martedì 3 gennaio 2012

Denaro e Logos-M.D.P.


Esiste una relazione tra la nascita della mentalità razionale e lo sviluppo dell’economia commerciale? Nel VII secolo a.C., nelle città greche ionie dell’Asia Minore, avviene tutta una serie di trasformazioni sociali strettamente connesse tra loro. È qui appunto, in quest’epoca, che sorge la mentalità razionale, in un periodo in cui l’economia commerciale marinara comincia a conoscere il suo primo grande sviluppo.

Da una struttura sociale di tipo tribale e da un regime monarchico di tipo orientale si passa, in breve arco di tempo, a forme politiche tipiche della piccola città-Stato greca. Dai vincoli di parentela e religiosi tipici dell’aristocrazia fondiaria si passa a un nuovo tipo di legami sociali in cui l’individuo è stimato soprattutto in base al suo avere: il lusso diviene ben presto un’istituzione politica. Gli stessi aristocratici che prima fondavano il loro potere sulla proprietà di terre e sulla virtù guerriera cominciano ad acquistare ricchezze, prima per mezzo della rapina per mare, armando navi pirata, poi per mezzo del commercio stesso, armando navi mercantili; l’aristocratico comincia ad investire i suoi averi per mare.

Sorge una nuova forma di dominio, quello dell’aristocrazia plutocratica, che inizia a concentrare su di sé il potere politico e l’amministrazione della giustizia. La ricchezza proveniente dalle terre permette di armare navi mercantili, le quali toccano i più lontani porti del Mediterraneo. Il prestito ad usura si sviluppa ad un alto grado e immiserisce sempre più la classe contadina. Si sviluppano le lotte di classe tra aristocratici e contadini, lotte in cui interviene ben presto come intermediaria una terza classe: quella dei mercanti. Sono gli antichi demiurghi, vale a dire i primi maestri artigiani che erano soliti prestare la loro opera vagando di città in città, che hanno acquistato potere mediante il commercio. Sono i cadetti della classe dei nobili che, esclusi dai diritti ereditari, hanno iniziato ad acquisire ricchezze per mare. Si tratta insomma della nuova classe di ricchi sorta con lo sviluppo del commercio marittimo. Questa nuova classe si schiera, di volta in volta e nelle diverse città, con l’aristocrazia o con il popolo, secondo i propri interessi, esasperando oppure moderando le lotte di classe stesse.

Il regime dominante comunque è il particolarismo politico, lo spirito competitivo portato al suo massimo grado, il dominio del censo e della ricchezza. L’oligarchia dominante è costretta a interessarsi sempre più agli eventi politici della città, perde la sua nobiltà e la sua superiorità di stirpe a mano a mano che aumentano le ricchezze mobiliari; l’importanza della famiglia e della stirpe diminuisce di fronte a quella dell’individuo e del denaro. Le lotte di classe acuiscono a tal punto, soprattutto nelle città commercialmente più ricche, che a un certo punto interviene a dirimerle una nuova forma di mediazione: la legislazione. Si esige una legge scritta (nomos) a cui i cittadini si assoggettino e a cui possano ricorrere per rivendicare i loro diritti: dalla politica si separa il diritto. È questo un fatto di enorme importanza storica, che assume il suo massimo sviluppo non tanto nelle colonie greche dell’Asia Minore, quanto in quelle occidentali della Magna Grecia. Si vedrà più avanti che è proprio qui che si sviluppa il pensiero matematico e che sorge, ad Elea, la scuola filosofica che avrà il suo massimo rappresentante in Parmenide.

Il dominio dell’oligarchia dinastica diventa dominio politico, l’aristocrazia del denaro sostituisce quella della stirpe, il potere viene protetto non da tradizioni di nobiltà, ma da leggi scritte che sanzionano il potere del denaro. Il censo diventa fattore essenziale per avere diritti politici e partecipare alla cosa pubblica. Gli aristocratici convertono in denaro i raccolti delle loro terre e riuniscono schiavi nelle loro miniere, rinunciano alla pirateria per il commercio, più sicuro. La pirateria era la risposta dell’aristocrazia guerriera alla crescita di potere della nuova classe di mercanti. Dapprima gli aristocratici difendono i loro privilegi combattendo i commercianti per mare, ma in seguito trovano più utile e lucroso farsi essi stessi mercanti. D’altro lato, la nuova classe di cittadini arricchiti, dapprima sdegnati dai nobili come il capo pirata sdegna il capitano della nave mercantile, acquistano sempre maggior prestigio e investono il loro denaro in terre, per cui ben presto non hanno più nulla da invidiare ai nobili e ai cavalieri. Gli aristocratici divenuti mercanti e i mercanti divenuti proprietari terrieri sono i veri depositari di una nuova forma di potere: quello dell’oligarchia plutocratica.

Al di sotto dei nobili ricchi e dei nuovi ricchi si costituisce una classe media, la quale si arricchisce per matrimoni o speculazioni fortunate, o si impoverisce nel lavoro manuale agricolo e artigianale. Al di sotto ancora vi sono i contadini e gli artigiani. I primi sono soggetti all’usura dei ricchi e costretti a vendere a basso prezzo i prodotti della loro terra per comprare ad alto prezzo gli oggetti fabbricati. I secondi, il popolo cittadino costituito dagli artigiani, dai bottegai, dai manovali e dai mercenari, formano un proletariato urbano, concentrato soprattutto nei mercati e nei porti, non abbastanza forte per imporre il suo volere, ma abbastanza per costituire un elemento di disturbo.

Dal VII secolo in poi la storia greca, non solo quella degli Ioni dell’Asia Minore, è caratterizzata da un continuo susseguirsi di lotte di classe; sono queste appunto che portano alla richiesta di leggi scritte e democratiche, le quali servono alla nuova classe di ricchi come arma potente per combattere da una parte i diritti divini ed ereditari degli aristocratici, dall’altra le rivendicazioni dei contadini e degli artigiani. Gli aristocratici perdono il privilegio di creare e interpretare le regole della vita sociale per tradizione di sangue. Dalla responsabilità collettiva del ghenos e della famiglia si passa a quella individuale del cittadino di fronte alla città-Stato. Il potere della tradizione cede il posto al potere della legge.

Un’altra istituzione di importanza fondamentale sorse in quel periodo di grandi trasformazioni storiche. La moneta di conio, il cui titolo è garantito dallo Stato, fu inventata proprio intorno al VII secolo, in Asia Minore, per facilitare gli scambi commerciali tra le città ionie e le più importanti città della Lidia. Queste ultime avevano già accumulato notevoli ricchezze negli scambi con la Mesopotamia, tanto che in quel periodo i Lidi erano ritenuti i più abili mercanti per via di terra. Le città ionie offrivano a questi mercanti dell’interno uno sbocco sul mare: i Greci dell’Asia Minore divennero gli intermediari indispensabili negli scambi con tutti gli altri popoli non raggiungibili direttamente per via di terra. La potenza navale degli Ioni si accrebbe rapidamente soppiantando quella più antica dei Fenici.

Due fattori soprattutto, del tutto nuovi per quei tempi, differenziavano il commercio greco da quello fenicio e furono all’origine della sua supremazia. I Greci non si limitavano, come i Fenici, a scambiare per mare schiavi o prodotti raffinati come spezie, gioielli, preziosi tessuti, etc, ma scambiavano generi di prima necessità e di basso costo, come olio e vino, vasi di ceramica, metalli, tessuti e utensili; e li scambiavano in grande quantità. È facile capire come questo tipo di commercio instauri un rapporto di scambio del tutto nuovo tra i popoli. Non si bada più alla qualità della merce scambiata, ma alla sua quantità. Lo scambio non è soltanto al servizio dei ricchi e potenti monarchi e aristocratici dei popoli più “civili”, ma di una più ampia cerchia di ceti sociali. Ogni popolo, sia esso civile o barbaro, ogni individuo, sia esso di alto o basso rango, è per il Greco un possibile compratore o venditore di merci.

Un’altra differenza sostanziale si aggiunge a questa. I Fenici, che per la loro perizia nel navigare e per il loro coraggio si possono considerare i più arditi navigatori dell’era antica, affrontavano il mare con poche navi per volta e sulle coste raggiunte durante le loro tappe costruivano degli empori commerciali che servivano da base per i loro commerci più lontani. La fondazione di empori è un fatto caratteristico del commercio fenicio. Vi sono solo poche eccezioni a questo fatto, e la più importante di queste è la fondazione di una città come Cartagine, la quale ben presto divenne così potente economicamente da essere in grado di ribellarsi agli stessi Fenici e di costituirsi come potenza navale indipendente. Gli Ioni dell’Asia Minore, diversamente dai Fenici, instaurarono un tipo di commercio per mare che aveva come caratteristica essenziale un fatto del tutto nuovo: la fondazione di colonie.

Non è facile enumerare tutte le cause della colonizzazione greca, ma si può ritenere che le più importanti siano state la scarsità di un retroterra coltivabile, che portava alla ricerca di nuovi territori; la sovrappopolazione crescente, collegata all’aumento delle ricchezze; le lotte di classe fra fazioni rivali in seno a singole città o fra città diverse, le quali costringevano interi nuclei cittadini all’esodo per mare. Soprattutto quest’ultimo fattore deve essere tenuto in considerazione, in quanto è l’espressione tipica dell’instaurarsi della nuova forma di rapporti sociali, della rottura degli antichi vincoli feudali di parentela in seguito al sorgere di una nuova classe di ricchi mercanti, dell’instabilità politica e sociale che ne derivano e del particolarismo politico della polis.



Alla ricerca di stabilità

L’invenzione della moneta ha svolto un’azione rivoluzionaria su tutta una serie di piani, accelerando un processo sociale di cui essa stessa era uno degli effetti fondamentali: lo sviluppo, nell’economia greca, di un settore commerciale marittimo estendentesi anche a prodotti di consumo corrente, e la creazione di un nuovo tipo di ricchezza radicalmente differente dalla ricchezza in terre e di una nuova classe di ricchi, la cui azione è stata decisiva nella ristrutturazione sociale e politica della città. Nascono una nuova mentalità e una nuova morale. Tutta l’immagine tradizionale dell’eccellenza umana dovuta a nobiltà di stirpe e virtù guerriere è messa in discussione è più tardi distrutta dal potere del denaro. La moneta è diventata un segno sociale di valore: essa dà prestigio e potere. Sorta come un artifizio umano atto a garantire la comodità degli scambi tra popoli commercianti, la moneta stabilisce tra valori d’uso che sono in se stessi qualitativamente diversi, un comune denominatore e una comune misura. Le merci per poter essere scambiate devono essere paragonate tra loro, devono essere rese equivalenti l’una all’altra mediante un processo di astrazione che trascura la diversità per ricercare l’uniformità, per ricercare quell’elemento quantitativo ed astratto che è il valore di scambio. Ogni merce è simile ad ogni altra; così un uomo vale un altro purché possieda la medesima quantità di denaro. La legge scritta ribadisce, nel suo processo di astrazione, il processo di quantificazione instaurato dalla circolazione del denaro: tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge come di fronte al denaro; tutti possono accedere alla cosa pubblica e al governo della città, con i poteri proporzionali al loro censo, e tutti possono acquisire ricchezze mediante la tesaurizzazione, il commercio e la speculazione, indipendentemente dalla famiglia di appartenenza, dalla religione degli avi e dai costumi della stirpe.

Il processo di astrazione e di quantificazione si manifesta, oltre che nella moneta e nel diritto, in altri settori: l’adozione della scrittura alfabetica, la promulgazione di un calendario civile rispondente alle esigenze dell’amministrazione pubblica, la divisione della città in settori territoriali delimitati in base a criteri di comodità amministrativa, la nascita della matematica e della filosofia e, infine, il concetto stesso di polis. La città non si identifica con nessun gruppo particolare, nessuna famiglia privilegiata, nessuna attività specifica: è semplicemente l’insieme di tutti i cittadini il cui rapporto sociale, liberato dagli antichi legami personali e familiari, si definisce astrattamente in termini di uguaglianza, di identità, di intercambiabilità dei ruoli, di isonomia.

La mentalità matematica, o razionale, o logica, sorge nelle colonie Ionie dell’antica Grecia contemporaneamente alla struttura economica mercantile e marinara. L’elemento quantitativo e astratto della matematica si accompagna al processo di astrazione e quantificazione implicito nello scambio delle merci.

Alla trasformazione sociale che segna il passaggio dall’antico regime monarchico e feudale alla città-Stato, si accompagnano analoghe trasformazioni nel campo del pensiero etico e di quello mitico-religioso.

Le antiche prerogative religiose per mezzo delle quali stirpi regali e nobiliari assicuravano il loro dominio sulle masse, perdono il carattere di privilegio, estendendosi e divulgandosi fino a essere integrate quasi interamente alle istituzioni politiche. Un sapere prima proibito e riservato solo a pochi privilegiati diventa di dominio pubblico, viene discusso nell’ambito di confraternite di saggi che ormai non impongono più alcuna restrizione di rango e di origine. L’apertura alla discussione comune su argomenti di ordine generale, prima oggetto di rivelazione sovrannaturale quali la genesi dell’ordine cosmico e la spiegazione dei fenomeni naturali, porta al sorgere della filosofia.

Il filosofo non è più l’antico sacerdote depositario di un mistero e al servizio del potere regale, ma un individuo appartenente a una confraternita in cui è aperta la libera discussione; più tardi egli argomenterà addirittura le proprie opinioni in piena agora, facendole oggetto di un dibattito pubblico in cui la contraddizione, l’argomentazione dialettica, la «dimostrazione», avranno preso definitivamente il sopravvento sulla rivelazione soprannaturale. Il problema fondamentale del filosofo e del saggio è la diffusione e la divulgazione delle proprie idee, è il porsi in relazione dialettica con i propri predecessori e i propri successori. Egli deve tener conto delle possibili argomentazioni contrarie dei suoi avversari, ed è costretto a pensare continuamente in relazione a loro. Il suo compito è quello di far scuola, di insegnare, di trasmettere idee e conoscenze mantenendo continuamente aperta la possibilità di discussione: mediante le parole e gli scritti egli si rivolge a tutti i cittadini e a tutte le città. Il filosofo non ha più patria né tradizioni, ma si può dire che è “cittadino del mondo”. Egli viaggia di città in città per discutere le sue idee, apprenderne di diverse, controbattere, argomentare; è molto più difficile tener conto della sua città di origine piuttosto che della “scuola” a cui appartiene; è questo infatti uno dei pochi elementi atti a caratterizzarlo. Egli, come afferma Eraclito, deve far leva su ciò che vi è di comune a tutti gli uomini, deve fondarsi sul logos come la città si fonda sulla legge; l’unica legge a cui obbedisce il filosofo è la legge della ragione. Ma il logos eracliteo, il principio normativo della natura, comincia a staccarsi dalla natura stessa: l’unità originaria tra essere, divenire e norma è ormai intaccata. Il logos, più che principio normativo naturale, è principio normativo umano, ciò che regola il comportamento degli uomini nei loro rapporti tra di loro e con la natura. Ma la natura è assoggettata ad una legge che non si è creata essa stessa e non le è più immanente; una legge che si rifa all’ordinamento sociale della città-Stato, la quale impone le sue regole di condotta in tutti i rapporti dell’uomo con se stesso, con gli altri uomini e con la natura, così come il denaro, valore di scambio universale di tutte le merci, impone la sua legge alle merci stesse e regola il rapporto degli uomini tra loro nello scambio commerciale.

Così come l’ordine sociale, rotti gli antichi vincoli feudali, è soggetto a una elaborazione quantitativa e astratta, allo stesso modo l’ordine naturale, sfuggito agli stretti vincoli della verità rivelata, diviene oggetto di una elaborazione razionale. Il problema cosmologico diviene argomento fondamentale della filosofia. Il problema dell’origine e del divenire del cosmo è alla base di una ricerca pressante che mira a cogliere, al di là del mutevole e del cangiante, lo stabile, il permanente, l’identico a se stesso. È una esigenza pienamente comprensibile, poiché propria di individui che vivono in un clima di incessanti trasformazioni sociali, di accese lotte di classe, di esasperato particolarismo politico.

Le stesse esigenze fondamentali si ritrovano pure nella poesia anteriore al sorgere della filosofia e in quella ad essa contemporanea, da Omero in poi. Nella poesia di questo periodo appare di frequente, espresso in modo molto vivace, il senso della fugacità e mutevolezza della vita e del destino umano, il disagio e l’ansia di chi sente intorno a sé un mondo sconvolto e in continua trasformazione. In mezzo a tale instabilità di vita, lo Ionico sente il bisogno urgente di afferrarsi ad alcunché di fermo e di stabile, l’esigenza di concepire un principio unico e una legge permanente del cambiamento: ricorre così ai concetti astratti di Fato, Necessità, Giustizia, che gli servono come ancora di salvezza. Questi concetti etici, sorti nell’ambito della vita sociale come risposta alle aspre lotte di città, di partiti e di classi, vengono a costituire non soltanto il tramite tra l’ambito sociale e individuale, ma anche tra questo e il mondo naturale circostante. E poiché, in seguito ai lunghi e pericolosi viaggi per mare, si accentua ancor di più la consapevolezza della mutevolezza e dell’instabilità di tutte le cose della natura, il problema della ricerca di una stabilità e di una permanenza acquista dimensioni cosmiche, diventa cioè problema filosofico. La speculazione sul mondo naturale, volta alla ricerca di una legge unitaria di ogni trasformazione, trova nella precedente concezione etica e nei concetti astratti di Necessità e Giustizia un punto di riferimento fondamentale. Nei filosofi ionici del VII secolo, e in seguito in Eraclito, Parmenide, Empedocle e Democrito, i concetti di Fato, Necessità e Giustizia stabiliscono, nella molteplice varietà dei fenomeni, il principio unitario permanente di una legge eterna ed universale. La parola stessa kosmos, derivata dal campo politico-militare, che significa disposizione ordinata e che darà origine al termine cosmologia, rispecchia quest’ambito mentale.

La nozione di una legge universale e stabile, dominatrice della vita umana, appare in Grecia per la prima volta nell’epopea ionica dei poemi omerici. Questa nozione si accompagna alla transizione da una più antica forma di morale, esaltante le passioni violente e il valore guerriero, tipica dell’aristocrazia fondiaria, ad un’altra più recente in cui il coraggio e la forza sono considerate passioni pericolose e cedono il posto alla prudenza e all’intelligenza. La morale del commerciante si sostituisce alla morale del guerriero, la violenza della ragione e del linguaggio a quella della forza fisica, il rischio calcolato dell’astuto mercante al rischio manifesto del nobile combattente. Sorgono così una mentalità ed un’etica del tutto nuove.



Fato, Necessità, Giustizia

Pur essendo sempre considerato come regolatore supremo di tutti gli eventi naturali ed umani, il Fato viene interpretato, nell’ambito della concezione ionica, in due modi sostanzialmente diversi. Talvolta esso appare come una misteriosa potenza oscura che distribuisce ciecamente i beni e i mali tra gli uomini. Talaltra come legge normativa, come principio razionale ed etico di condotta che l’uomo deve seguire per non provocare con la violazione di un ordine prescritto la sanzione punitrice. La prima concezione ricorda le cieche forze della natura a cui è soggetto il navigante e le forze incontrollate e distruttrici liberatesi nelle prime cruente lotte di classe che segnarono l’avvento della nuova società. Nella poesia lirica e tragica del periodo più antico appare continuamente la chiara consapevolezza della meschinità dell’uomo soggetto a un potere che gli è superiore e che non è assolutamente in grado di controllare. Sorgono così i primi precetti morali di moderazione che richiamano non tanto a un’esigenza di misura e proporzione, come spesso si è affermato, quanto alla coscienza della condizione limitata e dipendente propria dell’uomo di quell’epoca. Ma in seguito, quando sorgono le prime leggi scritte volte a dirimere le vertenze sociali e ad affermare la potenza astratta del denaro, gli antichi decreti del Fato, si trasformano definitivamente in norme di condotta morale, in un’esigenza di ordine e giustizia la cui violazione porta inevitabilmente a delle sanzioni volte a ripristinarne la validità. Non più violenza cieca della natura, ma le passioni umane vengono considerate d’ora in poi l’origine prima della violazione della legge di ordine e giustizia. La ribellione alla legge cieca del Fato poteva essere considerata temerarietà e suscitare ancora un senso di nascosta ammirazione; la ribellione alle norme di giustizia viene considerata semplicemente tracotanza e stolta arroganza, e come tale va punita. Solo a questo punto appare pienamente evidente il passaggio alla nuova concezione etica della società mercantile per cui il controllo delle proprie passioni, la prudenza, l’uso della ragione e la violenza subdola e nascosta delle leggi e delle norme di condotta prendono il sopravvento sull’aperta espressione dei propri desideri, sull’emozione violenta, sulla forza delle armi e sulla temerarietà. Ora si manifesta chiaramente il dominio dell’astratto valore di scambio sugli antichi vincoli e rapporti sociali.

Allo stesso modo, dal principio di Necessità, rispondente alla primitiva situazione sociale in cui l’individuo era completamente in balìa dei grandi sconvolgimenti politici e delle forze naturali che il marinaio-mercante era costretto ad affrontare per mare in condizioni di estrema precarietà (situazione che portava alla nostalgia di un mondo più stabile, ormai perduto, e quindi alla reazione di fronte ai nuovi avvenimenti storici), si passa gradatamente al principio di Giustizia. Ciò avviene quando comincia ad essere costruito un nuovo ordinamento sociale, quando l’instabilità e l’incertezza cominciano a cedere il posto alla stabilità e alla permanenza, quando cioè si stabilisce un equilibrio tra le vecchie e le nuove classi sociali in lotta sulla base del comune denominatore del valore di scambio, accettando come legge la potenza del denaro, il quale stabilisce il valore individuale in base al censo. Ma la nuova stabilità sociale è raggiunta astrattamente, con la promulgazione di leggi scritte e con la quantificazione e razionalizzazione di tutta la vita cittadina. Sebbene l’organizzazione sociale generale sia soggetta a leggi abbastanza stabili, tuttavia, nell’ambito della concreta vita quotidiana, domina il continuo incessante divenire, il gioco di alterne fortune e vicende, per cui nulla vi è in concreto di fisso e di stabile. Solo nell’ambito dell’amministrazione della giustizia e del potere appare l’astratto principio di permanenza e immutabilità, per cui il mondo sociale appare dominato da un’unica ferrea legge: la legge del profitto. Questa situazione sociale trova una propria corrispondenza nella filosofia. Dal VIII-VI secolo in poi l’attenzione comincia a fissarsi sulla permanenza e sulla legge di necessità, di misura e di giustizia; diviene sempre più urgente l’esigenza di ricondurre il molteplice all’unitario, il divenire all’essere. Ma non più in una concezione organica complessiva della natura per cui l’essere è privo di realtà se non è principio del divenire, ed il divenire non è più accettabile se non è riconducibile all’essere, bensì dapprima nell’ambito di una concezione dialettica che rapporta l’essere al divenire nel tentativo di una reciproca giustificazione e tenta di ricondurre il molteplice all’unitario, in seguito nell’ambito dello stesso essere che, successivamente alla negazione della realtà di ogni divenire, può rapportarsi solo a se stesso. Questa evoluzione del pensiero filosofico può essere facilmente seguita, poiché ripercorre le strade dell’evoluzione del capitale commerciale.



L’inganno e la persuasione

Il commerciante scambia merci per guadagnare denaro; nel far ciò egli rinuncia alla violenza delle armi per far uso di un mezzo più sottile e raffinato: la violenza del linguaggio. Il mercante rinuncia al bottino di guerra, facile quanto effimero, per un guadagno più duraturo anche se più difficile da conquistare. Egli rinuncia alle attività dionisiache del saccheggio e della guerra per l’attività apollinea del commercio. Mentre i popoli guerrieri si impongono con la violenza immediata della propria potenza, i popoli commercianti, troppo deboli e imbelli, devono ricorrere all’astuzia per sopravvivere. Rinunciano al rischio dell’avventura, differiscono la loro cupidigia nel tempo, rifuggono dalla violenza manifesta per ricorrere alla violenza nascosta dell’astuzia.

L’astuzia è l’arte di persuadere ingannando, e l’arte di persuadere ingannando è diplomazia. È necessaria una superiorità di linguaggio, è necessario essere coerenti per persuadere con l’argomentazione; è necessario dimostrare, cioè mostrare attraverso il linguaggio, che non può essere altrimenti da ciò che si vuole che sia. La dimostrazione è convinzione violenta con il linguaggio, è persuasione che ci si può autoconvincere della verità di un argomento, è facilitazione all’autoconvinzione. Dimostrare vuol dire persuadere che il comportamento che si vuole ottenere è vantaggioso per la controparte. Il mercante deve persuadere per vendere le sue merci con guadagno, e per far ciò egli deve far leva sul desiderio degli eventuali compratori. Egli deve ingannare, ingannare mediante la persuasione. L’arte di ingannare persuadendo è tipica del mercante.

Il potere del pensiero e del linguaggio sulla realtà sono garantiti solo dalla separazione tra linguaggio e realtà; ma il potere sulla realtà non può essere che il possesso di questa. Vi è un paradosso nel fatto che questo potere, che è garantito solo dalla separazione, debba essere nello stesso tempo un possesso. Da qui ha origine un processo infinito per cui il pensiero ed il linguaggio continuamente tentano di impossessarsi della realtà, continuamente ristabilendo, proprio per il fatto stesso di esprimersi come pensiero e come linguaggio del dominio alienato, la loro distanza dalla realtà stessa. L’assurdo è il volersi impossessare della realtà nel momento e nell’atto stesso in cui si stabilisce la separazione da questa.



“Guadagnare” la realtà

Per meglio capire la relazione tra lo sviluppo della filosofia greca e il parallelo sviluppo dell’economia commerciale, conviene paragonare la concezione della natura dei primi filosofi ionici con la speculazione filosofica di Parmenide, per cogliere ciò che in esse vi è di sostanzialmente diverso.

Il filosofo ionico, allorché parla della realtà naturale, usa la parola ta onta, cioè le cose che esistono, in quanto egli percepisce la realtà nella sua concreta molteplicità. L’essenza del mondo, comunque sia interpretata, si manifesta per lui sotto la forma visibile di una pluralità di cose, ricche di tutte le loro qualità. In Parmenide, per la prima volta, l’essere appare al singolare ed è designato col termine ta on, cioè ciò che è. L’essenza del mondo non è più una variopinta pluralità di qualità, ma un’unica qualità astratta e generale. Il cambiamento di linguaggio rivela l’avvento di una nuova concezione della realtà: questa non è più costituita dalle molteplici cose colte dall’esperienza sensibile e dalla riflessione speculativa, ma è l’oggetto intellegibile di una riflessione razionale (il logos), che si esprime attraverso un linguaggio che, riflettendo criticamente su se stesso, trova nel principio di non contraddizione la propria esigenza fondamentale.

L’Essere di Parmenide è Uno, identico a se stesso: non può diventare diverso da sé, ma può divenire solo in se stesso. L’Essere di Parmenide è intellegibile, è oggetto del logos, cioè della ragione; è oggetto del linguaggio razionale. Anzi, esso si costituisce nell’ambito di questo stesso linguaggio razionale, che è ciò che è comune a tutti gli uomini, l’elemento generale astratto dei loro reciproci rapporti di comunicazione. L’Essere di Parmenide non appare però immediatamente nella realtà, ma deve essere raggiunto con una faticosa conquista: la ricerca del filosofo. L’essenza della realtà deve essere “guadagnata”.

Appare evidente la connessione tra l’Essere di Parmenide e il valore di scambio sotto forma di denaro, identico a se stesso, pura astrazione. Il denaro viene accumulato per comprare merci in un luogo e rivenderle in un altro luogo al fine di ottenere ancora denaro. Ma lo scambio di denaro con denaro appare assurdo, poiché scambiare ciò che è identico a se stesso non ha senso. Il senso di questo processo viene dato infatti dal fatto che il denaro non si scambia con uguale quantità di denaro, ma con una quantità maggiore, cioè aumenta il suo valore. Ciò avviene perché le merci vengono comperate a basso prezzo, per essere rivendute a prezzo più alto. Il denaro può quindi scambiarsi con se stesso, può rappresentare l’Essere immutabile che ha ragione di esistere solo in se stesso. A questo punto la realtà diventa Una qualitativamente. La sua unica qualità è la “scambiabilità”, il valore di scambio.

«La dottrina di Parmenide segna il momento in cui è proclamata la contraddizione tra il divenire del mondo sensibile, questo mondo ionico della physis e della genesis, e le esigenze logiche del pensiero», afferma Vernant. Cioè segna il momento in cui è proclamata la contraddizione tra le diverse qualità della merce e l’unica qualità del denaro: la scambievolezza, il valore di scambio, ciò che accomuna tutte le cose, ciò che è l’essenza di tutte le cose, ciò che fa sì che tutte le cose siano paragonabili, ciò che le può mettere in rapporto, ciò che costituisce la loro ratio, il loro aspetto razionale, intellegibile, logico. «Dopo Parmenide — continua Vernant — il compito della filosofia sarà quello di ristabilire mediante una definizione più precisa e più sfumata del principio di non contraddizione, il legame fra l’universo razionale del discorso ed il mondo sensibile della natura». In Parmenide è distrutto questo legame, cioè è distrutto il legame tra il valore di scambio delle cose e le cose stesse. Il valore di scambio delle cose si sostituisce ad esse, le rappresenta, come l’universo razionale del discorso rappresenta il mondo sensibile della natura.

La ragione greca è ragione commerciale. Il commercio può avvenire solo a patto dell’inganno mediante il linguaggio, ed il linguaggio è costruito sull’inganno. Il linguaggio deve persuadere, deve argomentare la persuasione, deve dimostrare. Il linguaggio, come l’Essere di Parmenide, deve trovare in se stesso la propria verifica.





[Diavolo in corpo, n. 3, novembre 2000]

http://www.finimondo.org/node/588

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