker di Jaen dove aveva appena ottenuto la seconda fase e gli avevano tolto, come a me, la limitazione della corrispondenza che fino ad allora ci permetteva di spedire solo due lettere a settimana. Tutte queste coincidenze non ci sfuggirono ma pure tenendone conto ci siamo messi a scrivere centinaia di lettere a tutte le associazioni e ai militanti di ogni tipo sotto l'occhio spaventato delle guardie, che si chiedevano come mai i loro superiori ci lasciassero scrivere tutte quelle lettere a delle associazioni. C'era effettivamente di che essere sorpresi; ero stato sottoposto per 8 anni alla limitazione della posta.
Il 17 febbraio 2000 si svolse a Madrid la "riunione della commissione del forum internazionale". Si trattava ancora di preparare una strategia europea contro la criminalità organizzata e il terrorismo, presieduta da Juan Cotino. Da mesi la lotta contro l'isolamento si era estesa. Quando l'amministrazione si rese conto che i prigionieri delle Sezioni cercavano di organizzarsi, la repressione riprese a pieno ritmo e i mass media tirarono fuori di nuovo le vecchie storie degli omicidi di Puerto I, tuttavia non fece nulla per bloccare l'allargamento delle mobilitazioni all'esterno. La stampa, dal canto suo, si accontentava di criminalizzare le nostre rivendicazioni.
Il 25 aprile venne disattivato un pacco bomba spedito al giornalista Jésus Maria Zuloaga. Costui aveva cercato di discreditare la lotta contro l'isolamento in modo ancora più diffamatorio degli altri. Il pacco era rivendicato da un gruppo che si fece chiamare "gli anarchici" e non dubito che lo fossero. Se il signor Juan Cotino aveva elaborato una strategia per strumentalizzare la lotta, dovette cambiarla poiché le cose gli stavano sfuggendo di mano. Non era facile ammettere che si trattava di nuovi gruppi che non controllava. Dovettero cambiare strategia. Svuotarono il bunker della prigione di Huelva e il 29 giugno vi ci trasferirono Claudio ed io. Ci sono rimasto 6 anni senza mai uscirne.
I pacchi si susseguivano, erano praticamente inoffensivi e non erano d'altronde fatti per esplodere. Decine ne vennero spediti o piazzati in posti in cui nessuno poteva essere ferito. Solo alcuni anni dopo ci un'unica vittima: un cane. Probabilmente per un errore degli artificieri spagnoli che, invece dell'abituale robot, mandarono l'animale. In dieci anni di lotta armata, gli anarchici hanno ucciso un cane nella guerra dichiarata allo Stato. È una realtà che nessuno può negare, il resto è come molte altre cose un'illusione. Nell'autunno del 2000, Claudio ed io non ci capacitavamo dell'affluenza di pacchi bomba di ogni genere, compresi alcuni che non contenevano alcuna sostanza esplosiva. Questa storia conteneva diversi aspetti surrealisti che non smettevano di sorprendermi. L'8 novembre arrestarono un giovane anarchico che faceva i colloqui con me e che poi condannarono ben sapendo che era innocente. Juan Cotino convocò una conferenza stampa per annunciare che i servizi di polizia avevano disarticolato una cellula anarco-terrorista diretta dal carcere da Claudio e da me. Ci trovavamo in una Sezione di isolamento allestita appositamente per noi due, sotto stretta sorveglianza, e ci accusavano di dirigere delle reti terroriste, era allucinante!!!
Il 10 novembre, esattamente due giorni dopo l'incarcerazione della persona che faceva i colloqui con me, i capi storici dei GRAPO venivano arrestati a Parigi. Si erano appena trasformati nel segretariato generale del "Soccorso Rosso", che era la continuazione della proposta dei belgi. Fui accusato di una serie di attentati. L'inchiesta si concluse con un non luogo a procedere e fui convocato come persona informata sui fatti in un processo che non aveva alcun senso.
Qualche settimana più tardi, il 4 dicembre, Juan Cotino si trovava a Parigi, dove si celebrava una riunione del comitato esecutivo di Europol. Rappresentava la delegazione spagnola e insistette affinché la conferenza di Europol in materia di antiterrorismo si tenesse a Madrid. La conferenza si svolse dal 29 gennaio al 2 febbraio nell'edificio ultra sorvegliato di Canillas. Durante la conferenza Juan Cotino annunciò la creazione di una commissione investigativa composta da Spagna, Italia e Grecia, assieme al Portogallo, per lottare contro il terrorismo anarchico che secondo lui si stava estendendo in Europa. Il cane non era ancora morto e già il direttore generale della polizia spagnola vedeva orde di anarchici scatenarsi sull'Europa!!!
Già all'epoca, nel bel mezzo della tragedia, non potevo sfuggire al suo aspetto umoristico. È in ogni caso completamente surrealista che una lotta che rivendicava l'applicazione della legge e chiedeva il coinvolgimento delle istituzioni abbia potuto essere strumentalizzata come una lotta anarchica.
La Francia evidentemente rimase ai margini di questa storia e passò a cose più serie per firmare il "Documento Madrid" che avviava "Lo spazio di liberà, sicurezza e giustizia". Cioè uno spazio comune a tutti gli Stati membri. A partire da quel momento l'esistenza delle Sezioni di isolamento e di una lotta scompariva dai giornali ufficiali per circoscriversi ai mezzi di comunicazione alternativi. All'epoca più di uno aveva denunciato una montatura poliziesca e mediatica ma non ho mai avuto l'occasione di leggere un'analisi seria al riguardo. Benché le informazioni col passare del tempo siano diventate meno accessibili, rimangono alla portata di qualsiasi internauta e soprattutto continuano ad essere presenti negli archivi delle associazioni e dei gruppi che hanno partecipato a questo spazio di lotta e che in parte sono ancora attivi.
Continuavo ad apportare la mia energia. Si trattava di non perdere ciò che c'era stato di positivo nella denuncia di un regime disumano. Non avevo neanche troppa scelta dal momento che continuavo a subirlo.
All'inizio dell'estate del 2003 ricevetti la visita di un avvocato che mi mandavano alcuni soci recentemente arrivati dalla Francia. Secondo loro uno dei migliori avvocati di Spagna. I soci avevano scelto un amico e vecchio collaboratore di Carlos Garcia Valdez, l'uomo politico che vent'anni prima era ruiscito a farla finita con la lotta della COPEL. Non era tutto; Carlos Garcia Valdez era appena riapparso sulla scena legislativa, chiamato dal governo d'Aznar a collaborare alla stesura del "libro bianco" della mini riforma del codice penale, il quale prevedeva tra l'altro che le pene per terrorismo fossero espiate interamente e alzava il tetto legale a 40 anni di prigione.
C'era anche la possibilità di uscire per i pentiti. Non sono un militante e ancor meno un terrorista ma secondo l'avvocato la mini riforma avrebbe facilitato le cose. L'avvocato non mi nascosto che aveva pensato la strategia per mi avrebbe fatto uscire dal carcere cenando con un alto responsabile dell'amministrazione penitenziaria. Quest'ultimo mi mandava a dire che nessuno aveva l'intenzione di pervertire le mie idee ma voleva avere la garanzia scritta del mio pentimento. Era assai difficile poiché non sono un militante e non ho nulla di cui pentirmi rispetto a principi non hanno mai avuto nulla a che vedere con idee politiche, né terroriste. La strategia era la seguente: prima di tutto dovevo sposarmi con una delle mie amiche in chiesa. Parallelamente ai preparativi di nozze dovevo spedire diversi scritti alle autorità nei quali affermavo che ero cambiato e biasimavo il mio comportamento violento.
Non potevo che biasimare l'assassinio commesso al mio arrivo in Spagna e non avevo alcuna intenzione di pentirmi di cose che non avevo fatto, tanto più che nelle Sezioni di isolamento le torture e i maltrattamenti continuavano. Inviai i testi a degli avvocati di fiducia vicini agli ambienti militanti e ruppi con ciò che cominciava ad assomigliare a una negoziazione. Dopo questa rottura, tutto a attorno a me fu sistematicamente distrutto.
Nel marzo del 2006 uscivo finalmente dall'isolamento. Ero stato isolato in una prigione straniera per più di 15 anni. Tutto era cambiato. La detenzione non era più la stessa, non c'era più nessun altro se non prigionieri sottomessi e interessati solo alla droga. Da due anni c'era stato un cambiamento nella politica di gestione delle carceri. Il nuovo governo mise a capo dell'amministrazione una persona sensibilizzata alle problematiche carcerarie e la incaricò di riformare le prigioni.
La mia uscita dalle Sezioni spagnole fu vero e proprio evento: era evidente che dopo più di 15 anni di isolamento avevo bisogno di un sostegno psicologico e di un programma di attività orientato alla risocializzazione. Non credo che esista un programma terapeutico pensato per qualcuno che ha appena trascorso più di 15 in isolamento, quindi decisi di occuparmene io stesso e di preparare le mie attività. Nessuno ci credeva ma alla fine misi in campo diversi corsi di yoga e tai-chi per detenuti e detenute.
Le rivendicazioni sulla legalità non mi interessavano più e avevo abbandonato l'idea dell'evasione per potermi reinserire. Il mondo era cambiato, le mie circostanze anche e avevo deciso di uscire il prima possibile per poter costruire ciò che mi restata della vita.
Avevo avviato la prima pratica per ritornare in Francia attraverso la convenzione di Strasburgo nel febbraio del 1996 e, stanco di aspettare, avevo annullato la richiesta alla fine del 2003 per ripresentarla qualche mese dopo, ma la Francia non sembrava volermi rimpatriare. Gli anni passarono e le evasioni di Lannemezan caderono in prescrizione. Rimaneva un mandato di cattura europeo firmato dal procuratore di Limoges per un residuo di pena che mi restata da scontare quando sono evaso. Il mandato di cattura dice: "La pena sarà prescritta il 5 novembre 2010". Non avevo molta fiducia nelle istituzioni francesi. Mi avevano lascito marcire per più di 15 anni nelle Sezioni di isolamento spagnole senza che il consolato rispondesse mai alle mie richieste di aiuto, ma non avevo molte alternative.
Nel settembre del 2010 l'ufficio di appoggio giuridico internazionale francese rispondeva finalmente alla mia richiesta. Ricevetti una lettera nella quale mi si diceva che la mia domanda di trasferimento sarebbe stata esaminata e giudicata nel primo trimestre del 2011. Non mi dicevano che sarei stato trasferito ma solo che avrebbero preso un decisione. Andava avanti così dal 1996! Ne ho avuto abbastanza!
Chiesi una misura alternativa. Gli spagnoli mi avvisarono che dovevano consegnarmi alle autorità francesi in virtù di un mandato spiccato dalla procura di Limoges. Poiché il mandato specificava che la pena sarebbe caduta in prescrizione il 5 novembre 2010 non mi preoccupai più di tanto. Sono arrivato in Francia partendo da Madrid il 14 gennaio di quest'anno. Il viaggio fino a San Sebastian si è svolto normalmente. Sono rimasto due ore nella prigione della città e poi la UCI [la polizia speciale] mi ha preso a carico. Avevano circondato la città e un elicottero sorvolava il convoglio. Ho capito che le cose si mettevano male. Avevo viaggiato senza sicurezza sotto la responsabilità dell'amministrazione penitenziaria fino a San Sebastian dove firmavo la mia libertà condizionale e lì, sotto la responsabilità dei servizi di polizia, cambiava tutto. Giunto al commissariato di Hendaye fui prelevalo da diversi uomini in passamontagna. Mi portarono davanti al procuratore, mi misero degli occhiali speciali per non farmi vedere il percorso e partimmo. La destinazione mi era sconosciuta; non parlavano e l'unica cosa che vollero sapere era se nelle carceri spagnole c'era i telefoni cellulari, il che aumentò la mia preoccupazione. Non era un film: pensavano davvero che volessi evadere e, ancora più grave, che ne avessi ancora i mezzi. Il che mi confermò che le informazioni fornite dai servizi di polizia spagnoli erano tendenziose. Mont de Marsan, il direttore, mi aspettava per rinnovarmi un DPS [lo statuto di Detenuto Particolarmente Sorvegliato] più vecchio di un quarto di secolo e mi mise in isolamento per un omicidio commesso in un paese straniero 20 anni prima. La direzione del carcere era piuttosto scocciata perché pensava, come me, che la mia detenzione potesse essere arbitraria. Chiese spiegazioni al procuratore titolare del mio caso quando un mattino di buon'ora uomini in passamontagna sono venuti a prendermi e a portami per la seconda volta verso una destinazione sconosciuta. Quando mi accorsi che la destinazione era Clairvaux, compresi che non avevano l'intenzione di liberarmi. Mi trasferirono in un tomba per vivi.
Qui la direzione interpellò il procuratore di Troyes, il quale, dopo aver studiato il mio caso per due mesi, decise che mi rimanevano 11 anni e 5 mesi da scontare. A tal fine rispolverò una giurisprudenza vecchia di 20 anni e non prese in considerazione le nuove leggi votate negli ultimi anni sull'accorpamento delle pene scontate in uno degli Stati membri.
I miei avvocati mi consigliano di non mediatizzare il mio caso se voglio avere la speranza di uscire. Non ho mai vissuto di speranza; sono sopravvissuto lottando e ho sempre cercato di lottare contro l'ingiustizia, ma soprattutto è evidente che l'amministrazione della giustizia non ha intenzione di liberarmi nemmeno dopo più di 27 anni di carcerazione.
Se mi fosse possibile tornare indietro accetterei probabilmente la mia condanna avendo assunto la responsabilità dei miei errori, ma oggi non posso accettare un pena imposta per reati commessi nel 1983 e giudicati più di un quarto di secolo fa, quando in 28 anni di prigione ho perso il conto dei serial killer e dei pedofili che sono stati liberati. Tra questi, più d'uno recidivo, riarrestato e poi di nuovo liberato. È come se la società simpatizzasse più facilmente con un pedofilo che con un rapinatore di banche.
Credo di aver pagato ciò che fatto e ciò che non ho fatto. Nella mia gioventù un procuratore chiese una pena di 10 anni e mi si condannò a 18 anni. All'epoca fu considerata da molti una condanna all'eliminazione. Tra 5 mesi sarò in prigione da 28 anni, dopo aver subìto i sistemi di detenzione più disumani che si possano trovare in Europa. A 48 anni non ho avuto la possibilità di vivere nemmeno un po' e tutta la mia vita è stata sofferenza. Mi sono preservato dall'odio che fomentano i regimi detentivi disumani e oggi mi si dice che devo scontare una piena di più di 10 anni per delle rapine pacco commesse 28 anni fa, allorché delle evasioni violente realizzate posteriormente sono cadute da molto tempo in prescrizione. Non accetto una pena che non ha più alcun senso e per tale ragione lotterò contro questa ingiustizia con tutti i mezzi e se la disperazione mi dovesse spingere a commettere l'irreparabile che la coscienza dei giudici e degli uomini di legge definisca la responsabilità di ciascuno.
Per finire spiego a coloro che non lo sanno chi era Catherine. Era la madre di uno dei detenuti francesi più ingombranti per l'amministrazione penitenziaria. Ma era anche e soprattutto molto più di questo. Era una ribelle che in gioventù conobbe la prigione e si fece portavoce di tutti i detenuti. Creò l'ARPI, che è né più né meno che "i cerchi d'amici e delle famiglie dei prigionieri" che si cercò di costruire in Spagna. Cioè un'associazione di sostegno ai prigionieri. Spero che l'associazione continuerà perché ne abbiamo bisogno.
Senza aggiungere altro e sperando di non aver annoiato i lettori auguro a tutti e tutte molta forza e determinazione.
http://gilbertallastrada.blogspot.com/
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