martedì 29 novembre 2011
Proudhon Rudolf Rocker
Ben pochi pensatori socialisti sono stati come Proudhon tanto odiati dai loro avversari, i difensori del mondo capitalista e autoritario, e ancor minore è il numero dei pensatori che sono stati altrettanto calunniati, combattuti e incompresi nel movimento socialista in generale. I rappresentanti intellettuali del cosiddetto “socialismo scientifico” non gli hanno lasciato intatto un sol capello della testa; lo hanno presentato come l’incarnazione dell’incapacità e dell’ignoranza, come un uomo di tendenze reazionarie e borghesi che non aveva idee chiare su nessun argomento.
Oggi sappiamo che senza Proudhon probabilmente il mondo non avrebbe mai avuto il “socialismo scientifico” della scuola marxista.
Proudhon e Considérant sono stati i veri maestri del democratico imborghesito Karl Marx; essi gli fecero conoscere per la prima volta le idee e i concetti socialisti e nei loro lavori troviamo i principali elementi delle teorie che più tardi i marxisti proclamarono loro esclusiva proprietà spirituale.
Saint-Simon, Fourier e Proudhon sono le figure più originali della storia del socialismo francese e le loro idee hanno fecondato il movimento socialista degli altri paesi. Insieme ai grandi pensatori del socialismo inglese, William Godwin e Roberto Owen, essi furono i veri maestri del socialismo moderno.
Pierre-Joseph Proudhon nacque il 15 gennaio 1809 a Besançon, nella stessa città dove nacquero pure Charles Fourier e Victor Hugo.
I suoi genitori erano modesti lavoratori molto poveri ed ebbero a lottare duramente per il pane quotidiano. Pierre, il maggiore di quattro fratelli, era un fanciullo intelligente e svelto; ma le condizioni materiali dei suoi genitori erano così difficili, che gli fu quasi impossibile frequentare la scuola. E quando, grazie all’appoggio del signor Renaud, nella cui fabbrica di birra avevano lavorato i suoi genitori, ottenne un posto nel ginnasio di Besançon, la situazione del giovinetto Proudhon si fece ancora peggiore. Le sue ore libere doveva dedicarle al lavoro, per contribuire a mantenere la famiglia; il resto del tempo lo consacrava allo studio. Non aveva neppure la possibilità d’acquistare i libri indispensabili e dovette chiederli in prestito ai suoi compagni più ricchi e copiarne il testo.
Però sin dall’infanzia Proudhon si distinse per una vigorosa energia. Sebbene le condizioni in cui viveva e studiava fossero le peggiori che possano immaginarsi, egli era sempre il miglior alunno e otteneva tutti i premi. In una lettera ad un amico narrava più tardi che un giorno, tornando a casa dopo aver ottenuto a scuola i migliori punti, non trovò neppure un pezzo di pane e la famiglia non aveva mangiato un boccone in tutto il giorno.
Compiuti i diciannove anni si vide costretto ad abbandonare la scuola e gli studi; tutti i suoi progetti per l’avvenire furono improvvisamente sconvolti dalle amare necessità della realtà. Il giovane studente fu costretto ad imparare un mestiere per guadagnarsi da vivere; durante due anni fu uno dei migliori tipografi della sua città. Nel 1831 Proudhon viaggiò per gran parte della Francia e della Svizzera francese, lavorando in varie città come compositore tipografo; però dedicava tutto il tempo disponibile allo studio e al suo sviluppo intellettuale. Già in questa epoca Proudhon aveva cominciato a studiare il problema sociale, familiarizzando con la letteratura dei grandi riformatori sociali del suo tempo: con le opere di Saint-Simon e di Fourier.
Nel 1832 il giovane tipografo tornò a Besançon e accettò il posto di correttore nella stessa tipografia dove aveva imparato il mestiere. Lì si stampavano generalmente opere teologiche, e Proudhon, che conosceva a perfezione il latino e il greco, imparò da solo l’ebraico, servendosi di traduzioni della Bibbia col testo a fronte. La sua situazione economica continuava a non esser buona, perché doveva mantenere quasi completamente la famiglia con quel poco che guadagnava.
In quello stesso anno Proudhon ebbe occasione di fare un viaggio a Parigi. La capitale della Francia, «il cuore d’Europa», l’aveva sempre attratto; disgraziatamente non poté restarci, perché obblighi di famiglia lo richiamarono a Besançon. Negli anni seguenti rimase quasi sempre nella città nativa, lavorando come tipografo e correttore. Nel 1836 si mise in società con un amico e organizzarono insieme una piccola tipografia; ma questo tentativo non gli diede nessun vantaggio. La sua vita in quell’epoca era una continua lotta per l’esistenza e non aveva neppure la minima probabilità di migliorare.
Improvvisamente gli si offrì un’occasione insperata.
La vedova dell’accademico Suard aveva lasciato all’Accademia di Besançon una somma che dava una rendita annua di 1500 franchi. La signora Suard aveva deciso che l’Accademia scegliesse ogni tre anni un giovane istruito, con buone attitudini come scrittore o scienziato, e gli elargisse per quel tempo quella somma perché potesse continuare i suoi studi.
Proudhon, seguendo il consiglio dei suoi amici, presentò un lungo memoriale sollecitando la pensione; nel suo scritto faceva un quadro delle sue condizioni ed insieme delle sue speranze per l’avvenire. È caratteristica per il carattere di Proudhon la sincerità con cui descrisse l’oggetto dei suoi studi nella sua presentazione all’Accademia, che terminava con le seguenti parole:
«Nato ed educato nella classe operaia, alla quale ancora oggi appartengo col cuore, col carattere, con le attitudini e sopratutto con gl’interessi comuni, sarebbe la maggior soddisfazione del candidato, se ottenesse i vostri voti, di aver richiamato con la sua persona la vostra giusta attenzione su quella parte della società sì bene ornata del nome di operaia; di esser stato considerato come il suo primo rappresentante dinanzi a voi e di poter lavorare senza tregua per la filosofia e per la scienza, con tutta l’energia della sua volontà e con tutta la forza del suo spirito per la completa liberazione dei suoi fratelli e compagni».
Gli accademici, effettivamente, scelsero Proudhon, nonostante che alcuni si fossero dapprima opposti, spaventati dal suo straordinario modo di vivere.
Nell’ottobre 1838, Proudhon partì per Parigi per iniziare i suoi studi. Lavorava giorno e notte e gli amici non riuscivano a capire donde traesse tanta energia e tanto entusiasmo per il suo lavoro. Si occupava principalmente dello studio della filosofia, della storia e dell’economia politica, già impegnato a realizzare la grande opera che meditava e che costituiva l’unico scopo della sua vita. Ma anche in questo periodo ebbe a lottare contro le dure necessità economiche. I 1500 franchi dell’Accademia di Besançon gli sarebbero bastati per condurre una vita modesta; doveva invece mandare alla famiglia la maggior parte di questa somma e si vide costretto ad occupare le ore libere a correggere le bozze di grandi tipografie e a scrivere brevi articoli per un’enciclopedia; così riusciva a guadagnarsi il pane.
Intanto l’Accademia stabiliva un premio per il miglior lavoro sul tema «Dell’utilità di celebrare la domenica». È chiaro che Proudhon, avendo ricevuto l’aiuto dell’Accademia, stimò suo dovere morale partecipare a questo concorso; e così fece. Questo lavoro, che più tardi egli stesso pubblicò, è senza dubbio il più importante che sia stato scritto sull’argomento; si basa principalmente sull’antica legislazione ebraica, ma le conseguenze cui arriva l’autore sono molto originali. Proudhon considera la legge ebraica che ordina di celebrare il sabato come il principio d’una legislazione sociale, come la prima idea di un’eguaglianza sociale. Il precetto di riposarsi per un giorno alla settimana non è la legge di un tiranno, bensì un’espressione delle aspirazioni sociali delle masse. Questo contenuto morale della religione sopravvivrà a tutte le cerimonie esterne. Nella prefazione Proudhon parla di un’epoca in cui «tutti celebreranno la festa della domenica, ma nessuno andrà in chiesa. E così il popolo comprenderà come possa essere che una religione sia falsa, e pur tuttavia il contenuto di questa religione sia vero; come filosofare su di un dogma significa rinunziare alla fede; come trasformare una religione significa abolirla. I preti, con le loro tendenze scientifiche, debbono giungere a questa stessa conclusione fatale; che ci perdonino di averli sorpassati e non ci maledicano per esser arrivati alla tomba della religione».
In quest’opera già si nota l’audacia del futuro rivoluzionario. Si può immaginare l’impressione che produsse nei moderatissimi signori dell’Accademia. Proudhon sapeva benissimo a che cosa andava incontro, e proprio quando mandava il manoscritto agli accademici scriveva a un amico: «Sono molto triste; la ragione m’insegna ogni giorno nuove verità incontestabili, ma quanto più conosco il mondo, tanto meglio comprendo che dovrò sopportare molte pene se vorrò esprimere queste verità. Che importa? La verità soprattutto, qualunque cosa debba succedere!».
Il 24 agosto 1839 l’Accademia di Besançon fece conoscere il suo giudizio. Il relatore, l’abate Doney, dichiarò esplicitamente che l’opera di Proudhon era la migliore e quella che rivelava maggior ingegno; però, sebbene l’Accademia riconoscesse le oneste intenzioni dell’autore, le teorie che sosteneva erano troppo pericolose perché potesse approvarle. La commissione aggiudicò una medaglia a Proudhon e riconobbe pubblicamente il suo ingegno. Ma quando il giovane scrittore pubblicò per conto suo l’opera, nacque un enorme scandalo e i rappresentanti della Chiesa non ebbero pace sinché non riuscirono ad impedire la vendita del libro.
Molte persone credettero che le tristi conseguenze del primo tentativo sarebbero servito di monito al giovane scrittore e «lo avrebbero messo sulla buona strada». Ma Proudhon non era di quei caratteri deboli che possono essere atterriti da queste meschine persecuzioni. Anzi, i vani argomenti dei suoi avversari furono per lui una prova che la sua via era la giusta. Lavorava con tutta l’energia, il suo spirito approfondiva sempre più i problemi sociali del tempo, esaminando le forme politiche ed economiche della società e analizzando le teorie degli economisti e del riformatori sociali. Dovette abbordare i più difficili e complicati problemi, ma il suo spirito geniale vinse ogni difficoltà.
Nel 1839 l’Accademia di Besançon bandì un nuovo concorso: «Delle conseguenze economiche e morali che la legge sull’eguale ripartizione dei beni tra i figli ha avuto sinora in Francia e che si possono prevedere per l’avvenire».
Proudhon decise di partecipare, benché sapesse da prima che la sua risposta avrebbe provocato una tempesta di biasimo morale e di attacchi da tutte le parti. Divise il tema dell’Accademia in tre parti, che formarono oggetto della sua indagine:
1) Che cosa è il principio dell’eredità?
2) Quali sono le cause dell’ineguaglianza?
3) Che cosa è la proprietà?
Il 9 giugno 1840 Proudhon presentò alla Accademia il risultato dei suoi studi, che pubblicò poco tempo dopo col titolo: Che cosa è la proprietà? Ricerche sul principio del diritto e del governo.
Il titolo originale era ben più rivoluzionario, diceva: Che cosa è la proprietà? Un furto. Teoria dell’eguaglianza politica, civile e industriale. Poiché non ci fu a Parigi un editore che avesse il coraggio di pubblicare un libro con quel titolo, Proudhon dovette rassegnarsi a modificarlo.
L’opera produsse l’impressione di una bomba, nonostante che non ne parlasse la maggior parte dei giornali. I dotti accademici di Besançon diventarono quasi pazzi al vedere il manoscritto. Ciò che più li irritava era che Proudhon avesse dedicato pubblicamente il suo libro alla loro Accademia.
Il 24 agosto 1840 l’Accademia di Besançon fu convocata in riunione straordinaria per condannare l’opera di Proudhon. I soci dichiararono unanimemente che nessuno di loro era d’accordo con le teorie che l’autore svolgeva nel suo libro; e per di più esigevano che qualora si pubblicasse una nuova edizione dell’opera non vi si stampasse la dedica all’Accademia. E gli illustri accademici non si accontentarono di questa deliberazione e pubblicarono la loro relazione, per scansare ogni responsabilità morale di quest’opera terribile. Ma questo ridicolo provvedimento ebbe un effetto assai diverso da quello che immaginavano i dotti signori; condannando pubblicamente l’opera, le fecero una splendida pubblicità. Tutti cominciarono a informarsi di questo libro straordinario e a voler conoscere l’autore che aveva avuto il coraggio di chiamar furto la proprietà e che si presentava al pubblico come anarchico.
L’Accademia non era ancora soddisfatta e richiese che Proudhon comparisse innanzi ai suoi membri per giustificarsi o, in caso che non potesse venir personalmente, mandasse una difesa per iscritto. Proudhon scelse quest’ultimo mezzo. La sua dichiarazione fu una mirabile difesa e giustificazione dei concetti e delle teorie svolte nella sua celebre opera; non ritrattava su nessun punto e dichiarava apertamente di essere un rivoluzionario, un uomo che aspirava a migliori forme della società. Con una logica inconfutabile respingeva tutti gli attacchi dei dotti accademici, facendo intendere che biasimare non equivale a contestare. «Se ho errato nelle mie conclusioni — diceva — esigo che mi si contesti e mi si dimostri il mio errore. Il mio lavoro lo merita e l’argomento stesso è abbastanza importante. Un membro della Convenzione, non potendo tollerare il continuo funzionamento della ghigliottina in quell’epoca, esclamò: “Uccidere non è contestare!”. Finché non mi si dimostri il contrario, io continuerò a sostenere che il mio libro è utile alla società e che il suo autore ha meritato di essere ricompensato e incoraggiato».
Queste parole coraggiose non mancarono di produrre il loro effetto su di una parte degli accademici e cosi l’Accademia non si rifiutò di continuare a pagare a Proudhon i 1500 franchi annui per altri tre anni.
Sopraggiunse presto un altro pericolo. Il governo aveva osservato che il libro di Proudhon produceva una rivoluzione nelle idee della popolazione intelligente e decise di mettere sotto accusa l’autore. Però volle prima conoscere il parere dell’Accademia di Scienze Morali di Parigi. Fu una fortuna per Proudhon che fosse incaricato della relazione il noto economista francese Adolphe Blanqui, fratello del famoso cospiratore comunista Auguste Blanqui; Blanqui dichiarò che il libro di Proudhon non era in nessun modo un manifesto sovversivo destinato a suscitare sentimenti rivoluzionari tra le masse, bensì un trattato scientifico e accademico sui principi e le istituzioni dello Stato e della proprietà. Se anche non s’era d’accordo con l’autore, bisognava riconoscerne la serietà scientifica e le attitudini eccezionali. Se non fosse stato per Blanqui, è certo che Proudhon sarebbe stato accusato e probabilmente condannato. Ciò comprese Proudhon e dimostrò la sua gratitudine a quest’uomo onesto col dedicargli la sua seconda opera sulla proprietà.
Mentre il nome di Proudhon diventava famoso in tutta la Francia, cominciava per lui uno dei più tristi periodi della sua vita. Il libro che più tardi arricchì molti editori, non gli rendeva quasi nulla. Abbiamo già detto delle difficoltà per trovare un editore che si arrischiasse a pubblicare l’opera; e anche dopo aver modificato il titolo l’editore temeva l’insuccesso e Proudhon dovette obbligarsi ad acquistare per suo conto 250 copie, la maggior parte delle quali distribuì agli amici e alle redazioni di vari giornali.
La sua situazione economica si faceva sempre peggiore. Da varie parti gli furono offerti posti nel giornalismo, ma per un carattere come Proudhon la sottomissione morale era peggio della morte e non poté decidersi ad accettare nessuna delle occupazioni offerte.
D’altra parte vide svanire i suoi progetti per l’avvenire: tutte le sue speranze terminarono come bei sogni. Non aveva sperato che la sua opera gli desse molto danaro, però era convinto d’avere almeno la possibilità di vivere una vita modesta come scienziato e scrittore indipendente.
Proudhon dovette decidersi nuovamente ad abbandonare Parigi e a tornare a Besançon, dove aveva ancora la sua tipografia che da tempo pensava di vendere, senza riuscirci per mancanza di compratore. Sperava di trovare almeno maggior lavoro e di aver tempo sufficiente per i suoi studi scientifici; ma non ottenne neppure questo. Pochi mesi dopo tornò a Parigi in cerca di occupazione; la sua situazione era cosi disperata che per qualche tempo pensò al suicidio.
Per fortuna riuscì ad ottenere un impiego come segretario di un avvocato parigino. Aveva poche ore di lavoro e disponeva del tempo necessario per continuare i suoi studi. Non durò molto a fare il segretario; ma poté cosi pubblicare un altro lavoro sulla proprietà e render più tollerabile la sua situazione per qualche tempo.
II
L’opera di Proudhon Che cosa è la proprietà? è stata il primo tentativo socialista di combattere l’economia politica con le sue stesse armi. Saint-Simon, Fourier, Cabet e le sette comuniste rivoluzionarie che si raccoglievano intorno a Buonarroti, Barbès e Blanqui si dedicarono esclusivamente a combattere gli economisti, i difensori del nuovo feudalesimo capitalista. Invece Proudhon fu il primo a dimostrare che le stesse dottrine degli economisti conducono irrimediabilmente alla negazione della proprietà.
In primo luogo Proudhon cerca di definire il concetto giuridico e sociale della proprietà e arriva alla conclusione che la antica interpretazione romana che dichiara la proprietà jus utendi et abutendi re sua, quatenus juris ratio patitur, cioè il diritto di usare e d’abusare della cosa per quanto lo permette la ragione del diritto, concorda perfettamente con la celebre “Dichiarazione dei diritti dell’uomo”, proclamati dalla Repubblica Francese nel 1793. Secondo questa Dichiarazione, la proprietà consiste nel diritto di godere e di disporre a proprio talento dei propri beni, delle proprie rendite, dei frutti del proprio lavoro e della propria industria. A sua volta, il Codice napoleonico, promulgato sotto il governo di Napoleone I, specifica che la proprietà consiste nel diritto di godere e di disporre delle cose nel modo più assoluto, purché non se ne faccia un uso proibito dalle leggi e dai regolamenti.
In verità, la legge costituisce in certo modo una limitazione del diritto di proprietà: la legge vuole impedire l’uso immorale della proprietà, ma questa limitazione giuridica moderna, nella quale si vuol vedere un progresso a paragone dell’antico concetto romano, è lettera morta, come spiega Proudhon con fine ironia:
«Il proprietario è padrone di lasciar marcire i frutti del suoi campi, di seminar male nella sua terra, di gettar via il latte delle sue vacche, di trasformare una vigna in deserto e un orto in parco: tutto ciò è, sì o no, un abuso? In fatto di proprietà, l’uso e l’abuso necessariamente si confondono».
Stabilita questa definizione del diritto di proprietà, Proudhon analizza le teorie con cui gli economisti cercano di giustificare la proprietà e di presentarla come diritto naturale. In generale esistono quattro teorie: 1) la giustificazione della proprietà con l’occupazione; 2) con la legge civile; 3) con il consenso universale; 4) col lavoro. Prima di confutare gli argomenti su cui si fondano queste quattro dottrine, Proudhon stabilisce una rigorosa distinzione tra la «proprietà» e il «possesso», o meglio tra il diritto di proprietà e il diritto di possesso. Il diritto di proprietà è il monopolio, «il diritto di usare e di abusare di una cosa»; il diritto di possesso non è che il diritto d’usufruire d’una cosa, di disporne per un fine determinato. Se prendo in affitto una casa, ne sono il possessore cioè godo delle sue comodità, ecc. Il mio diritto di possesso è sotto ogni aspetto un diritto naturale. Ma dietro il possessore c’è il proprietario, il monopolista, che mi affitta la casa e fonda i suoi diritti sopra una delle quattro teorie già menzionate. Proudhon non è lo scopritore di questa differenza tra il diritto di proprietà e quello di possesso, ma ne ha tratto tutte le conseguenze logiche e ha dimostrato che il diritto di proprietà è la morte del diritto di possesso, è la morte del diritto di soddisfare le nostre necessità naturali.
La legislazione rivoluzionaria del 1793 stabilì quattro principi, o meglio quattro diritti dell’uomo assoluti e fondamentali: libertà, eguaglianza, proprietà e sicurezza individuale. Proudhon esamina questi quattro diritti fondamentali e dimostra che il diritto di proprietà è in contraddizione con gli altri tre. Servendosi di una logica meravigliosa dimostra che la riunione di quei quattro principi non è che un fatto arbitrario e conclude con queste profonde parole:
«La libertà è un diritto assoluto perché è per l’uomo una condizione sine qua non della sua esistenza, come l’impenetrabilità per la materia. L’eguaglianza è un diritto assoluto, perché senza eguaglianza non c’è società. La sicurezza personale è un diritto assoluto, perché per ogni uomo la propria libertà e la propria esistenza sono preziose quanto quelle di qualsiasi altro. Questi tre diritti sono assoluti, cioè non possono essere né aumentati né diminuiti, perché nella società ogni associato riceve tanto quanto dà, libertà per libertà, eguaglianza per eguaglianza, sicurezza per sicurezza, corpo per corpo, anima per anima, per la vita e per la morte.
Invece la proprietà, secondo la sua ragione etnologica e la dottrina della giurisprudenza, è un diritto che vive fuori della società; poiché è evidente che se i beni di proprietà particolare fossero beni sociali le condizioni sarebbero eguali per tutti e sarebbe contraddittorio dire: La proprietà è il diritto di disporre nel modo più assoluto dei beni che sono sociali.
Quindi, se siamo uniti in società dalla libertà, dall’eguaglianza e dalla sicurezza, non lo siamo dalla proprietà. E perciò, se la proprietà è un diritto naturale, questo diritto naturale non è sociale, ma antisociale. Proprietà e società sono concetti che si escludono a vicenda; è tanto difficile associarli quanto unire due calamite per i poli simili.
Perciò o la società uccide la proprietà o la proprietà uccide la società».
Proudhon dimostra che i diritti naturali costituiscono parte integrante della nostra personalità. Nessuno ha sinora indagato le origini della libertà, dell’eguaglianza e della sicurezza, perché sarebbe un assurdo. Questi diritti esistono perché esistiamo noialtri; nascono, vivono e muoiono con noi. Non avviene lo stesso per la proprietà. La proprietà esiste di per se stessa; d’accordo con la legge, può esistere senza il proprietario; esiste prima che nasca l’essere umano e dopo che è morto il vecchio ottuagenario.
Dopo aver analizzato il significato dei diritti naturali, Proudhon passa agli argomenti con cui gli economisti cercano di giustificare la proprietà come istituzione naturale e necessaria.
Il primo argomento è quello della giustificazione della proprietà mediante l’occupazione, cioè che il primo ad impadronirsi d’una cosa ne è il proprietario. «Occupo una porzione di terra e ne sarò ritenuto proprietario finché non si dimostri che un altro mi ha preceduto». Ma se si può dimostrare che io non sono stato il primo, allora io non sono altro che un occupante della terra e quindi ho il diritto di usarne e di godere il prodotto del mio lavoro, senza essere né proprietario né responsabile verso la società della mia occupazione. In realtà la terra non può essere considerata proprietà privata perché è indispensabile alla nostra esistenza come l’aria, la luce e l’acqua; perciò bisogna che la società organizzi l’utilizzazione della terra a beneficio di tutti. Disgraziatamente si confonde il diritto di proprietà col diritto di possesso. Così il celebre filosofo ed oratore romano Cicerone paragona la terra a un teatro: il teatro, dice Cicerone, appartiene a tutti, eppure ogni spettatore ha il suo posto. Proudhon afferma che questo paragone non è una giustificazione del diritto di proprietà, ma anzi la sua negazione. Il paragone stesso è una conferma dell’eguaglianza: io non posso possedere più di un solo posto nel teatro e non è possibile che stia contemporaneamente nella galleria e in un palco. L’uomo ha il diritto di possesso, non quello di proprietà. Che dobbiamo intendere col concetto di «diritto di possesso»? Il diritto di ognuno a tutto ciò che gli abbisogna per il lavoro e per la soddisfazione delle sue necessità naturali. Quindi la giustificazione della proprietà mediante l’occupazione non è valida; ma prova soltanto che si è abolito un diritto naturale mediante il monopolio violento e che «la proprietà è un furto». E non è l’unico Proudhon ad arrivare a questa conclusione, poiché egli dimostra che tutti i partigiani della «dottrina dell’occupazione», da Grozio a Cousin, debbono giungere necessariamente alla stessa conclusione, se hanno il coraggio di dedurre le conseguenze logiche dalle loro teorie.
Il secondo argomento della giustificazione della proprietà è quello della «legge civile». I principali rappresentanti di questa tendenza, come per esempio Pothier, dichiarano che la proprietà, come la monarchia, è un diritto divino. «Dio ha creato la terra con tutti gli animali per uso dell’uomo», dice Pothier. Insomma, la terra è un dono di Dio a tutta l’umanità, per ogni individuo. Se cosi è, osserva Proudhon, perché non mi si dà la mia parte? A questo proposito, Pothier e i suoi discepoli dicono che più tardi, quando gli uomini erano cresciuti di numero, si erano divisi la terra e tutto quanto vi era sopra. Ognuno ebbe la sua parte, e questa fu l’origine della proprietà privata. In tal caso, le conseguenze distruggono il fine, perché Dio ha regalato la terra all’umanità, ma per l’accrescimento della popolazione milioni d’uomini perdono la loro parte. Similmente non ha valore la tesi che la prescrizione del possesso ha creato la proprietà, perché la prescrizione non può creare nessun diritto, così come nessuno ne può sopprimere. Questo argomento è quindi arbitrario e infondato.
La giustificazione della proprietà mediante il lavoro è parimenti priva di fondamento. Il lavoro può giustificare il diritto di possesso sopra una porzione di terra, però mai il monopolio. Ho diritto al frutto del mio lavoro; posso avere una porzione di terra finché ne faccio uso per mantenere la mia esistenza, e nulla più. D’altra parte, la spiegazione della proprietà per mezzo del lavoro contraddice il Codice Civile, che basa il diritto di proprietà sulla prima occupazione. Se ciò nonostante i nostri economisti sostengono che il lavoro crea la proprietà, allora il codice mentisce, mentisce la costituzione e il nostro sistema sociale è un’ingiuria alla giustizia. Il solo fatto che i difensori della proprietà si vedano obbligati ad usare diverse teorie per giustificarla è una prova che la loro coscienza non è tranquilla, che si sentono colpevoli. Se il lavoro crea la proprietà, come si giustifica l’eredità?
Proudhon non tralascia un solo argomento degli economisti e scopre le loro contraddizioni con una logica profonda. Neppure l’ultimo argomento, la giustificazione della proprietà mediante il consenso universale, trova grazia presso di lui. L’idea che gli uomini abbiano fondato la proprietà per decisione unanime è semplicemente ridicola. Nessun uomo cederà un diritto per nulla; si tratterà sempre di acquistare altri diritti in cambio della limitazione dei propri. Qui, come altrove, si manifesta il principio d’eguaglianza. Quando anche gli uomini rinunziassero ai loro diritti, se anche volontariamente li abbandonassero, neppure questa sarebbe una giustificazione del diritto di proprietà, perché tale consenso sarebbe illegale. L’uomo non può esistere senza la libertà e senza il lavoro. L’una e l’altro formano parte della sua esistenza e se cede la terra, il più importante mezzo di lavoro, commette un suicidio, cede la possibilità di vivere; e perciò l’argomento del consenso universale su cui si basano gli economisti non ha nessun valore.
Proudhon distrugge con la sua logica tutte le armi degli economisti. La vecchia affermazione che i rapporti tra il proprietario e il produttore non siano altro che un problema di scambio, che il padrone ceda in affitto la sua terra all’agricoltore o l’industriale gli strumenti di lavoro all’operaio perché possano produrre, ricevendo per il suo contributo una parte dei benefici, è confutata da Proudhon con argomenti invincibili. Il principio dello scambio si basa sull’eguaglianza: soltanto il lavoro può esser scambiato col lavoro. Questa è una delle condizioni fondamentali della giustizia sociale. Invece la terra del proprietario non può produrre da sé sola, così come le macchine dell’industriale; non sono che cose morte, incapaci di crear qualcosa da sé. Quindi lo scambio tra il capitalista e l’operaio non si basa sui principi dell’eguaglianza e della giustizia, bensì sulla forza bruta e sullo sfruttamento. Il proprietario non è altro che un parassita o un ladro.
Quindi la proprietà non è che un diritto immaginario e perciò la sua esistenza è assurda e impossibile.
III
Nella seconda parte del suo libro, Proudhon si occupa dei principi della giustizia e degli aspetti politici dell’organismo sociale.
Anzitutto, il pensatore francese pone questo problema: il sentimento morale nell’uomo e nell’animale differisce per natura o soltanto per gradi? E arriva alla conclusione che l’uomo è un animale sociale che si distingue dagli altri unicamente per l’alto grado dei suoi istinti di comunità. Perciò i principi di giustizia formano un ramo dell’esistenza sociale dell’uomo. La giustizia non esiste fuori dell’uomo, come una specie di rivelazione, ma è nata direttamente dalla vita associata. I filosofi delle varie scuole e tendenze le hanno applicato migliaia di nomi diversi; l’hanno presentata come un «istinto divino», come «la voce intima della natura», «la legge incisa nei nostri cuori», «l’imperativo categorico della ragion pratica, la quale deriva dalle idee della ragion pura», ecc. ecc. Ma tutte queste son parole che non dicono nulla. Solo quando vediamo nella giustizia il risultato naturale della vita collettiva possiamo formarcene un concetto chiaro. Il diritto è l’incarnazione dei principi che regolano la società. La giustizia, considerata soggettivamente, è il rispetto di quei principi e la loro pratica. Commettere una azione giusta significa né più né meno che obbedire all’istinto sociale; quindi, un atto di giustizia implica un atto sociale.
Proudhon spiega i suoi concetti con i seguenti esempi pratici:
«La madre che difende il figlio con pericolo della vita e si priva di tutto per nutrirlo, si stringe in società con lui ed è una buona madre. Invece, quella che abbandona il figlio è infedele all’istinto sociale, di cui l’amor materno è una delle numerose forme, ed è una madre snaturata.
Se mi getto in acqua per salvare un uomo che è in pericolo di vita, sono suo fratello, suo associato; se, invece di soccorrerlo, lo annego sono il suo nemico, il suo assassino.
Chi pratica la carità, tratta il povero come un associato; certo non come suo associato in tutto e per tutto, ma per quella quantità di bene di cui lo fa partecipe. Chi carpisce con la forza o con l’astuzia ciò che non ha prodotto, distrugge in se stesso la sociabilità ed è un brigante.
Il samaritano che incontrando il viandante caduto per la strada, ne cura le ferite, lo ristora e gli dà danaro, si dichiara suo associato ed è suo prossimo. Il prete che passa accanto allo stesso viandante senza voltarsi, è invece inassociabile e nemico.
In tutti questi casi, l’uomo agisce spinto da una intima inclinazione verso il suo simile, da una segreta simpatia che lo fa amare, sentire e soffrire con quello. Cosicché per resistere a questa inclinazione è necessario uno sforzo della volontà contro la Natura».
In seguito, Proudhon dimostra che anche tra gli animali troviamo il medesimo istinto sociale. La bestia ha le medesime inclinazioni dell’uomo e la differenza sta solo nel diverso grado d’intelligenza.
L’istinto sociale, o meglio la simpatia che proviamo per la convivenza con altri uomini, è irresistibile, cieca, disordinata ed agisce come una calamita. Eppure l’uomo, vivendo in società, è sempre un organismo distinto ovvero un membro particolare di un organismo generale. Nessun altro, se non egli stesso, può soddisfare le sue necessità naturali. Non può trasmettere ad altri la sua vita, i suoi dolori e le sue gioie, né disinteressarsi assolutamente di loro. Ogni uomo è una personalità distinta nella società e questo fatto costituisce la base della giustizia naturale. Insomma, la giustizia è il secondo grado della sociabilità e può essere definita a questo modo: Giustizia è il riconoscimento negli altri di una personalità pari alla nostra.
Siamo ora ad un terzo grado di sociabilità, alla eguaglianza. In fondo, società, giustizia, equità non sono che tre diverse espressioni per uno stesso concetto. Quando un certo numero di uomini si associano per un fine comune, ognuno di loro ha egual diritto sui risultati di codesta unione; cioè i guadagni sono eguali, e così pure le perdite. Questa è l’applicazione pratica della giustizia e dell’eguaglianza sociali. Lo schiavo che lavora per un poco di riso e di paglia o l’operaio moderno al quale il capitalista offre sempre un magro salario, non sono gli associati dei loro padroni, così come il cavallo che trascina il carro o il bue che tira l’aratro non sono gli associati dell’uomo. La situazione del lavoratore e di quelle bestie è identica; se facciamo qualcosa a favore di qualcuno, questo gesto non è una manifestazione di giustizia, ma di bontà personale. Giustizia significa eguale guadagno per eguale lavoro.
I concetti proudhoniani sulla equità e sulla giustizia sono radicalmente diversi dalle nozioni astratte e volgarmente meccaniche che allora sosteneva su quest’argomento il comunismo autoritario. L’eguaglianza di Proudhon implicava il riconoscimento della personalità umana negl’interessi generali. Per i comunisti autoritari d’allora, l’equità era la sottomissione della personalità agl’interessi generali. Per Proudhon l’eguaglianza era un fatto vivo che nasce dalla sociabilità; per i comunisti suoi contemporanei non era altro che un dovere. L’ideale supremo di Proudhon era la personalità libera, e perciò richiedeva l’eguaglianza di condizioni. Invece i comunisti vedevano nell’individualità un pericolo per gl’interessi generali.
È chiaro che uno spirito libero come Proudhon non poteva esser partigiano di tali idee primitive e perciò combatté il comunismo con la stessa energia adoperata contro la proprietà. Egli ha pure dimostrato, e giustamente, che il comunismo autoritario, che in teoria nega la proprietà, va a finire nel regime della proprietà.
«I membri di una società comunista non hanno certamente nulla di proprio; e la comunità è proprietaria, non solo dei beni, ma anche delle persone e delle volontà. Dato questo principio di proprietà sovrana, il lavoro, che per l’uomo non deve esser altro che una condizione imposta dalla Natura, diventa in una comunità di tal genere un ordine umano e quindi odioso. L’obbedienza passiva, che è irriconciliabile con una volontà riflessiva, è osservata rigorosamente. L’osservanza del regolamenti, sempre difettosi, per buoni che siano, impedisce di formulare qualsiasi reclamo; la vita, l’intelligenza, tutte le facoltà dell’uomo sono proprietà dello Stato, il quale ha il diritto di farne l’uso che gli piace nell’interesse generale»... «Il comunismo si basa sulla stessa ineguaglianza che la proprietà è lo sfruttamento del debole da parte del forte, la comunità è lo sfruttamento del forte da parte del debole».
È interessante osservare che già nel primo lavoro sulla proprietà Proudhon considera il comunismo originario della società primitiva e la posteriore nascita della proprietà, non come manifestazioni casuali, ma come forme determinate di una evoluzione storica. Nelle opere successive questa interpretazione si manifesta anche più evidentemente. I marxisti, dunque, non debbono inorgoglirsi tanto delle “scoperte scientifiche” del loro capo spirituale.
Dopo aver dimostrato per mezzo di una serie di paragoni storici e filologici molto acuti che il proprietario, l’antico «eroe», il ladro e il governante sono espressioni diverse di un medesimo concetto, Proudhon esamina le basi del governo. Ogni sistema del governo è dispotico e il dispotismo è logicamente e sentimentalmente connesso all’idea di un’autorità legittima; però non bisogna confonderlo con la funzione dei capi nelle società primitive. Anche gli animali che vivono in società hanno i loro capi, ma questa superiorità è legittima perché si basa unicamente sulla maggiore esperienza e sulle capacità più sviluppate.
L’uomo, che appartiene alla categoria degli animali sociali, ha pure nominato i suoi capi. Al principio erano il padre, il patriarca, la guida, cioè l’uomo di maggiore esperienza; la sua funzione era puramente intellettuale e si basava esclusivamente sull’intelligenza personale. Come tutte le altre specie, la specie umana possiede attitudini ed istinti propri, che nascono con ogni individuo; i capi, i legislatori e i re non hanno inventato queste attitudini e condizioni: la loro attività si ridusse a guidare la società servendosi della loro esperienza, e in tutti i casi si sono regolati secondo l’opinione dei più.
Proudhon stabilisce una notevole differenza tra la monarchia primitiva e il dispotismo. L’esistenza del re si basava anticamente solo sulla sua esperienza personale, sulla sua intelligenza, sulle sue cognizioni. Il suo diploma era naturale, non legittimo. Soltanto con la nascita della proprietà il re si trasforma in un’autorità legittima, così come il proprietario, l’antico «possessore», acquista un carattere dispotico. Quando un uomo occupa una porzione di terra per lavorarla con le sue braccia, questo atto non solo è naturale, ma è anche giusto; ma quando 1’ «occupante» monopolizza una porzione di terra, quando acquista il diritto di «usare e abusare» del suo terreno e si converte in proprietario, allora la sua situazione diventa antisociale.
Lo stesso accade con la monarchia. Finché il capo coadiuva la società con la sua esperienza personale, la sua situazione è naturale e giusta: allora non è altro che un consigliere. Ma quando il consigliere si trasforma in autorità legittima, quando cioè ha il potere d’usare e di abusare della sua situazione, allora diventa un tiranno; la sua situazione diventa antisociale.
Ogni governo, anche il più democratico, è dispotico, perché ha la medesima base. Il costituzionalismo moderno è soltanto una modificazione nella forma ma non nella sostanza e il democratico è in realtà un monarchico. Poco importa che il dispotismo sia incarnato da una sola persona, in un re assoluto, o in una delle 600 teste che godono degli stessi privilegi. «Il proprietario, il ladro, l’eroe, il sovrano, tutti questi nomi sono sinonimi, impongono la loro volontà come legge e non tollerano opposizioni né interventi».
La proprietà e il dispotismo sono strettamente connessi. «Se i beni naturali sono oggetto di proprietà, come possono non esser re i proprietari, e re dispotici, secondo i loro diritti di proprietà? E se ogni proprietario è sovrano nella sfera della sua proprietà, re inviolabile in tutta l’estensione del suo dominio, come può non derivarne un caos e una confusione da un governo costituito di proprietari?».
In quell’epoca in cui il giacobinismo dominava su tutte le menti e nella politica, il concetto proudhoniano dello Stato e della natura dei governi fu ben più che un semplice punto di vista: fu un fatto sociale in tutto il senso della parola. Queste idee erano così nuove in Francia che furono considerate come elucubrazioni di un pazzo o di un criminale. Si può immaginare l’impressione che produssero le seguenti parole in un’epoca in cui era in pieno rigoglio la fede nell’onnipotenza dello Stato.
«Quale forma di governo è preferibile? — Eh! lo chiedete pure, risponde senza dubbio qualcuno del miei più giovani lettori; voi siete repubblicano. — Repubblicano, sì; ma questa parola non precisa nulla. Res publica è la cosa pubblica; ora, chiunque ama la cosa pubblica, sotto qualsiasi forma di governo, può dirsi repubblicano. Anche i re sono repubblicani. — Allora, siete democratico? — No. — Come, sareste monarchico? — No. — Costituzionale? — Dio me ne liberi. — Siete dunque aristocratico? — Per nulla. — Volete un governo misto? — Tanto meno. — Che siete allora? — Sono anarchico».
Proudhon continua ad approfondire il suo punto di vista, dimostrando che il progresso politico dell’umanità si manifesta nella limitazione del potere del governo. Quanto più l’uomo si sviluppa, quanto più delicati si fanno i suoi sentimenti e le sue capacità intellettuali, tanto più comprende come sia superfluo il governo. Il fanciullo vede nel padre un’autorità finché non è uomo: allora scompare l’autorità paterna e il padre prende il posto di un semplice associato. «La proprietà e l’autorità minacciano di crollare dal principio del mondo, e come l’uomo cerca la giustizia nell’eguaglianza così la società aspira all’ordine nell’anarchia».
«Anarchia, assenza di padrone, di sovrano, tale è la forma di governo alla quale ci avviciniamo di giorno in giorno».
Queste sono le idee che Proudhon ha svolto nel suo primo lavoro sulla proprietà. Le abbiamo analizzate con tanta minuzia perché contengono la base di tutte le altre sue opere, in cui ha semplicemente svolto con maggior ampiezza questo o quell’aspetto delle sue idee.
Il libro Che cosa è la proprietà? è una delle opere più geniali che ha mai prodotto la letteratura socialista; e anche quelli che poi combatterono Proudhon con le armi più ignobili, come fecero Marx ed Engels, si videro costretti a riconoscere la grande importanza di quest’opera. Con la apparizione del lavoro di Proudhon si annunziò una nuova tendenza nell’ideologia socialista: la tendenza antiautoritaria, che ebbe poi espressione pratica nel movimento anarchico.
Veramente alcune delle idee di Proudhon già erano state esposte nella celebre opera dell’inglese William Godwin: Ricerche sulla giustizia politica (1793) e negli scritti economici di John Grey; ma queste opere erano quasi sconosciute nel continente e non hanno esercitato nessuna influenza sui paesi europei. Fu il libro di Proudhon ad aprir la via ai nuovi orientamenti di un socialismo libero e antistatale.
[L’Adunata dei Refrattari, anno IV, n. 12 del 3 aprile, n. 13 del 10 aprile, n. 14 del 17 aprile, n. 15 del 24 aprile 1926]
http://www.finimondo.org/node/559
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